Da un’etnografia dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: salute mentale, Opg e cultura carceraria, nella prima parte di una riflessione attorno a storia e architettura dei dispositivi di contenzione.
Oggetti piuttosto fuggevoli, la follia e la malattia mentale sono state ritratte nel loro profilo da mani diverse e numerose lungo il corso del tempo. Nel Novecento, in questo gioco di rappresentazioni, sono emerse tradizioni in grado di riformulare in maniera rinnovata le questioni che riguardano tali fuggevoli oggetti, cercando, come noto, di riaffermare princìpi di natura etico-politica grazie ai quali ridare statuto di umanità a chi, toccato dallo stigma di malattia mentale e di follia, ne è stato spossessato.
Brutalizzando, in ragione dell’imperativo della sintesi, tra coloro che intendevano ridefinire lo statuto d’esistenza del malato di mente e del folle (sulle cui differenze per ragioni di spazio qui non questioneremo), è possibile individuare due principali posizioni disciplinari che hanno trovato albergo nella caotica psichiatria nel Novecento: da una parte, e siamo grosso modo nella prima metà del secolo, c’era la tensione teorica proposta dalla psichiatria fenomenologica (Daseinsanalyse) di matrice tedesca, svizzera e francese (su tutti, Ludwig Binswanger, Eugène Minkowski e in parte Karl Jaspers), secondo la quale riconsiderare la dimensione dell’esistenza e della sofferenza individuale nei termini di cura e dare parola al malato di mente avrebbe dato sprone a una ridefinizione in termini positivi delle soggettività “malate”; dall’altra parte c’era l’esperienza pratica della de-istituzionalizzazione britannica (secondo gli approcci di Ronald Laing, Maxwell Jones e Thomas Main, per esempio) che, in ragione di un principio radicale e massimalista, nella fase mediana del secolo scorso cercava di abbattere la dimensione istituzionale della gestione manicomiale della stortura psichica per ridonarle accesso in comunità (è a tale esperienza che si deve la definizione della comunità terapeutica come luogo di cura e reinserimento del malato di mente nel tessuto societario).
Sono proprio questi due grandi modelli a fare da fondamenta per il pensiero di Franco Basaglia e di chi con lui ha lavorato affinché lo stigma della malattia mentale potesse essere fatto rientrare nei termini di una riconsiderazione generale dell’esistenza umana, e non soltanto nella pratica della riabilitazione psichiatrica (vero è anche che tale discorso va inquadrato all’interno di una cornice più ampia che pure teneva insieme gli elementi del pensiero basagliano: parliamo della tensione politica derivante da autori quali Sartre e Gramsci e dell’ispirazione marxista che ne dirigeva i vettori).
Nonostante il solido riferimento ai modelli e nonostante Basaglia, tuttavia, il percorso della riconsiderazione dell’esistenza, qui da noi, è stato piuttosto accidentato, e le logiche istituzionali, volatili e sottili, gli sono in parte sopravvissute. I movimenti di riforma in materia di salute mentale che nel 1978 hanno avviato la lenta dismissione dell’istituto manicomiale, nel 2001 hanno portato la World Health Organization a citare la gestione italiana della malattia mentale come esempio da seguire ai quattro e più angoli del mondo[1].
Ma la logica istituzionale insita nella pratica psichiatrica ha resistito anche dopo il ‘78, ritraendosi in ambiti forse meno visibili e comunque continuando a riprodurre la propria matrice originaria. Esempio lampante di quanto si va dicendo siano per noi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, gli OPG, condensato di quelle teorie psichiatriche, del diritto e amministrative che, alleandosi storicamente nella gestione del particolare stigma di cui si sta parlando, hanno vissuto sulla sedimentazione di un discorso tenace, sostanzialmente teso al supporto di una secolare opera di normalizzazione. Oggi, alla luce dell’entrata in vigore del decreto legge 24 del 25 marzo 2013, che sancisce la definitiva chiusura degli OPG e lo spostamento dei soggetti ivi rinchiusi nelle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), la faccenda non sembra essersi definitivamente risolta, se è vero che, come successo dopo la legge del ’78, la ricezione locale del decreto vive e vivrà di proroghe e ritardi, rimandando nei fatti la data di chiusura definitiva degli OPG.
