Non si dà vita vera se non nella falsa

Riproponiamo un testo di Franco Fortini pubblicato nel 1971 da Guaraldi Editore in una raccolta di contributi dal titolo “Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista. Prosecuzione di un dibattito iniziato in un altro libro, “Politica culturale?”(1970), “Contro l’industria culturale” raccoglieva saggi di analisi sul funzionamento della «macchina dell’organizzazione della cultura, come si struttura e si articola il campo intellettuale, quali rapporti intercorrono tra i vari linguaggi e i vari media».

Parte del libro era costituita da un questionario a cui Fortini ha risposto con un saggio intitolato “Non si dà vita vera se non nella falsa” che qui ripubblichiamo. Un saggio in cui all’analisi della macchina culturale si aggiungono interessanti riflessioni sul lavoro culturale e sulle possibili strategie di organizzazione politica, volte a generalizzare la lotta del settore culturale in un più ampio scontro contro lo sfruttamento.

 Vi è una tendenza in atto in tutto il settore dell’organizzazione della cultura e dell’industria culturale a passare da una gestione di tipo paleo-capitalistico a una gestione di tipo neo-capitalistico. Ciò significa che il settore più consapevole della classe dirigente tenta di far passare anche in campo culturale quel disegno di razionalizzazione produttiva e organizzativa che è già passato a livello di azienda industriale. È il modello aziendale neo-capitalistico che si sta tentando di esportare negli altri settori della società. [es. nuova linea della Confindustria sul fronte della stampa quotidiana e disimpegno politico (Cefis): riforma della Rai-Tv e a questa collegato nuovo piano di intervento statale (IRI) nel cinema; piano IRI nel settore culturale e ventilato accordo anche in questo settore con alcune industrie del settore privato – v. cinevideocassette, che rappresenta il probabile punto di incontro tra i big del settore pubblico (Ente cinema, IRI, Rai-Tv) e del settore privato (Agnelli, Pirelli, Zanussi, Mondadori, De Laurentis) tra cinema, televisione, editoria; situazione di crisi dell’industria libraria, fusioni, accordi e concentrazioni in corso, ecc.]. In questo contesto non pensate che il discorso partecipativo e cogestionale portato avanti anche dalla sinistra più istituzionale più avanzata (PCI, PSIUP, sinistra PSI) finisca per essere obiettivamente un discorso di copertura del disegno di razionalizzazione?

1. Fortini  Certamente. Ma c’è una contraddizione che non permette di rispondere con un semplice sì. Nei settori dell’organizzazione e dell’industria culturale la razionalizzazione è, essa stessa, un problema culturale. Se si tiene presente che una cultura organizzata alternativa a quella dominante non esiste né, a mio avviso, può esistere (esistono conflitti di valori e di ideologie, cioè altra cosa), in una certa misura la partecipazione è inevitabile; e dati risultati artistici, tecnici, o scientifici autentici si danno, è chiaro, anche nei termini della mistificazione che accompagna l’insieme della pratica artistica, tecnica e scientifica neocapitalista. Dice Adorno: non si dà vita vera nella falsa. Correggerei (tutto sommato, con Lenin): non si dà vita vera se non nella falsa.

 Se questa analisi di fondo è esatta assisteremo nei prossimi anni a una lotta tra chi porta avanti il disegno di razionalizzazione e chi vi si oppone in nome di vecchi interessi di casta, corporativi, di retroguardia. Quale deve essere una linea di sinistra? Limitarsi a constatare che è meglio un padrone neo-capitalista a un “padrone delle ferriere”? Portare avanti un disegno riformistico che faccia leva sull’intervento pubblico come alternativo a quello privato e garante degli spazi di libertà? Inserirsi nella lotta in corso evidenziandone il significato, mobilitando larghi strati di operatori culturali e di pubblico in funzione di obiettivi più avanzati di quelli meramente partecipativi?

2. Fortini – Come ho detto, battersi per quelle riforme che rendano più acute e visibili le contraddizioni dell’ordine neocapitalista. Ad esempio: la scuola media superiore per tutti, al più alto livello di qualità didattica e di disciplina formatrice, è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico che vuole bensì la scuola per tutti ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione.

