Ludicità e interattività: il saper-fare dei nativi digitali

Quelle che vedete sono due foto scattate durante il convegno di cui si pubblicano qui le principali relazioni discusse e alcuni dei Case Studies presentati.

montani

Non c’è niente di strano nel fatto che in fondo alla sala in cui si stava svolgendo la seconda giornata del convegno (ospitata dalla Casa della memoria e della storia di Roma) ci fosse un portatile finito in mano a una bambina. E che quella bambina ci si mettesse a giocare con evidente e ilare impegno, come si vede bene nella seconda immagine, senza avere alcuna cognizione del fatto che uno dei relatori aveva presentato il giorno prima (nei locali dell’Accademia belgica, sede della prima giornata) un’approfondita riflessione sull’idea che con la tecnica ci si debba per l’appunto innanzitutto giocare, secondo una tesi esposta da Walter Benjamin in una delle redazioni del suo tormentato e celebre testo sull’opera d’arte nell’epoca della tecnica.

C’è da scommettere che quella bambina non sta osservando, e manipolando, niente che assomigli a un’opera d’arte. Qualsiasi cosa stia facendo, tuttavia, c’è sicuramente da chiedersi se nel suo cervello, e nelle sue mani, non stia accadendo qualcosa che con l’“arte” ha in qualche modo a che fare — e le virgolette vogliono segnalare che qui la parola “arte” va spogliata, com’è chiaro, di ogni solennità; oppure, per converso, va risarcita di un tutt’altro tipo di solennità. E sto pensando a quella che aveva in mente il vecchio Kant, quando (nella Ragion pura) definiva lo schematismo della nostra immaginazione (cioè, si badi, la sua prestazione cognitiva più pregiata, l’unica che riesca a spiegare il modo di conoscenza specie-specifico di homo sapiens) come «un’arte celata nel profondo dell’animo nostro», aggiungendo, tanto per non trascurar le mani, che mai noi avremmo strappato alla natura il segreto della sua “Handlung”, della sua manipolazione — o della sua manutenzione tecnica.

In effetti, qualsiasi cosa stia facendo la nostra bambina con le sue mani e con la sua immaginazione, è certo che questa cosa ha a che fare con l’“arte” di perlustrare e costruire sistemi di ordinamento della percezione (e relative sinapsi) che saranno determinanti nel funzionamento dei suoi apparati simbolici — a cominciare dal linguaggio (cioè dai concetti linguistici in senso stretto), che per ora è in grado di dominare solo in piccola parte.

Insomma, quel gioco concentrato e ilare somiglia a un’“arte” (cioè a una techne, a un saper-fare) perché sta cooperando alla costruzione della competenza simbolica della nostra bambina. E il fatto che accada sullo schermo di un portatile non è per nulla un fatto da trascurare, se non altro perché ne sappiamo ancora pochissimo di queste nuove forme di costruzione di una competenza simbolica in ambiente digitale. Alle quali, infatti, abbiamo pensato di dedicare un convegno, cominciando a interrogarle sotto il profilo della loro valenza narrativa (che ora possiamo benissimo attribuire anche al gioco della nostra bambina, immaginando che stia seguendo una storia illustrata o, perché no?, la stia addirittura producendo, smontandola e rimontandola, chi lo sa).

Nel leggere i contributi qui raccolti, si tenga dunque costantemente presente questo problema della costruzione di una competenza simbolica per molti aspetti nuova, che investe nel profondo i nativi digitali (organizza le loro sinapsi, come ho detto prima) ma che riguarda tutti noi, a diversi gradi di coinvolgimento.

Perché questa competenza simbolica dovrebbe essere “per molti aspetti nuova”? Non starei forse esagerando un po’? Vediamo.