Come i manicomi a partire dagli anni Settanta, gli OPG sono e restano al centro di un dibattito ampio e dai toni diversi. Qualche anno più tardi rispetto alle dichiarazioni del WHO, e siamo nel 2010, un altro organismo internazionale, il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (European Committee for the Prevetion of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment), produce un documento[2] tratto da una visita improvvisa (avvenuta tra il 14 e il 26 settembre 2008) proprio in una di queste latebre istituzionali. Al documento fanno rapido seguito le ispezioni della Commissione d’Inchiesta sul Sistema Sanitario Nazionale del Senato della Repubblica Italiana (allora presieduta dall’attuale sindaco di Roma Ignazio Marino), attraverso le quali viene evidenziata senza margini d’incertezza la resistenza di zone istituzionali in cui il potere psichiatrico, quello che la tensione basagliana rifugge per statuto, sopravvive e prolifera nella grassa esagerazione di pratiche violente, umilianti, arbitrarie e ammorbanti con le quali le soggettività degli individui posti sotto il giogo dell’istituzione vengono letteralmente spossessate di volontà e identità, al di là della specifica colpa individuale o della specifica responsabilità che ne ha sancito in termini giuridici l’internamento; responsabilità individuabile in un atto eslege che, nel sensazionale lessico psichiatrico-giurisprudenziale e nell’opacità delle sue perizie, viene definito come portato di infermità mentale. Una definizione, quest’ultima, assai sfumata nella sua applicazione e caratterizzata da una geometria variabile grazie alla quale si è poi deciso con schietta arbitrarietà circa il destino di coloro che da essa vengono toccati. Al di sotto di questo sistema decisionale, va da sé, resiste ancora, invitta, la regola oppositiva che caratterizza una sempreverde contrapposizione che suddivide gli ambienti sociali in classi, rinnovando il potere degli specialisti aureolati dal chiarore della scienza e la sottomissione dei reprobi figli della miseria.
Negli OPG, un’ampia asimmetria nei vettori del potere ha strutturato alcune teorie sociali di normalizzazione determinandone così le pratiche interne e adeguandole all’imperativo istituzionale che ne ha presupposto l’esistenza. Proprio raccontare di questi luoghi e di questi soggetti (e soprattutto raccontare con questi soggetti, con la loro narrativa e il loro racconto), e farlo adesso che la storia degli OPG sembra stia per concludersi con la loro definitiva chiusura (sembra…), rende allora la necessità di filtrare l’ombra che pervade le anse più nascoste dell’alleanza interna al potere tra il discorso psichiatrico, quello penale e quello amministrativo, dove il leitmotiv della frustrazione pare emergere da una becera normalizzazione fatta di accenti anonimi eppure onnipresenti. Sono allora proprio le voci dei protagonisti di tale frustrazione a dover essere ascoltate. Ed è questo che qui ci si propone di fare: dar voce agli attuali protagonisti del lungo dramma dell’istituzionalizzazione.
Verranno così riportati brevi stralci di alcune testimonianze offerteci da sette soggetti che hanno passato un periodo (più o meno lungo, ma comunque spesso quantificabile in anni o addirittura decenni) di internamento sotto l’egida dell’istituzione, sette ex internati nell’OPG di Aversa “Filippo Saporito”, fuoriusciti dalle mura carcerario-manicomiali che li costringevano grazie a un provvedimento che nel 2010, anno in cui le testimonianze sono state raccolte, era in via di sperimentazione. Si tratta dei PTRI, per esteso Progetti Terapeutico Riabilitativi Individuali (sostenuti da Budget di salute), programmi sanitari di reintroduzione in tessuti comunitari di soggetti fuoriusciti da tale sistema per diversi motivi (non solo la malattia mentale, quindi). Vedremo come anche in questi progetti, in certe loro particolari caratteristiche, ha continuato a riprodursi, nonostante i propositi belli, quella stessa logica istituzionale che il sentire basagliano già aborriva.
La speranza è che nell’attuale momento, in cui gli OPG sono proiettati a diventare soltanto parte della storia del passato, le logiche che li strutturano non sopravvivano alla loro morte.
Nelle logiche dell’OPG di Aversa, come in quelle di qualsiasi OPG, una serie di pratiche vive al solo scopo d’imbrigliare, in piena coerenza col dettato disciplinare che regola l’imperativo incasellante della normalizzazione: largo è l’utilizzo di contenzione, punizione corporale e frustrazione fisica. Corollario della teoria del vivere in OPG è la standardizzazione di tempi e ruoli nell’arco del quotidiano, in una microfisica degli spazi che colloca e fa muovere gli individui in una scacchiera regolare. Tutto è teso a definire una fossilizzazione cui gli internati non possono far altro che adeguarsi. Il posto assegnato loro non può essere evaso, in termini spaziali così come morali, e i confini che definiscono le celle fisiche e ideali della grande matrice di potere cui essi sottostanno non possono essere valicati se non in termini decisi dall’istituzione. Anche il movimento, com’è ovvio, sottostà a questa norma stringente (purtroppo, in attesa della totale e definitiva dismissione dell’istituto, in questo e negli articoli che seguiranno siamo costretti a usare ancora i verbi al tempo presente).