Q   A noi sembra che inserirsi nella lotta in corso e dargli sbocchi avanzati significhi per l’operatore culturale (l’intellettuale) politicizzare il proprio lavoro creativo, organizzativo, di ricerca nell’unico modo possibile ponendosi cioè in modo diverso in rapporto con il pubblico e con gli strumenti di produzione. Ciò significa: 1. Considerarsi come forza lavoro e quindi cogliersi come un “momento” del processo produttivo; 2. Lottare per impadronirsi, insieme con gli altri lavoratori, degli strumenti di produzione per gestirli in modo nuovo e alternativo.

 Questo schema di riferimento dovrebbe togliere di mezzo gli equivoci corporativi che si annidano sempre in ogni discorso partecipativo e cogestionale avanzato in sede culturale. La tendenza cioè a considerare il lavoro culturale fuori dalle leggi del sistema capitalistico.

D’altra parte il “prodotto” e il “consumo” culturale hanno un loro carattere specifico che non può essere confuso con qualsiasi altro prodotto anche se il sistema capitalistico tende sempre più a imporlo sul mercato con tecniche analoghe a quelle usate per i beni non culturali. (A questo proposito sono comunque da evidenziare le differenze tra le aziende la cui sopravvivenza è legata al mercato da quelle, tipo Rai-tv, che possono prescindere dal mercato). Anche il livello dell’organizzazione del lavoro esistente in un’industria culturale è diverso da quello esistente in un’azienda industriale o in un’azienda di servizi.

3. Fortini – Più che una domanda, questa è una serie di enunciati. Rifiuto l’idea che gli “operatori culturali” debbano impadronirsi degli strumenti di produzione e gestirli in modo nuovo e alternativo. È una ipotesi che può essere presa in considerazione solo per limitate finalità – la cogestione praticata in qualche iniziativa editoriale francese o tedesca – e a patto di sapere che appartiene al repertorio più inutile del riformismo; autogestione, appunto, cooperazione eccetera. Bisogna impadronirsi del potere non degli strumenti di produzione; peggio per chi ormai non vede la differenza. È essenziale che l’operatore culturale si consideri forza-lavoro e si colga come momento del processo produttivo; soprattutto se è immerso nella ideologia mistificatrice che tende a nasconderglielo. Ma stiamo in guardia. L’idea che l’intellettuale sia forza-lavoro è già nel Manifesto e magari è anche prima, in Balzac o in Diderot. Se per distruggere i miti mandarinali si vuol provare che il settore culturale non esula dalle leggi del settore capitalistico, d’accordo; e se questo serve ad accennare ad una società nella quale la scomparsa o la diminuzione della divisione del lavoro annichili o attenui la millenaria separazione che fonda l’ideologia della “cultura”, d’accordo. Ma esistono gradi diversi fra le “operazioni culturali”; e fra queste ve ne sono alcune nelle quali (come talune operazioni non-culturali – e mi scuso per la rozzezza di queste distinzioni verbali – quali il giuoco, l’eros, lo sport, l’attività artistica e artigianale) le differenze da altri prodotti similari debbono prevalere sulle somiglianze, ossia per le quali è necessario introdurre criteri e giudizi qualitativi o di valore non per qualche loro magica virtù o per la tradizione che le circonda di mistero ma perché sono le immagini e i modelli meno corrotti e soli disponibili, di una produzione e consumo della vita sottratti alle leggi del profitto e dello sfruttamento. Il cosiddetto “lavoro culturale” convoglia sempre, oltre ai suoi soggetti specifici (invenzione, informazione, trasmissione di conoscenze ecc.) un suo significato secondo: la “culturalità”. Questa “culturalità”, direi abbia un duplice aspetto: per un verso è una delle fondamentali emissioni ideologiche della società (e quindi della sua struttura classista) e per un altro è il segno di una esigenza e di una espressione degli uomini, che meglio si direbbe esigenze ed espressioni “intellettuali”. Se la massima parte del “lavoro culturale” è normale lavoro impiegatizio, tecnico o burocratico (e come tale andrebbe considerato e organizzato), se anche quella parte del “lavoro culturale” che è meno ripetitivo e più ricco di intenzionalità (certe fasi dello studio, della ricerca, della formazione artistica ecc.) non è fuori davvero dalle leggi del sistema capitalistico, credo errato identificare il “lavoro culturale” (nella sua più visibile forma di “industria culturale” capitalistica) col lavoro della casta degli “addetti all’ideologia” ossia con quel ceto che fu chiamato degli “intellettuali” e che ha come sua caratteristica di contribuire in misura eminente, rispetto ad altri ceti, alla produzione continua di “interpretazioni del mondo” o verbalizzazioni, insomma di ideologia.  Questo ceto non corrisponde necessariamente agli addetti al “lavoro culturale”: docenti universitari, ricercatori e burocrati della Tv possono benissimo convogliare quasi passivamente le formulazioni ideologiche (o si dica: la “cultura”) correnti; mentre certe categorie di insegnanti, di militanti politici, di professionisti ecc. svolgono chiaramente la funzione che fu delle antiche intelligentzie. Questa funzione – ecco il punto – viene certo esercitata entro le leggi generali del sistema capitalistico ma non è svolta solo dagli “intellettuali organici” del sistema. E d’altronde ognuno di essi è solo in parte organico al sistema, esattamente come il singolo operaio partecipa allo sfruttamento di cui è vittima, e nega in quanto parte della propria classe quella società che in quanto individuo forse coscientemente conferma. Insomma la serie di equivalenze intellettuale = operatore culturale = lavoratore dell’industria culturale = lavoratore tout court (cioè sfruttato ecc.) è ingannevole.