Torniamo per un attimo alla bambina delle prime foto. Con che cosa sta giocando: con uno “strumento” o con un elemento dell’ambiente in cui si muove? In quel momento, del resto, l’ambiente in cui si muove è un ambiente largamente mediatizzato: quasi tutti i presenti hanno un portatile, tutti hanno uno smartphone, c’è un operatore che riprende i lavori e sullo schermo, se non ricordo male (e non ricordo male, visto che ce l’avevo messa io), c’è questa slide, che ribadisce la mia persuasione che dovremmo occuparci molto seriamente di quel che sta accadendo, oggi, nella mente incarnata ed esternalizzata dei bambini piccoli e piccolissimi.

Dunque la competenza simbolica di cui sto parlando è nuova, intanto, in questo senso: che essa si articola all’interno di uno spazio reversibile, in un chiasma tra ambienti mediali e media ambientali. È una delle forme eminenti, questa, del modo d’essere odierno di ciò che Merleau-Ponty chiamava “la carne del mondo”. E di cui prima di lui Lev S. Vygotskij aveva evidenziato e formalizzato l’aspetto intimamente tecnico. La mente dei piccoli prende forma grazie alle parole almeno quanto grazie agli strumenti che i piccoli maneggiano; e tra questi elementi (il linguaggio e l’operare tecnico) si stabilisce un rapporto che è intimamente storico, non solo perché evolve e si trasforma nel corso del tempo – come evolve e si trasforma il rapporto tra il pensiero e il linguaggio, tra l’elemento interno e l’elemento esternalizzato – ma anche perché si esercita, giocoforza, con le tecniche storicamente dominanti (come si esercita con gli idiomi esistenti). E oggi queste tecniche si costituiscono in un caratteristico chiasma di ambienti mediali e media ambientali.

Ho appena parlato di elementi interni e di elementi esternalizzati. Un altro requisito della competenza simbolica di cui cerco di descrivere la novità è da vedere nel suo gradiente altissimo di esternalizzazione, il più alto, probabilmente, rispetto a qualsiasi altro regime simbolico storicamente attestato. C’è un sospetto di questa situazione nelle riflessioni di Marshall McLuhan, ma l’evoluzione effettiva delle tecnologie mediali si è dimostrata di molto al di sopra delle sue previsioni quanto a processi di esternalizzazione. I polpastrelli valgono oggi almeno quanto gli occhi; e questo è stato Vilém Flusser ad averlo capito per primo.

Ma un terzo e non sottovalutabile elemento di novità della competenza simbolica che la bambina delle foto sta acquisendo riguarda il suo carattere intermediale (più che “multimediale”), e cioè il fatto che sta lavorando “tra” diversi media (tutti ri-mediati dal suo portatile) , benché alcuni di essi non le siano ancora noti (le parole scritte): si sta aprendo una strada in uno spazio ricco di relazioni più che in uno spazio in cui molte forme agiscono in sinergia per ottenere un effetto unitario.

Questo significa che il gradiente di opzionalità delle scelte di quella piccola utente si innalza, e che il modo di apprendimento legato a quelle scelte rende probabilmente disponibile più di una grammatica. Cosicché quando quella bambina avrà appreso a leggere e a scrivere, queste funzioni cardinali si dimostreranno più facilmente coordinabili e intrecciabili con l’universo polimorfo dell’immagine. Nel quale universo ci si può aspettare che andranno a introdurre criteri di ordinamento e di riorganizzazione aperti a nuove grammaticalità, oltre a quelle, tutt’altro che abolite, forse solo un po’ ridimensionate – e del resto insostituibili – della Galassia Gutenberg.

Se questo è vero, allora la forma di competenza “per molti aspetti nuova” di cui sto discutendo riguarda in primo luogo lo statuto semiotico delle immagini, delle quali risulta largamente riconfigurata anche la pragmatica. Perché le immagini, oltre a farsi comprendere e interpretare per ciò che comunicano, oltre ad esercitare un effetto sulle nostre emozioni e passioni, qui servono innanzitutto a produrre qualcosa. Vale a dire quel tipo di testi – o di scritture intermediali – di cui si sarà tra non molto acquisita su larga scala quella competenza complessa che la bambina delle foto sta cominciando a sperimentare. Il che significa, e non è una novità da poco, che il nostro rapporto con le immagini è destinato a cambiare profondamente, innalzando il suo tasso, almeno possibile, di grammaticalità e di scritturalità. Insomma: le useremo sempre di più per esprimerci e costruire discorsi.