Così ne parla il nostro primo narratore:
E non lo so. È come una prigione a stare lì all’OPG. Cambia che cosa? […] Insomma, vedevi la punta del palazzo di fronte […], non vedevi nessuno. Brutto, bruttissimo. Soprattutto i primi giorni. […] Volevi vedere qualche cosa, qualche donna dalla distanza, ma non vedevi niente! Proprio niente di niente. […] Tra l’OPG e la prigione ci passa cosa? (Int. 1).
Ad Aversa è un carcere. […] C’hai i passeggi interni a ogni reparto, però finisce lì, muore lì, capito? (Int. 2).
A tale chiusura fa fronte una gerarchizzazione ufficiale interna di ruoli e figure (internati e staff, à la Goffman) a cui corrisponde una seconda stratificazione più sottile: tra gli internati vi sono soggetti che, più di altri, hanno modo di muoversi stabilendo minimi contatti obliqui con l’esterno e con ambienti in un certo senso “privilegiati” dell’istituzione. Il potere che irreggimenta è allora un trama pulviscolare che in sé accoglie e dirige, elargendo favori e ruoli secondari fondamentali alla sussistenza delle stesse logiche istituzionali.
La giornata passava, perché comunque lavoravo. Alle otto e mezza già lavoravo, poi mangiavo, all’una e mezza uscivo un’altra volta, fino alle quattro lavoravo. Passava tranquillamente il tempo. […] La separazione funziona che i lavoranti li mettono tutti assieme. Poi quelli che stanno più squilibrati li mettono in altre parti (Int. 3).
Chi ha una mansione lavorativa può così muoversi tra gli strati della struttura avendo pure l’agio di conservare uno sguardo d’insieme su quanto vi avviene. Il lavorante, a differenza di altri, conserva un maggiore spazio di azione individuale e ottimizza i rapporti con lo staff proprio perché necessario all’ordine discorsivo che supporta la solidità dell’OPG. Egli è un bullone essenziale atto a tenere insieme il meccanismo dell’istituzione.
Io per questo sono uscito, io stavo troppo bene con gli infermieri, le guardie. Avevo una buona relazione e una buona condotta. […] Ho avuto un buon comportamento e mi hanno liberato. Perché, sai, sia all’OPG che qua [nella comunità agricola di “passaggio”], se le relazioni non sono ottime non ti fanno uscire (Int. 3).
Si tratta di un tema classico delle istituzioni totali: al di là della gerarchia evidentemente definita e legalmente sancita per ruoli prefissati, esiste anche un’altra gerarchia cui partecipano gli internati stessi. La trama che si intravede in controluce è ben più intricata di quella della superficie. Si legga, per accostare il caso dell’OPG a un esempio già piuttosto battuto, ciò che capita nei gulag:
“Lavare il pavimento era compito di un prigioniero appositamente addetto al comando, che non veniva inviato ai lavori fuori del campo. Ma, diventato oramai di casa nella baracca del comando, egli aveva accesso agli uffici del maggiore, del capo del carcere, rendeva loro servizi di ogni genere e a volte gli accadeva di ascoltare cose che neppure le guardie sapevano, e da qualche tempo riteneva che lavare il pavimento per delle semplici guardie fosse indegno per lui. Le guardie glielo avevano detto una volta, due, poi avevano capito come stavano le cose, e avevano cominciato a far lavare i pavimenti ai detenuti più sgobboni”[3].
Funzionale a tale gerarchizzazione è l’affidamento, più o meno formale, dai vertici della struttura ad alcuni internati, di incarichi di polizia e controllo tesi a restringere l’azione degli esclusi dal privilegio e a estendere una gerarchizzazione edificata sul controllo stesso: vige insomma un’alternanza tra controllo e consenso. Primo Levi, parlando dei lager nazisti, definisce tali strati fondati sul consenso coma una zona grigia intermedia tra aguzzini e prigionieri. La supporta l’ingranaggio del privilegio con cui i prigionieri-funzionari s’innalzano gerarchicamente dal sottosuolo dei campi.
“L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile […]. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri e lo incoraggi. [… Nei Lager] la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura […]. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”[4].
Anche Louis-Ferdinand Céline dipinge un’alleanza simile, stavolta sullo scenario del colonialismo francese del primo Novecento: l’esercito transalpino di stanza nell’allora Africa Equatoriale Francese reclutava miliziani tra gli indigeni colonizzati e depauperati, bilanciando i “servizi” resi con magri “benefici”.
“Nelle lagune lì intorno e nei recessi forestali vegetava qualche tribù ammuffita, decimata, abbrutita dal tripanosoma e la misera cronica; fornivano comunque, quelle popolazioni, qualche piccola imposta e a colpi di randello, beninteso. Tra quella gioventù si reclutava anche qualche miliziano per maneggiare per delega quello stesso randello. Gli effettivi della milizia ammontavano a dodici uomini. […] Il tenente Grappa li equipaggiava a modo suo quei fortunati e li nutriva regolarmente a riso. Un fucile per dodici era la dose! e una bandierina per tutti. Niente scarpe. Ma poiché tutto è relativo a ‘sto mondo, e confrontabile, gli originari del posto che venivano reclutati, trovavano che Grappa faceva benissimo le cose. Respingeva perfino ogni giorno dei volontari, Grappa, e di quelli entusiasti, figli disgustati della savana”[5].
Allo stesso modo, i nostri intervistati parlano di quanto accade in OPG:
Ad Aversa […] c’erano dei detenuti che avevano più privilegi perché magari facevano gli scopini e legavano altri. Magari gli abusavano le mani. Ma non si vedeva perché chiudevano le porte della sezione, la famigerata Steccata. Che adesso si chiama Sezione Nuova. Oppure facevano dei favori alle guardie o trafficavano con sigarette. Trafficavano e scambiavano, che ne so, un pacchetto con due con certi detenuti deboli di mente e poi […] distribuivano le sigarette per farsi vedere bravi. Così si creano delle gerarchie di corruzione (Int. 4[6]).
Questo dato unanime vive su una suddivisione nata dall’emergere sia di pratiche interne che di pressioni esogene, nate cioè fuori, oltre l’OPG. In tal senso, quest’ultimo risulta essere una struttura nascostamente aperta rispetto all’esterno, ma soltanto in maniera strumentale.
Poi dopo il pranzo c’è la terapia, il caffè e poi passeggio. Passeggio un’altra volta alla Steccata, ma obbligatorio. Obbligatorio alla Steccata. Anche se i raccomandati non ci vanno […]. C’è un po’ di mala sotto, un po’ di mala. [… Sei] raccomandato se sei uno che ha fatto un omicidio, o se sei un 148 mafioso, 148… l’articolo non so qual è (Int. 5).
Talvolta, infatti, l’OPG diventa una sorta di “ammortizzatore penale”, e la gerarchizzazione interna oltrepassa la zona grigia di Levi: certi raccomandati si fanno forti del privilegio già prima di entrare in OPG, utilizzandolo anzi a livello strumentale per commutare la detenzione ordinaria in una dalle caratteristiche più sfumate. Secondo il nostro intervistato, si dovrebbe riflettere sull’assenza di solidarietà tra gli internati. Tale assenza, innestandosi sulle logiche di vita dell’istituzione, riproduce se stessa e la gerarchizzazione conseguente:
[Sarebbe necessario] ammonire molti detenuti perché lì [in OPG] la prima parola d’ordine che bisognerebbe mettere soprattutto è che i detenuti dovrebbero essere solidali tra di loro (Int. 4).
A tenere in piedi quest’ingranaggio, fondamentale per le logiche istituzionali, è anche la questione della libertà della decisione medico-psichiatrica e giuridica, decisione che si farebbe forte dell’arbitrarietà con cui, in connivenza con strati fluidi della criminalità più o meno organizzata, vengono stilate perizie di pericolosità sociale e stati d’infermità mentale: passaporto per un “carcere morbido”, almeno per chi ha avuto la possibilità di sfruttare un solido supporto esterno in termini economici e di potere.
Purtroppo la psichiatria, forse per questioni di comodità, o forse per un’entrata di denaro, non lo so, va a braccetto con la magistratura. […] Avevo udito, in certi casi, di psichiatri che si facevano consegnare, dal detenuto, svariate migliaia di euro per scarcerare delle persone che invece risultavano realmente pericolose. Migliaia di euro, diciamo cinquemila, diecimila, per scarcerare persone molto pericolose (Int. 4).
Note
[1] World Health Organization, World Health Report 2001. Mental Health: New Understanding, New Hope, 2001.
[2] European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, Report to the Italian Government on the visit to Italy, Strasbourg, 2010.
[3] Solženicyn A., Una giornata di Ivan Denisovič, Einaudi, Torino, 1999, p. 11.
[4] Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 29.
[5] Céline L.F., Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 1992, pp. 170-171.
[6] Nel suo racconto, questo intervistato dimostra una stretta parentela con il personaggio di Cechov Ivàn Dmítrič, del racconto La corsia n° 6. Quella che segue è parte di un dialogo che, nel racconto, il personaggio intrattiene con un medico della struttura in cui è “ospitato”: «“Perché mi tenete qui?”/ “Perché siete malato.”/ “Sì, malato. Però decine, centinaia di pazzi passeggiano in libertà perché la vostra ignoranza è incapace di distinguerli dai sani. E perché io e questi disgraziati dobbiamo stare qui per tutti, come capri espiatori? Voi, l’aiutochirurgo, l’economo e tutto il canagliume dell’ospedale, dal punto di vista morale siete infinitamente più bassi di ognuno di noi; perché dunque noi stiamo qui e voi no? Dov’è la logica?”» (Cechov, Racconti, Garzanti, Milano, 2000, p. 663).