In una misura molto diversa da caso a caso e per ogni specifico tipo di lavoro intellettuale, l’operatore culturale – nella sua dimensione di elaboratore più o meno conscio di interpretazioni del mondo ossia di ideologie – è colui che opera con più sistemi di segni e di valori; la sua “cultura” è anche “cultura dell’opposizione”. Tali sistemi possono essere, anzi sono spesso antagonistici; ma questo non significa affatto che si possa parlare di “cultura operaia” o “rivoluzionaria” perché il dominante, il “sistema dei sistemi” è ovviamente quello capitalistico.

Allora affermare che l’intellettuale “operatore culturale” è un lavoratore come un altro, che cosa significa? Se vuol significare che egli debba misurarsi con altri lavoratori, di altre specialità, per fini comuni, sarà inutile dirsi d’accordo ma meno inutile rammentare che, per non essere chiacchiera, ciò implica un disegno strategico e uno tattico. Ma se – al fine di esortarlo a salutare modestia – deve servire solo a farlo restare, anzi a dargli la coscienza di essere, una deforme figura, colpevole perché privilegiata, questo significa in verità confermarlo nel proprio ruolo sociale. L’apprensione della propria condizione di forza-lavoro vale insomma solo se è seguita dall’apprensione della propria specificità: è questo secondo ed ulteriore momento che veramente ci distanzia dagli ideologici fantasmi di privilegio. Viene perfino il sospetto che la fissazione a quel ruolo adempia una funzione rituale: come dimostrerebbe la ininterrotta esposizione degli intellettuali alla denuncia politica nei partiti e nei governi comunisti e, al tempo stesso,  la loro ininterrotta conferma nel ruolo.

Alla domanda “tu, da che parte stai?”, l’interrogato, in quanto “operatore culturale” deve rispondere indicando la parte dei lavoratori come lui alienati e sfruttati; e agire di conseguenza. Ma lo “specialista dei sistemi di segni e di valori” – che può essere e può non essere “operatore culturale” e “lavoratore culturale” e che è implicato tanto nell’intellettuale umanistico tradizionale quanto nell’odierno intellettuale di mentalità scientifica e nell’organizzatore politico, nell’insegnante ecc. – non può non rispondere se non operando dei sistemi di cui dispone. Il suo indice sarà così rivolto alla propria contraddittorietà, perché intrinseca nella propria funzione.

  In questa prospettiva e su questa linea ci sembra necessario che un gruppo omogeneo riesca a proporre una piattaforma politica che dia risposte corrette e generalizzabili ai seguenti interrogativi (ai quali si è in parte risposto nelle sedi più disparate):

1. Quali sono le linee di tendenza emergenti nel settore privato e in quello pubblico (nelle strutture arretrate e in quelle avanzate)?

2. Quali possono essere gli schemi di riferimento generalizzabili su: ruolo della cultura e strutture culturali, effetti dei mezzi di comunicazione di massa, bisogni alternativi non indotti?

3. Qual è il ruolo di classe degli operatori culturali, quello “oggettivo” e quello “vissuto” (condizioni di lavoro, ruolo specifico, ecc.)?

