È da poco stato pubblicato il primo dei tre volumi che compongono il Lessico del cinema italiano (Mimesis). Il Lessico, articolato in 21 lemmi, propone un discorso nuovo sulla tradizione cinematografica italiana basato sul rapporto tra forme di rappresentazione e forme di vita.
Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi), sono le voci che compongono il primo volume.
Di seguito la conversazione tra Giacomo Tagliani e Roberto De Gaetano, il curatore del Lessico del cinema italiano.
Giacomo Tagliani – Quando, dove e da cosa è nata l’esigenza di dar vita ad un lessico del e per il cinema italiano? Quali sono, se ci sono, le differenze con le classiche storie del cinema?
Roberto De Gaetano – Il percorso compiuto per questo lessico, ci tengo a sottolinearlo, è stato un percorso nuovo, sicuramente nell’ambito degli studi sul cinema. Sono cioè stati coinvolti studiosi appartenenti a generazioni diverse, non necessariamente specialisti di cinema italiano, e sono stati messi alla prova con un compito, che è stato in primo luogo un desiderio, naturalmente, e una convinzione: poter riaffrontare l’immane corpus testuale del cinema italiano con un sguardo nuovo. Abbiamo avviato per più di tre anni una serie di seminari, che sono stati occasioni importanti di confronto e di messa in comune di idee e saperi. Ho chiesto a tutti gli autori di (ri)cominciare da capo, di voler scommettere su un percorso nuovo di lettura, partendo dal riconoscimento dell’immane importanza che ha la nostra tradizione cinematografica all’interno delle forme culturali della nazione.
Oltre a questo, abbiamo condiviso l’idea di poter cominciare ogni voce da un film recente (degli ultimi dieci anni), per dare il senso che non ci trovavamo di fronte a una visione meramente retrospettiva, ma a uno sguardo, che andando a leggere il passato, potesse aiutare a comprendere meglio il presente e credo che questo sia avvenuto, con dei buoni risultati.
G.T. – In quale misura il lessico è legato a un pensiero del cinema? Mi sembra infatti che sia possibile rintracciare due direttrici principali: da un lato un pensiero proprio del cinema, come proposto da Deleuze, dall’altro uno specifico pensiero italiano, così come provato a cartografare da Roberto Esposito. Sono questi i due grandi riferimenti al fondo di questa operazione editoriale?
R.D.G. – Sono senz’altro due riferimenti. Lo sguardo adottato dal Lessico ha legato direttamente le forme cinematografiche alle forme culturali italiane; rapporto naturale, tant’è che in molti saggi che compongono il Lessico vediamo la presenza di autori importanti per la nostra storia, da Leopardi a Machiavelli. E il lavoro di ripensamento della tradizione filosofica italiana fatto da Roberto Esposito ha rappresentato un esempio importante di lettura nuova, non vincolata alle categorie storiografiche abituali.
Il secondo implicito riferimento è senz’altro Deleuze, che poi riprende, per quello che riguarda l’Italia, Pasolini, secondo cui il cinema si comprende meglio facendolo uscire fuori da se stesso, nel mondo e nella vita; e questo movimento di estroflessione compie anche un percorso di ritorno per cui pensare il mondo, pensare la vita, significa anche pensare altrimenti il cinema. In gioco è qui, quella che io chiamo la specificità non specifica del cinema. Da un lato, molto discorso teorico si è occupato, soprattutto nei decenni passati, di trovare una sorta di specificità del linguaggio cinematografico; dall’altro lato c’è invece un discorso che usa solo strumentalmente il cinema, annullandolo nel mondo. Credo che la prospettiva più proficua sia quella capace di cogliere, dal punto di vista del cinema, la modalità specifica con cui viene messo in immagine il non specifico. E, passando da questo non specifico, si coglie meglio la specificità; partendo dallo specifico si comprende meglio il non specifico.
L’incrocio di queste due direttrici credo che abbia dato risultati estremamente produttivi. Una doppia prospettiva, dunque, che tra l’altro troviamo nella lettura della nostra tradizione cinematografica che è stata data da alcuni grandi autori, cineasti e non. Jean-Luc Godard, ad esempio, in quel passaggio meraviglioso delle Histoire(s) du cinéma (ripreso nella quarta di copertina del libro), dovendo capire la straordinarietà del cinema neorealista, si chiede come mai in quel momento storico particolare un cinema fatto da gente che aveva tradito durante la guerra, che non catturava il suono in presa diretta, sia stato così straordinariamente felice. E dà una risposta che io in qualche modo condivido: c’è tutta una tradizione culturale artistica che passa per Dante e Leopardi, due dei nomi che cita, che si è riversata nel modo di formazione e composizione dell’immagine cinematografica.
G.T. – Vita, storia e politica sono i tre assi che Esposito individua come precipui del pensiero italiano. In quale misura questi tre poli rientrano all’interno del progetto? Il Lessico riesce a coprire questi tre assi affrontando la dinamica di reciproco rimando tra l’immagine e il mondo?
R.D.G. – Il cinema italiano li copre in effetti in un modo particolare. Sempre nel meraviglioso passaggio delle Histoire(s) dedicato al cinema neorealista, Jean-Luc Godard dice che il popolo italiano è stato un popolo “senza uniforme”, e se da un punto di vista delle forme di vita sociale e politica, questo essere senza uniforme può predisporre un popolo a indossarne tante (quello che viene chiamato il trasformismo italiano), dal punto di vista delle forme artistiche questo si è trasformato in una opportunità decisiva.
