Il naufragio e lo spettatore – #Parigi

Il contributo che segue, rientra in una sequenza aperta di riflessioni dedicate alle questioni che emergono attraverso la lettura di ciò che è accaduto nella notte del 13 novembre, avviata sul nostro sito a partire da sabato 28 novembre.

Ci piacerebbe conoscere l’onda sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano; solo, quell’onda siamo noi stessi. (Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore)

Il 13 novembre 2015, mentre il più violento attacco terroristico della recente storia francese deflagra nell’XIème arrondissement di Parigi, siedo al tavolo di un ristorante, nel quartiere San Lorenzo, a Roma. Il primo schermo è un grosso televisore, muto, che sovrasta la sala in cui ignari avventori sono chini sui propri piatti. Dal campo lungo di Italia-Belgio, Rai 1 stacca sull’edizione straordinaria di un telegiornale. La prima parola che leggo dal collegamento instaurato con il notiziario francese è “Bataclan”. Poi inizia un turbinio di scritte: “boulevard Voltaire”, “rue de Charonne”, “Attentat”, “Terrorisme”, “Victimes”, “Otages”. Le immagini mute non dicono di più: ci sono sirene lampeggianti della polizia nell’XIème arrondissement. Queste immagini e questi nomi non sono per me anonimi: ho vissuto a Parigi per un certo periodo, conosco bene quei luoghi, quegli incroci, la terrasse colpita dalle fucilate, che inavvertitamente i notiziari italiani stanno traducendo terrazza, ma che indica invece i tavolini all’aperto che costeggiano qualunque locale parigino. La stima delle vittime è provvisoria, si intuisce solo che gli attentati sono molteplici, in diverse zone di Parigi. A questo punto, dopo pochi minuti, fa il suo ingresso il secondo schermo.

È quello del mio smartphone, nodo in una rete di flussi comunicativi che da qui alle prossime ore intesseranno una trama inestricabile. Scrivo d’istinto agli amici che vivono a Parigi, che abitano su quel boulevard, che frequentano, come tutti, quei quartieri, soprattutto il venerdì sera. Me ne vengono in mente di getto alcuni, altri non li sento da un po’, saranno ancora lì? Se ci penso bene c’è qualcuno che è a Parigi solo per il weekend: la memoria annaspa nel tentativo di offrirmi un quadro completo. Intanto su altri smartphone arriva la diretta dei siti d’informazione: le notizie arrivano con un ritardo di qualche minuto, ma qualche minuto, stasera, è la differenza tra 40 o 80 morti, tra 100 e 129.

Il terzo schermo è quello del computer che attivo appena arrivato a casa. Sui siti dei giornali francesi le notizie arrancano ancora, c’è un aggiornamento minuto per minuto, poche righe che riferiscono quanto detto dalle fonti ufficiali del governo e della Procura francese, oltre alle agenzie dell’Agence France-Presse. Lo sguardo è vorace, si muove lineare da sinistra e destra solo per un attimo, poi salta di fotografia in fotografia, cerca i numeri, i nomi dei luoghi, schizza secondo una dinamica che ha molto a che fare con l’interattività dello schermo e poco con la pacifica certezza della lettura. La pagina della diretta live d’altronde scompare di continuo per riapparire in una sorta di dissolvenza incrociata, aggiornandosi ogni volta che si aggiunge un tassello nel racconto di ciò che sta accadendo a Parigi. Domani sulla carta stampata ci sarà tempo per la lettura, ora sono in gioco una visione e un ascolto scarabocchiati attraverso gli schermi. 

Accendo il televisore, stavolta l’audio è ben udibile: è in corso il blitz delle forze speciali al Bataclan. Almeno cinque delle persone che ho cercato in queste ore non hanno ancora risposto. La voce con la quale il giornalista tenta di contestualizzare le immagini aiuta a riempire il vuoto angoscioso di questi minuti, come un sostegno, l’instancabile tentativo di rivestire di senso il terrore di questo evento che per ora riverbera sugli schermi in tutta la sua incomprensibilità. La voce del cronista tenta di radicare queste immagini in una narrazione che al netto della sua ipoteticità si sforza di farsi storiografica. Il racconto prova a offrire al video una sua temporalità, la voce vuole ancorarlo a dei punti fermi, offrircene uno schema riconoscibile. L’immagine è muta ma la voce parla, anche se non ha nulla da dire, la pretesa stessa di spiegare ciò che non ha avuto il tempo di sedimentare nelle categorie della riconoscibilità è vana, e quindi l’esercizio, pure ammirevole, del giornalista, rimane fine a se stesso.

Intanto le applicazioni di messaggistica istantanea si agitano, Messenger, Whatsapp, Skype, iMessage, come se la tecnologia avesse fiutato la concitazione emotiva del momento e avesse deciso di assecondarla. L’entrata in scena di Facebook in questo scenario è magistrale: sono passate alcune ore dalla notizia degli attacchi, il blitz al Bataclan si è concluso, e mentre i media tentano di “coprire l’evento”, Facebook lo scopre, lo mette a nudo, offrendocene la versione egoisticamente personalizzata, il livello esperienziale base, quello in cui ne va del nostro coinvolgimento emotivo, ciò che fa sì che di questo ci importi inevitabilmente più che di altro — come le discussioni dei giorni seguenti non smetteranno di ricordarci. “Attacchi terroristici a Parigi: 39 amici che si trovano nell’area interessata hanno confermato di stare bene, 4 non hanno ancora confermato”. L’app di Facebook si chiama Safety Check e permette — durante un evento straordinario — di informare del proprio stato di salute o di quello di un amico. Leggo che qualcuno con cui non riuscivo a parlare ha in effetti il telefono scarico ma sta bene: lo attestano altri per lui.

