Non uccidete la rosa rossa

Avviamo, a partire da oggi, un approfondimento in tre parti dedicato alla situazione greca.  In attesa del referendum di domenica, una riflessione sulla dialettica tra il Fondo Monetario Internazionale e la Grecia.

Christine Lagarde ha fatto un buon servizio alla causa del popolo greco. Il suo rifiuto all’ultima proposta Tsipras-Varoufakis – quasi una capitolazione nella quale si rinunciava a molti punti del programma di Salonicco – ha reso chiaro a tutti la posta in gioco: chi non la vede – i giornali italiani cosiddetti indipendenti, per esempio – è solo il megafono di uno storytelling finalmente soppiantato. Secondo il FMI, Syriza deve applicare i dettami dei vari, precedenti memoranda; il cambio di nome della Troïka (le “istituzioni”) è qualcosa che deve aver fatto sorridere i burocrati delle poltrone di pelle di New York: e questo la dice lunga sulla compatibilità tra meccanismi democratici tradizionali e rappresentativi e strutture di governo finanziario transnazionale. In fondo si tratta di quel punto morto della modernità parlamentare che il movimento no-global, in tutte le sue anime, aveva ampiamente denunciato già molto tempo addietro. I parlamenti, secondo il Fondo Monetario Internazionale, devono essere degli organi di ratifica; i governi, degli efficaci minculpop delle decisioni prese altrove e in maniera piuttosto opaca.

A rileggere, però, la controproposta del FMI, che coincide in tutto e per tutto con le richieste già fatte ai precedenti governi greci, non solo si rimane impressionati dalla sfacciata crudeltà del neoliberismo in giacca e cravatta – stiamo parlando, tra le altre cose, di tasse sui farmaci, niente di più della vecchia tassa sul macinato repressa nel sangue dal generale Cadorna nel feroce battesimo dell’apparato statale unitario – ma soprattutto dall’idea di una sfida, di una dichiarazione di guerra a un nuovo modo di raccontare l’Europa e di far rientrare, nel suo spazio, il gioco della rappresentanza. Perché il grande limite dell’azione di Syriza è stato finora quello di mantenersi all’interno non tanto dello spazio europeo, della moneta e delle istituzioni, quanto quello di sposarne interamente l’ordine del discorso. Pur ammettendo la giustezza della partita riformista, più o meno radicale, giocata da Tsipras nella prospettiva di un risultato che fosse valevole per la Grecia come per l’altra esperienza di alternativa in campo, e cioè Podemos, probabilmente l’errore è stato accettare che il campo da gioco fosse scelto dagli avversari. La trattativa, per come si è imposta, è stata una partita fuori casa, per Tsipras, e sugli spalti sparutissima era la tifoseria per la squadra degli ospiti.

Ma dopo il discorso con cui il primo ministro al popolo greco ha annunciato il referendum, svolto in maniera drammatica, di notte, tutto è cambiato. Se la mossa del FMI ha dimostrato che anche l’Europa delle banche, l’Europa tecnocratica, è un’Europa integralmente e aggressivamente politica, allo stesso tempo essa ha anche esplicitato che questa Europa vuole dimostrare di non aver paura, vuole dimostrare che avere la carta dell’uscita dall’euro non è un punto di forza. La reazione isterica all’ipotesi di referendum, all’idea di una consultazione popolare, è l’emersione, più o meno inconscia, che la violenza con cui le istituzioni europee hanno condotto la contrattazione è, come ogni forma di aggressività, uno squarcio sulla posizione di debolezza in cui queste istituzioni inevitabilmente si trovano. Debolezza psicologica, certo, ma anche storica, rispetto alla storia europea e in particolare rispetto al quadro ideologico radicalmente democratico che ne ha caratterizzato la fondazione nei circoli antifascisti prima e durante la seconda guerra mondiale: una memoria che ritorna come un rimosso, che crea vischiosità ideologica anche nei puri tecnici della politica del post-89 come un Djisselbloem.

La chiave del dilemma politico sta qui: in quella impossibile coesistenza tra amore e paura che è l’essenza della politica, e che ci induce, come dice Machiavelli, a preferire la situazione di incutere timore più che quella di attrarre un paterno e velenoso affetto. Indicendo il referendum, Alexis si è finalmente reso conto che è adesso il momento del bivio: «Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio». Se si vuole restare nella tana del bianconiglio, al tavolo delle trattative, ebbene bisogna guardare sotto al tavolo. Deve essere chiaro e sostanzialmente vero – non, come nell’ordine del discorso europeo, falsamente vero – che ciò che si contratta è il bene comune e non il bene dei pochi. «Spezzare il pan degli angeli» significa trasmettere ora il potere dai pochi ai molti. Il referendum di domenica è questo nuovo convivio europeo.

Atene sta costruendo una nuova Weimar: fragile e tragica. Essa può consumare la propria esistenza nel fuoco di un’illusione tecnocratico-parlamentare, ma se opera seguendo il modello storico appena evocato, la strada è segnata. Ed è un percorso che porta necessariamente all’arresto della Rosa rossa, al sua prigionia, alla sua morte. Ma la Weimar di oggi ha deciso dove stare. Ha individuato correttamente il soggetto che può e deve sostenere questa sopravvivenza. Se la trattativa è fatta per i molti, ebbene sono proprio i molti quelli che sono stati estromessi dal tavolo fino a oggi. Se i molti sono il grande, sempre più ampio, ventaglio degli esclusi dalle decisioni e dalla rappresentanza e rappresentazione politica – lo chiamo volentieri, con Laclau, popolo – ebbene, la consultazione del popolo è la variabile che mancava alla partita politica, e che la mossa del governo greco ha finalmente attivato in maniera decisiva e anche affascinante. Non solo: la tragica partita di giovedì interroga a fortiori l’intero arco delle forze di alternativa nel continente europeo, ci spinge a una collocazione e a una presa di posizione, ci fornisce il quadro di narrazione di una grammatica comune che dia una forma altrettanto transnazionale alla battaglia politica di Tsipras.

Perché ora ciò che manca davvero in questo scacchiere è un profilo non nazionale, o meglio non grammaticalmente nazionale, di un soggetto europeo alternativo. Sia Syriza sia Podemos non sfuggono all’ancoraggio sovranista dell’ipotesi, possibile, dell’europeismo critico: ma è questa l’eredità avvelenata, che ci espone, tra l’altro, a un rischio di ontologia fascista, come direbbe Žižek. Perché se la battaglia della Grecia sarà solitaria e sconfitta, c’è soprattutto questa prospettiva da affrontare: ogni antieuropeismo sarà difficilmente riconducibile a un alveo progressista, e tantomeno radicale. Per dimostrare che l’aggressione del FMI è segno di una debolezza e non di forza, va tessuta la tela di un popolo europeo (e se si vuole anche di un populismo radicale di sinistra). Una mobilitazione di sostegno al referendum è la straordinaria possibilità, anche per gli intellettuali, di superare quello stato di minorità a cui ci ha condannato un troppo lungo conformismo neoliberale. Dobbiamo avere il coraggio cognitivo di pensare il conflitto, oggi, di calarlo nell’incertezza del presente, nella tragicità del domani. Solo così, noi tutti, non uccideremo la rosa rossa.

 

[Antonio Montefusco, Ph.D. Romance Studies, “Heinrich Heine” Universität – Düsseldorf, Università Ca’ Foscari di Venezia]

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