Anche Leopardi al riguardo dice delle cose piuttosto importanti: il fatto che il popolo italiano non presenti “società stretta” con i valori che la caratterizzano (riconoscimento, onore, stima, gratificazione reciproca), se è il suo limite morale e politico, d’altro canto fa sì che sia più “vicino alla vita” di altri popoli; ed essere vicino alla vita significa sentirne e coglierne l’infinità vanità, e dunque anche per questo il popolo italiano è più “filosofo” di altri popoli.
G.T. – Ogni lemma si struttura a partire da un film recente che si fa carico di esporre una tesi e orienta dunque lo sviluppo della voce secondo un procedimento genealogico che ne ripercorra i mutamenti accorsi lungo la storia. Mi sembra che tale risalita genealogica si faccia carico di orientare una lettura e una volontà diagnostica che affronti la relazione tra il mondo e la sua messa in forma. Credo di scorgere qui un’altra duplice lezione, quella di Michel Foucault e di Maurizio Grande; soprattutto, per quanto concerne quest’ultimo, riguardo ai saggi che compongono La commedia all’italiana. In quale misura queste due tradizioni si compenetrano all’interno del Lessico e qual è il peso di tale volontà diagnostica? In che modo, infine, identificandola come peculiarità del cinema italiano, la storia dei film nelle sue varie fasi ha trovato una rispondenza diretta nella messa in scena della società italiana?
R.D.G. – Sì, ci sono anche queste due tradizioni. Sicuramente lo sguardo genealogico ripreso da Foucault è una prospettiva chiave – anche se magari non esplicitata in tutti i lemmi – e deriva da una idea di fondo. Penso infatti che per leggere il presente vi siano due modelli, uno con una focale più ravvicinata, sedotto dal “radicalmente presente” dell’innovazione tecnologica, dove la capacità di seduzione – di farsi sedurre da parte dello studioso e di sedurre i potenziali lettori – è maggiore rispetto alla sua capacità di farci comprendere realmente i fatti; un altro è invece identificato dalla prospettiva foucaultiana, che mi sembra innovativa e importante per capire il presente: vederlo come l’incarnazione specifica di forme, modi di vivere e di pensare che hanno una temporalità più lunga.
Attraverso questo sguardo genealogico emerge un legame strettissimo tra le forme di rappresentazione e forme di vita. Il cinema italiano è cioè più vicino di altre tradizioni cinematografiche al presente sempre vivo e mai compiuto. Quali sono le modalità abituali con le quali il nostro cinema ha raccontato il mondo, a partire dall’esperienza neorealista? Il neorealismo è un momento epocale, crolla tutto, un popolo che ha tradito deve raccontare la guerra, la Resistenza, le grandi difficoltà del dopoguerra eccetera, e lo fa nelle forme che Andrè Bazin ha chiamato romanzesche, perché il romanzo, lo sappiamo da Bachtin, è un macrogenere che permette di raccontare il presente metabolizzando materiali eterogenei. E come si sviluppa poi negli anni Cinquanta questo rapporto stretto e tra forme cinematografiche e forme di vita? Si sviluppa con la commedia, e qui giustamente si è fatto riferimento a un libro epocale, Abiti nuziali e biglietti di banca di Grande [il titolo della prima edizione de La commedia all’italiana, ndr], non soltanto per la lettura nuova che ha fatto della commedia all’italiana, ma anche perché ha determinato una nuova modalità di intendere il rapporto tra forme di rappresentazione e vita.
Nella commedia e nel neorealismo rosa – Due soldi di speranza (Castellani, 1952), Poveri ma belli (Risi, 1957), Pane amore e fantasia (Comencini, 1953) – gli intrecci sono ancora importanti, perché è sempre lì che la vita entra in campo con i suoi valori, i comportamenti, le abitudini. Negli anni Sessanta c’è invece una trasformazione epocale: questo mondo, che negli anni Cinquanta era ancora tenuto insieme da alcuni valori, comincia a sfilacciarsi ed entra in campo il grottesco che assorbe tutto, che parte da Divorzio all’italiana, Il sorpasso passa attraverso il “grottesco politico” degli anni Settanta, e arriva sino a Belluscone. Che cos’è il grottesco? Dürrenmatt l’ha detto in modo molto chiaro: se voglio rappresentare il presente, ciò che c’è di più vicino, e le storie non le posso più raccontare perché il mondo è a pezzi, diventa irraccontabile, allora uso questo filtro distanziante che è il grottesco, che mi permette di creare tra l’altro un’intercapedine, una distanza, altrimenti si rischia di scivolare nel “cronachistico”; tant’è che Franco Maresco con Belluscone (2014) fa un grande film, la Guzzanti con La trattativa (2014) fa qualcosa che si avvicina a un articolo di giornale.
Poi, oltre al modello comico-grottesco c’è quello melodrammatico. Nel melodramma c’è un tentativo di astrarsi rispetto ai modelli del reale, di negarli, ma questa realtà rientra di sbieco. La dicotomia commedia-melodramma e tutta la piega grottesca che il nostro cinema prende a partire dagli anni Sessanta segnano in maniera unica e inimitabile il rapporto incandescente che c’è tra i registi italiani e la società. