Come cambia la rappresentazione del Diavolo nel corso dei secoli? E perché cambia? Una recensione del “Ritratto del Diavolo” di Daniel Arasse (Nottetempo, 2012).
A certi maestri bastano talvolta poche pagine per definire un progetto ed esprimere un metodo, lasciando a chi legge e chi segue il compito di mantenere aperto il cantiere.
Quello pubblicato da Nottetempo nell’ottobre 2012 è un piccolo libro, ricco di illustrazioni, dedicato a un tema circoscritto e circoscrivibile nella storia delle arti e tuttavia aperto, esorbitante, carico di implicazioni antropologiche, sociali, politiche.
Come cambia la rappresentazione del Diavolo nel corso dei secoli? E perché cambia?
Sulla scorta delle ricerche condotte sulla pittura fra il Trecento e il Cinquecento, il grande storico dell’arte Daniel Arasse, prematuramente scomparso nel 2003, si rende conto che in quello stesso periodo – tra la fine del Medioevo e l’affermazione della cultura dell’Umanesimo – si verifica una trasformazione radicale dell’iconografia diabolica e si definisce una nuova funzione della rappresentazione del Diavolo che si protrae fino al presente.
Nel XIV e ancora nel XV secolo, il diavolo è “ritratto” come un essere spaventoso e mostruoso, caratterizzato da elementi figurativi extra ordinari. Nel riferirsi al genere pittorico del ritratto – che tradizionalmente non prevedeva la presenza del modello davanti al pittore, ma che identificava una tipologia – Arasse sottolinea da subito l’importanza di rappresentare il Diavolo come una figura dai tratti compositi e tuttavia ben codificati; esso
risulta dal montaggio di molteplici elementi nei quali si incontrano e fondono diverse tradizioni: quella dei marginalia medievali, quella dei mostri dell’antichità e quella, ancora più vasta, degli esseri fantastici orientali e dell’Estremo Oriente[1].
Il Diavolo è concepito in quanto altro da Dio e dunque radicalmente altro dall’uomo; al massimo, con la sua condotta e con le sue scelte, l’uomo può tendervi, può cedere alla tentazione, cedere al vizio. Come ancora si può leggere nelle parole scritte alla metà del Cinquecento del frate domenicano Girolamo Savonarola – che Arasse assume ad esempio per esprimere la funzione dirimente del ritratto del Diavolo nei confronti del devoto –, “la morte ti sta sempre incontro per levarti di questa vita quasi dicendoti: […] quarda, dove vuoi tu andar? O quasù in paradiso, o quagiù in inferno?”[2].
Che si tratti di incisioni del XV secolo raffiguranti la Tentazione e il Peccato o della ripresa dell’iconografia diabolica medievale nella propaganda antiromana di Martin Lutero – ma ancora si potrebbero aggiungere molti altri esempi a quelli citati da Arasse –, l’obiettivo di immagini così concepite è quello di offrire allo spettatore una rappresentazione capace di suscitare un immediato riconoscimento del Demonio nella sua alterità radicale rispetto all’umano e dunque suscitare un sentimento di paura e orrore, qualcosa come un sacro terrore: “il vandalismo di cui spesso erano oggetto le rappresentazioni del Diavolo, graffiate e cancellate dai devoti”, spiega Arasse, “mostra come la paura venisse superata attraverso una risposta quasi magica all’immagine”[3].
All’interno della cultura visuale precedente o antagonista a quella umanistica, il Diavolo non assomiglia a null’altro che a una tipologia. È una figura segnaletica, un promemoria, un memento, un’immagine finalizzata a indicare al cristiano ciò che lo attende se non conduce una vita virtuosa. La sua funzione è mnemonica e i suoi ritratti costituiscono una mnemotecnica per lo spettatore.
Qualcosa succede, poi, secondo Arasse, tra il Quattrocento e il Cinquecento, sotto l’influenza degli umanisti italiani. L’immagine del Diavolo non coincide più con un sistema codificato di mostruosità che devono essere identificate e temute ma si rende somigliante all’uomo, assume una potenza retorica ed è finalizzata a suscitare emozioni. La modernità, scrive Arasse “implica una personalizzazione del suo rapporto con la colpa e con il Diavolo”[4].
Da parte sua, la Chiesa, a seguito della rivoluzione umanistica, e soprattutto dopo il Concilio di Trento, critica severamente e proibisce la raffigurazione di immagini d’ispirazione pagana e dunque rifiuta ogni rappresentazione del Diavolo che non sia conforme alla nuova sensibilità. Le immagini che si sviluppano a partire da tale svolta, laica e religiosa al contempo, non chiedono semplicemente di essere riconosciute, ma invitano lo spettatore ad entrare in un rapporto di identificazione, positiva o negativa, con i personaggi rappresentati.
Come nel Giudizio universale (1535-1541) di Michelangelo la figura di Minosse è raffigurata sotto sembianze umane – stando a Vasari si tratta di un vero e proprio ritratto del maestro di cerimonie del Vaticano realizzato per vendetta dal Buonarroti –, così nell’iconografia pittorica del Cinquecento il Diavolo assume tratti realistici, acquisisce sembianze umane. Un realismo che non costituisce affatto un “passo in avanti” della tecnica verso il raggiungimento di una presunta oggettività pittorica, ma è piuttosto il correlato artistico di una nuova funzione sociale e politica delle immagini. Se la figura di Cristo – con le proprie posture e la propria gestualità – diventa il principio di “conformazione” verso il quale deve tendere il devoto per accedere alla salvazione, la figura demoniaca che si caratterizza per una mobilità bloccata – si noti il grande serpente che avvolge e immobilizza il corpo di Minosse – è il principio di una conformazione negativa: incarna la dannazione e la restituisce in quanto condizione di un’umanità deviata[5].
Un passaggio, quello dalla “figura-ritratto” del Diavolo tradizionale alla figura umana come “ritratto diabolico” che, secondo Arasse, tocca il suo apice nel Castigo dei dannati realizzato tra il 1499 e il 1503 a Orvieto da Luca Signorelli. Come mostra il rapporto tra le diverse figure rappresentate, il Diavolo non è più l’altro rispetto al Divino e all’umano, ma è coestensivo all’umano:
è nel volto in modo particolare che si mostra la maschera del Diavolo, attraverso ciò che potremmo definire la bruttezza diabolica, indice fisico di una bruttezza morale[6].
In questo nuovo paradigma teologico ed estetico, prosegue lo storico dell’arte, “ogni deformazione dell’ideale è un difetto, e la bruttezza è un segno del male e del peccato”[7].
L’argomentazione di Arasse si sostanzia prendendo in esame le deformazioni delle proporzioni del corpo umano nelle opere di Sodoma, Bosch e Dürer, fino alle rappresentazioni delle sedute di esorcismo pubblico delle seconda metà del XVI secolo, cercando sempre di mettere in relazione le soluzioni espressive con gli orientamenti culturali e teologici corrispondenti. Nel tratteggiare un percorso iconografico attraverso i secoli, lo storico dell’arte mette continuamente in rilievo le implicazioni molteplici dell’immaginazione. Immaginare il Diavolo significa infatti stabilire criteri d’identificazione e valorizzazione dell’umano, nonché definire pratiche sociali di inclusione ed esclusione dell’alterità.
Come si è visto, tra il Quattrocento e il Cinquecento il diabolico fa ritorno dall’ordine del fantastico per essere pensato e rappresentato come immanente alla vita degli uomini. Ma quali sono le ripercussione e le evoluzioni di tale svolta estetica, religiosa e politica nei secoli successivi?
Storico dell’arte attento e rigoroso, Arasse non ha mai smesso di riflettere sugli anacronismi insiti nel proprio mestiere e, alla fine del percorso, non si esime dal proiettare sulle immagini d’oggi il problema artistico individuato[8]. Che cosa diventa il ritratto del Diavolo nella società perlopiù laica e scientifica del XIX e del XX secolo? Che cosa ci dice l’evoluzione del “ritratto” del Diavolo nel corso dei secoli rispetto alle forme di rappresentazione dell’alterità nella società contemporanea?
Il suo tentativo di aprire la storia dell’arte all’esercizio di un’iconologia del presente lo porta a concentrarsi sull’antropometria giudiziaria di Cesare Lombroso e in particolare sul suo Atlante dell’uomo delinquente, dove la fisiognomica permetteva di stabilire il temperamento, la malvagità e la pericolosità sociale degli individui. Qui, come nei ritratti diabolici del Cinquecento, i tratti di esteriorità nella rappresentazione dell’umano costituiscono una forma di valorizzazione, discriminazione e controllo sociale.
Il libro di Arasse dischiude un’ampia prospettiva di ricerca sulle immagini del Male dal passato al presente, in qualche modo corrispondente alle ricerche genealogiche sull’anormalità condotte da Michel Foucault[9]. Il suo lavoro mostra come all’interno di uno stato di diritto e in una società laica, le forme di vita tendano comunque a definirsi secondo i criteri della “conformità” e della “non conformità” figurativa rispetto a un modello:
costretto ad abbandonare il regno della morale religiosa, il Diavolo si trasferisce dunque in quello della morale sociale, i cui si manifesta come anomalia umana, come criminale e mostro sociale, esorcizzato dall’antropometria giudiziaria[10].
Con l’ultima pagina del Ritratto del Diavolo, Arasse ribadisce l’importanza di studiare in dettaglio la storia dell’arte per fare ritorno al contemporaneo, lasciando al lettore e allo spettatore il compito di proseguire il lavoro.