E la narrazione? In che modo ci possiamo aspettare che l’esperienza narrativa venga coinvolta in questa generale riorganizzazione? È più difficile, qui, individuare delle tendenze già sufficientemente delineate (al di là dello spostamento massiccio delle procedure di utilizzo dei media digitali dal piano della ricezione a quello della produzione). Non vorrei tuttavia rinunciare a prospettare almeno una direttrice che si inserisce in modo coerente nel quadro che ho tracciato e che, come si vedrà, risulta ampiamente confortata dalle relazioni del convegno e dai numerosi Case Studies presentati (primo tra tutti, lo straordinario esperimento terapeutico del “Memofilm”). Mi sembra dunque di poter dire che la narrazione mostra di voler ridefinire una parte, almeno, del suo senso antropologico tradizionale – quello che fu magistralmente riconosciuto da Paul Ricoeur in una multiforme attività di configurazione del tempo (“L’esperienza umana è un’esperienza intimamente temporale, ma il tempo diventa tempo umano solo quando viene raccontato”) – orientandosi verso una dimensione più direttamente “elaborativa”, nella quale il rapporto tra il testo e il fuori testo (tra l’interno e l’esternalizzato, tra il cyberspazio e lo spazio reale) assume un rilievo eccezionale e per molti aspetti inedito. Cosicché le nuove forme di narrazione non sono tanto nuove per la loro “forma” (o non principalmente), quanto per il modo in cui si rivelano sempre più esplicitamente abilitate a strutturare produttivamente (o creativamente, se preferite) questo rapporto tra l’interno e l’esterno, a costruire ponti e mediazioni tra la rete e il mondo su cui la rete stende le sue maglie. Come se delle immagini che la rete ci somministra in continuazione a ritmi sempre meno sostenibili – e sto pensando in particolare proprio alle immagini insopportabili, proprio a quelle che sempre di nuovo pongono la domanda circa la loro legittimità ­– come se di queste immagini ci si potesse davvero appropriare (o si potesse tentare di esperirle come qualcosa che “ci riguarda”) solo costruendo dei ponti tra il cybersapzio e lo spazio reale (“il mondo dell’agire e del patire”, per dirla con Ricoeur) e curandone assiduamente la manutenzione.

Ci ritroviamo dunque, di nuovo, in un “tra”, in uno spazio di mediazione nel quale stanno sorgendo innumerevoli modelli di costruzione elaborativa (o di elaborazione costruttiva) dell’esperienza del raccontare (e si pensi solo alle timeline dei social network). Benché la loro poetica e la loro retorica siano ancora molto elementari (ma nemmeno poi tanto, se si presta la dovuta attenzione ai Case Studies qui presentati) io sono convinto che questi modelli sono destinati ad assumere sempre più massicciamente su di sé quelle procedure di elaborazione (del senso, della memoria, del dolore, dei traumi, delle cose oscure e di quelle sorprendenti, perfino dell’orrore) a cui il racconto, nelle sue forme tradizionali, ha provveduto fin qui in termini prevalentemente configurativi, cioè producendo “opere” o testi più o meno chiusi destinati a un numero di lettori (o di ascoltatori) incomparabilmente più alto, e comunque distinto, rispetto ai rispettivi produttori. Di certo, in ogni modo, è questa una delle cose che ci si può ragionevolmente aspettare dall’addestramento alle nuove competenze intermediali nel quale sarà ineluttabilmente impegnato un numero sempre più ampio di utenti delle nuove tecnologie dell’immagine e in modo particolare quelli piccoli e piccolissimi.

[Qui sotto trovate la mappa concettuale navigabile che consente di accedere agli atti del convegno “Tecnica, multimedialità e nuove forme di narrazione”, tenutosi a Roma il 28 e il 29 maggio 2015]

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