4. Quali possono essere le linee di azione e di intervento possibili in rapporto a:

a) Forze politiche e sindacali?

b)  Ruolo dell’industria privata e pubblica (profit oriented values oriented)?

c) Ruolo dell’intervento pubblico (Stato, enti locali, ecc)?

d) Possibilità reali di autogestione delle lotte e degli interventi come se ci fosse un nuovo partito politico a cui far riferimento?

4. (1) Fortini – Una risposta seria può essere formulata solo alla fine di una ricerca. Le mie non sono quindi che impressioni personali. La linea sembra essere quella d’una apparente democratizzazione dell’accesso al sapere cui fa riscontro un sistema di selezione spacciato per meritocrazia e sostanzialmente volto a costituire una casta, con varie procedure di cooptazione. Il controllo ideologico diverrà sempre meno visibile perché sempre meno importante sarà quel che uno sappia o pensi o voti in confronto al luogo che occuperà nella funzione produttiva, ossia al ruolo.

Ma questa mi pare sia solo la tendenza di fondo. In pratica e nell’immediato futuro, la linea della grande e media industria privata in Italia continuerà ad essere ancora volta ad un solido controllo ideologico (editoria raggruppata a seconda del tipo di destinatari e del volume di copie, periodici e quotidiani direttamente orientati alle industrie, fondazioni rivolte soprattutto a indagini sociologiche in funzione di controllo, ricerca scientifica di parata ecc.). L’intervento dello Stato avrà un altro compito: da un lato, di adeguamento alle esigenze “moderne” della grande industria (ad esempio prossimo boom degli audiovisivi e della elettronica nella scuola ecc.) dall’altro di mantenere il controllo “arretrato” sulle grandi masse entro le quali i dislivelli, internazionale e nazionale, degli sviluppi culturali dovranno essere mantenuti e riprodotti (prolungamento della scolarità e sua degradazione, scala infinita di linguaggi, esaltazione delle attività mandarinali travestite da scientifiche ecc.).
[…]
 (3) Non posso parlare per gli altri. In quanto insegnante (in un istituto tecnico statale) credo che il ruolo di classe di una parte almeno degli insegnanti non sia interamente riducibile a quello di “cane da guardia” del capitale e proprio per le ragioni dette nel n. 3: la “funzione” mantiene ancora un suo significato positivo non in quanto erede della ideologia liberale ottocentesca di scuola “statale” (e quindi “pubblica” e “civica”) ma, anzi, proprio perché la disgregazione della scuola di stato vetero-borghese consente oggi di fatto una sperimentazione di modelli di insegnamento altrimenti impossibile. In quanto consulente editoriale, la mia condizione è in parte quella di una doppia identità (vedi al n. 3): la lealtà al datore di lavoro è di specie tecnica (i pareri editoriali, ad esempio) ed ogni altro contributo è, in genere, tacitamente evitato e acquistato con riduzione di possibilità, inesistenza di “carriera” ecc. Come scrittore, partecipo di tutte le servitù della mia classe e del mio ceto. Esse sono la materia stessa del mio lavoro di poeta e di critico e la condizione per oltrepassarla, letteralmente, a parole.
[…]
(d) Organizzare il conflitto fra momenti “avanzati” e “non avanzati” è compito di un partito politico; che non si identifichi, naturalmente, né coi primi né coi secondi. Esso comincia ad esistere –per quanto è del settore di cui si occupa l’inchiesta– nella misura in cui le esperienze “sindacali” della forza-lavoro degli operatori di cultura incontrano, generalizzandosi, le altre forze-lavoro. È facile prendere in giro “il socialismo in una sola casa editrice”; più difficile è proporre, nell’industria culturale, una sequenza di atti “sindacali” politicamente orientati a superare se stessi. Ma non c’è altra via: e dopo le confuse esperienze 1968-69 non resta che lavorare a stabilire sul proprio luogo di lavoro (che può comprendere, naturalmente, attività culturali “di sinistra”) il massimo possibile livello di solidarietà con probabili compagni e di conflitto con gli avversari di classe.


Questo testo inaugura una serie di approfondimenti, pensati nell’arco di novembre e dicembre, che dedichiamo a Franco Fortini – intellettuale, scrittore, poeta – a venti anni dalla sua scomparsa, in parallelo con la rassegna Franco Fortini – Memorie per dopo domani, iniziativa organizzata dal Centro studi Franco Fortini (Università di Siena) in collaborazione con la Regione Toscana e l’Istituto Storico per la Resistenza di Siena.

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