Così, fuori dai margini del libro, è forse lecito accennare un prolungamento del progetto di iconologia diabolica intrapreso da Daniel Arasse e rintracciarne la sopravvivenza nelle fotografie scientifiche realizzate, nei primi decenni del Novecento, dagli antropologi razzisti nel continente Africano. Si pensa ad esempio alle foto scattate e montate da Lidio Cipriani – il maggiore teorico del razzismo antinero fascista – nel corso degli anni Trenta, dove i boscimani sono rappresentati di prospetto e di profilo, mentre la differenza dei loro tratti somatici (colore della pelle, forma del naso, grandezza e forma della testa) rispetto all’ideale ariano assume la funzione di indice di una ridotta capacita psichica, nonché prova di una inferiorità culturale e di una minaccia sociale[11]. Una rappresentazione dell’altro che dischiude e giustifica al livello dell’immaginario gli interventi coloniali nel continente africano.
Proseguendo per salti, e non senza il gusto della provocazione, in questo esercizio anacronistico con la storia delle arti e delle immagini, il ritratto del Diavolo potrebbe trovare un’ulteriore forma di attualizzazione nella tendenza culturale dell’orientalismo e nelle forme di neo-orientalismo. Che cosa più della rappresentazione dell’altro secondo tratti figurativi esotici, caricaturali, malefici e diabolici, può giustificare presso la pubblica opinione l’apertura di conflitti e pratiche di neo-colonialismo?
È a partire da questa domanda e dalla serie iconografica che la precede che il cinema hollywoodiano della seconda metà del XX secolo può essere analizzato come un campionario di ritratti diabolici in chiave arabo-islamica: un tema trattato nel film di montaggio Reel Bad Arabs (2006) di Jack Shaeen.
Gli esempi di quest’ultima tendenza potrebbero essere molti (da Robert Zemeckis a Walt Disney) e ripetitivi.
Ma anziché produrre un elenco, vale piuttosto la pena soffermarsi su un’immagine singola per notare come, all’ingresso del nuovo millennio, il ritratto del Diavolo appaia inaspettatamente su una delle facciate delle Twin Towers, colpita dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Nella colonna di fumo che si leva dall’edificio, si invita a riconoscere il volto del Maligno.
“Is this the face of evil?” si domandano i media.
Una domanda, di certo, rimasta senza risposta, capace tuttavia di affermare l’esistenza di un Diavolo finalmente “portatile”. Un Diavolo capace di identificarsi con i tratti figurativi della catastrofe stessa e di indicare allo spettatore il controcampo geopolitico verso il quale orientare la risposta ideologica e militare: il luogo della sua provenienza, lo “Stato canaglia”, la Terra dei diavoli.
È nell’immagine delle Twin Towers e nella polverizzazione del ritratto del Diavolo – un Diavolo capace di trasmigrare ed essere riconosciuto, all’occorrenza, sulla scena di ogni evento traumatico per orientare e giustificare ogni reazione – che può provvisoriamente concludersi l’abbozzo di un’iconologia del presente. È qui, forse, che si ritrova al massimo grado il principio di secolarizzazione dell’iconografia religiosa rilevato da Arasse, e così l’efficacia assunta dalle immagini nelle pratiche governamentali del nostro tempo.
[In occasione della recensione al libro di Daniel Arasse, segnaliamo la petizione per il ripristino della Storia dell’arte nelle scuole italiane]
Note
[1] D. Arasse, Le portrait du Diable, ARKHÊ, Paris 2009, tr. it. di A. Trocchi, Il ritratto del Diavolo, Nottetempo, Roma 2012, p. 28.
[2] G. Savonarola, Molti devotissimi trattati … ad esortatione delli fideli … Christiani, 1547, p. 214.
[3] D. Arasse, Il ritratto del Diavolo, cit., p. 36.
[4] Ibidem.
[5] Sul Giudizio di Michelangelo come dispositivo devozionale che produce la “conformazione” dello spettatore, vedi G. Careri, Fine del tempo della storia e composizione del corpo glorioso: riflessioni sulla Cappella Sistina, in D. Guastini, D. Cecchi, A. Campo (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La Casa Usher, Firenze 2011 pp. 74-88. Sul concetto di “conformazione” si può vedere l’intervista realizzata da Stefano Jacoviello a Giovanni Careri e pubblicata qui.
[6] D. Arasse, Il ritratto del Diavolo, cit., p. 47.
[7] Ibidem.
[8] Vedi la raccolta di saggi pubblicata postuma, D. Arasse, Anachroniques, Gallimard, Paris 2006.
[9] Vedi, M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France (1974-1975), Seuil, Paris 1999, tr. it. di V. Marchetti, A. Salomoni, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2009.
[10] D. Arasse, Il ritratto del Diavolo, cit., p. 55.
[11] Sul materiale iconografico prodotto da Lidio Cipriani, vedi O. Paris, Guardare l’altro: il razzismo biologico di Lidio Cipriani, in M. Serra, En torno a la semiótica de la cultura, Fragua, Madrid 2012.