Marginalità mediterranee

Riflessioni su “Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria” di Stefano Pontiggia (Ombre Corte, 2017).

«Siamo un gruppo di giovani che provengono da Redeyef (nella zona sud-est della Tunisia, proprio dove ci sono state le proteste del bacino minerario nel 2008) e da altre regioni della Tunisia. Davanti alle défaillances economiche e sociali dei politici del nostro Paese, l’abbandono dello Stato che è venuto meno ai suoi obblighi e il fallimento politico sia a livello locale che internazionale, abbiamo dovuto abbandonare, nel 2008, il nostro sogno di uno Stato democratico che garantisca la libertà, la dignità e la giustizia sociale. E anche se siamo orgogliosi del nostro Paese e la sua gente, abbiamo dovuto superare il rischio di immigrazione clandestina dirigendoci a nord-ovest del Mar Mediterraneo, questa rotta è diventata pericolosa a causa delle politiche europee di gestione della migrazione che prevedono la chiusura delle frontiere e con esse i nostri sogni, e le nostre ambizioni di una nuova esperienza di vita effettuata in modo legale.

Siamo attualmente nel centro d’accoglienza per i migranti a Lampedusa in condizioni umanitarie difficili. Siamo minacciati di espulsione forzata che viola le convenzioni internazionali che garantiscono la libertà di movimento, che si oppongono alle politiche di espulsione e agli accordi bilaterali ingiusti che privilegiano la sicurezza delle frontiere a spese dei diritti universali.

Annunciamo che entreremo in uno sciopero della fame per richiedere il nostro diritto di movimento e protestare contro l’espulsione forzata.

I nostri sogni non sono troppo differenti da quelli della gioventù europea che si gode una libertà di movimento nel nostro Paese e altrove, alla ricerca di altre esperienze, ma anche per promuovere la libertà, la giustizia sociale e la pace.

Chiediamo alle persone libere che difendono l’esistenza di un altro mondo in cui dominano valori universali e solidarietà di sostenerci. Perché, mentre il denaro e le merci circolano liberamente nel nostro Paese, si imprigionano i nostri sogni dietro ai vostri muri.

No alle deportazioni forzate.

Sì alla libertà di movimento.

Vittime di politiche economiche e sociali globali.

Vittime di politiche di migrazione sleale».

La lettera pubblicata dal collettivo dei giovani tunisini a Lampedusa offre un ottimo spunto per discutere il lavoro di Stefano Pontiggia, Il bacino maledetto, uscito per Ombre Corte.

I giovani esplicitano la loro appartenenza e la loro identità di richiesta politica e di diritti, connettendola alle proteste che avevano animato l’area di Gafsa e Redeyef nel 2008. Quei moti pre-rivoluzionari, repressi nel sangue dall’allora presidente Ben Alì, hanno rappresentato – nelle narrazioni quanto negli immaginari – lo spunto e il punto di partenza della ribellione che ha portato alla destituzione di Ben Alì il 14 gennaio 2011. Chiunque abbia avuto la fortuna e il privilegio di vivere quei giorni di fermento che hanno preceduto l’uccisione di Chokri Belaid nel febbraio del 2013 ricorderà che il “bassin minier” di Gafsa e Redeyef era parte della toponomastica della rivoluzione e della memoria. I frammenti di racconto dei testimoni e dei manifestanti iniziavano sempre con le proteste dei minatori, con la repressione sanguinosissima che aveva accompagnato quei moti, con i primi blogger che erano riusciti a far circolare i segni di quella violenza nel Paese e fuori da esso.

Tutti erano concordi sul fatto che quei mesi fossero stati necessari – quasi propedeutici – a ciò che è seguito, e alla ribellione per l’immolazione di Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di Sidi Bou Zid, che il 17 dicembre 2010 si era dato fuoco dopo un sequestro dei beni e la richiesta di tangenti, animando poi le piazze di tutta la Tunisia. Per questo, per trovare la genealogia delle strutture di potere della Tunisia a cavallo della trasformazione politica, Stefano Pontiggia è partito da lì, da una cittadina che basa la sua sussistenza sulla miniera, e che alterna una centralità rivoluzionaria nei racconti e una marginalità turbolenta nelle pratiche. Se il titolo è evocativo, è il sottotitolo a spiegare il valore del lavoro etnografico: Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria. Questo risponde, infatti, alla domanda di ricerca del volume: «Che significa marginalità nel contesto di uno Stato instabile come quello tunisino? Quali sono le forme quotidiane della sua riproduzione e che ruolo vi giocano gli attori sociali? Quali processi sono riscontrabili sul terreno, e quali sono enfatizzati?» (p.14)

Queste domande sono solo alcuni degli interrogativi che emergono dal lavoro di Pontiggia, assieme alla polvere, molta, che ricopre le pagine e le riflessioni dei numerosi testimoni incontrati. Il bacino minerario sorge alle porte del Sahara. Il concetto di marginalità viene qui utilizzato nell’accezione di «condizione di strutture e processi in cui una parte della società e dello spazio all’interno di una determinata unità territoriale si situano al di sotto di un livello atteso di performance nel benessere economico, politico e sociale, se comparato con la condizione media nell’intero territorio» (Sommers et al. 1999).

Quel margine è visibile scendendo da Tunisi verso sud, in direzione del deserto. L’autostrada si interrompe all’altezza di Sfax e, spostandosi dalla costa, le auto vengono sostituite da motorini; le strade asfaltate da sterrate pietrose; i benzinai da treppiedi improvvisati e piccole tanichette. La marginalità non è percepibile solo attraverso le parole e le biografie, ma spezza in due il Paese tra arretratezza e sviluppo. Negli anni che sono seguiti alla caduta di Ben Alì, quella forbice s’è allargata e al (mancato) sogno di un cambiamento sensibile è seguita una sempre maggiore sofferenza sociale. Le pagine dell’antropologo restituiscono bene questa frustrazione mista a moti di slancio e tentativi di cambiamento. La sua ricerca sul campo, infatti, ha attraversato momenti cruciali per il Paese: l’approvazione della nuova Costituzione a febbraio 2014, le elezioni politiche e amministrative tra ottobre e dicembre dello stesso anno, gli attentati della primavera del 2015.

Gli incontri quotidiani, le conversazioni nel taxiphone del padrone di casa, la quotidianità dolente e affettuosa incrociata in quei mesi di lavoro vengono restituite al lettore attraverso note di campo asciutte ma fedeli che alternano l’aspirazione all’oggettività con la vicinanza, inevitabile, di aver condiviso una traiettoria di vita e molti moltissimi tè bevuti nella città, definita da un interlocutore “l’equazione della malinconia”.

Alzando quotidianamente quei sottili strati di sabbia (reale e metaforica) dal punto di vista obliquo che è rappresentato dallo “stare al margine”, nella Tunisia divisa nel discorso pubblico e nel ruolo sociale tra città costiere e “l’interieur” i rapporti di potere, le trasformazioni e le strutture post-rivoluzionarie si dispiegano nella loro forza, quasi non mascherate da altri filtri sociali. Così, lontano dai caffè, dalle birre Celtia, dall’élite francofona e dalle velleità cosmopolite delle grandi città, la riflessione sul bacino minerario rivela e intreccia il passato coloniale. Anche solo rimanendo su un livello più superficiale, il possesso delle concessioni estrattive dell’area è ancora oggi gestito da multinazionali francesi che hanno (parzialmente) decolonizzato il livello politico ma non certamente le relazioni economiche con il “Paese dei gelsomini”. Tra strutturalismo e post-strutturalismo, emergono le aspettative passate e le delusioni presenti di un segmento della società analizzata secondo lo spazio, il tempo, e la struttura sociale. I capitoli (Sabbia, Margini, Miniere, Noia, Elezioni, Denaro, Tende) vanno a costruire, tassello per tassello, sfogliando le stratificazioni – fino al livello tribale che era stato rimosso poi dalla fase coloniale –  la conclusione/senso, che non può che essere lo “Stato”.

Tra mancanze e contraddizioni, tra cambiamenti normativi e domande securitarie, tra modernismo e salafismo, la Tunisia degli anni Dieci riverbera in tutte le sue contraddizioni, ben raccolte dalle note etnografiche. Il bacino maledetto è un libro necessario per ricostruire davvero gli ultimi sei anni, e per comprendere che gli eventi che hanno caratterizzato la Tunisia (ma, mutatis mutandis, tutta la sponda sud del Mediterraneo) richiedono letture di pazienza e di complessità e una profonda mediazione tra l’oggettività e il racconto di un processo nazionale che spesso si tinge di epica. Se questo meccanismo è fisiologico nei mutamenti di ordinamento sociale, il lavoro di Pontiggia riprende il filo delle storie e permette di ritrovare quella profondità che si è persa spesso nelle analisi, polarizzate tra la Tunisia “più grande democrazia del mondo arabo” e la contronarrazione dell’“inverno arabo” che annulla ogni afflato. Perché quel filo passa attraverso lo spazio, le città, le comunità e i bisogni, e il tempo fisiologico, perché quel cambiamento possa (o non possa) compiersi. 

Il bacino maledetto ci spiega che solo guardando ai margini si potrà cogliere la coesistenza tra i due processi, entrambi veri, entrambi incompleti.

Il racconto sviluppato da Pontiggia, partendo dai micropoteri quotidiani, aspira a ricostruire le forme di violenza strutturale e simbolica che si sono sommate in quei territori, nelle biografie delle persone che oggi, come possiamo leggere, attraversano il mare. Continuare a immaginare le rivoluzioni non come una data sul calendario, ma come un processo in divenire che non sempre segue traiettorie di liberazione e di progresso, è un esercizio necessario per comprendere non solo i cambiamenti della sponda Sud, ma anche il precipitato sociale della ricerca di opportunità che gli harraga (“coloro che bruciano le frontiere”) inseguono, spostando il margine e avvicinando il mare.

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