Qual è il grado di affidabilità di questa informazione? La notizia arriva dal basso, non ha filtri di autorevolezza, in qualche caso chi autentica lo stato di salute di un amico è qualcuno che neanche conosco. La voce del giornalista ronza in sottofondo in un concerto di condizionali, mentre Facebook, in pochi minuti, stabilisce, attraverso un complesso gioco di testimonianze e certificazioni di cui ignoro le regole ma a cui offro una fiducia incondizionata, che i miei amici stanno bene. Non posso esserne certo eppure lo sono, perché tutto si fa subitaneamente domestico, gestibile. L’applicazione ha intuito la priorità emotiva degli utenti, inaugurando una topografia personalizzata dell’evento. La Storia, filtrata dal medium, diventa un distillato di storia con la “s” minuscola, in questa serata Parigi è prima di tutto ciò che di Parigi ci riguarda, e che noi riguardiamo di rimando in quell’esercizio prossemico in cui prima di ogni valutazione o riflessione di portata collettiva è la nostra fragile individualità ad essere ustionata dal fuoco di immagini che, come scriveva Didi-Huberman, “bruciano del reale a cui si sono avvicinate”.

Facebook guida i passi in questa cinesica del disastro, nel nostro disagevole, goffo atteggiamento davanti agli schermi infiammati dalla portata dell’evento. Come iniziare il lavoro elaborativo? Senza la paura di tirare un sospiro di sollievo di fronte alla potenza di un dispositivo che anticipa il nostro stato d’animo e ne offre una risposta in tempo reale: l’app ha il potere di trasformare la concitazione e l’ignoto in un rassicurante comunicato stampa fatto su misura per ognuno di noi. Il telegiornale insegue il numero delle vittime, mentre Facebook — come spiegherà Zuckerberg nei giorni successivi — applica la funzione in risposta all’ingenerarsi di un notevole tasso di traffico sul social network.

Questo ci dice che le persone sono andate lì a cercare risposte: nel ritaglio di realtà autobiografica che, di questo scenario di guerra, ci offre una versione per noi, cioè già filtrata, processata, in qualche modo elaborata, calcolata sulla base del nostro vissuto. Degli eventi di Parigi, ci dice Facebook, ora ti interessa questo: sapere come stanno i tuoi amici, o far sapere ai tuoi amici come stai, e ti interessa perché in questo momento hai molti amici che si trovano lì, o ti ci trovi tu – Facebook lo sa, perché quello schermo che sembra un filtro per distanziare il reale, in verità affonda le sue radici proprio lì dentro. Oggi, a differenza di quanto successo con Charlie Hebdo, il social network non deve trasformare una tragedia impersonale nella tua tragedia, perché questa è già la tua tragedia, lo ha stabilito la modalità d’azione scelta dai terroristi; Facebook deve intanto aiutarti ad affrontarla, offrirti ciò di cui hai più bisogno in tale inusitata esperienza di guerra, una bussola, ma non per capire – questo verrà – ora ti serve una bussola per placare l’angoscia, per sapere cosa sentire. Domani ti interesserà mettere la bandiera francese sulla tua foto del profilo, cioè esprimere un gesto di solidarietà che ti sarà offerto pre-impostato, così che in questo caos in cui nessuno sa ancora cosa pensare – il tempo reale non è infatti un tempo del pensiero — avrai la possibilità di un gesto normalizzato e condiviso dalla collettività, sarai di nuovo, stavolta sì, non un singolo con la tua esperienza della guerra filtrata dagli schermi, ma il pezzetto di una società scossa nel suo insieme.

Ma oggi Facebook si fa insieme locative media e media identitario (la distinzione è di Francesco Casetti), dominio sul territorio, cartografia, e strumento di configurazione di sé. Chi siamo determina il significato di questo evento per noi, i social media lo schematizzano, ridefinendolo su misura per la nostra sensibilità e per la nostra situazione specifica e personale. La tragedia ti appartiene, questo dice Facebook, e io te ne offro una forma dominabile. Ci rassicura scoprire che gli amici stanno bene in questi istanti in cui non abbiamo più alcuna certezza, ed è straordinario che sia così semplice saperlo. Ma dopo? C’è qualcosa, ancora, da comprendere, da sentire?

C’è un lavoro da fare con quelle immagini, con quei numeri, con quelle scritte? Un lavoro per riattivare, al netto della forza di questo schematismo mediale, le categorie con cui sentiamo e leggiamo il reale? Un lavoro volto a individuare nel gioco di prossimità tra il soggetto e lo schermo un’etica — se non dell’immagine — almeno della visione?

Forse bisogna far vibrare il peso specifico di quel naufragio cui assistiamo, quel naufragio di cui siamo spettatori, e che ci scompagina pur lasciandoci illesi, perché stavolta, attraverso lo schermo, riesce a interagire con la nostra più viscerale emotività. Forse quello che possiamo imparare dal Safety Check di Facebook è che il disastro ci impone un movimento duplice: immergersi e prendere fiato, scottarsi e mettere a fuoco. Essere, di quel naufragio, lo spettatore e il naufrago.

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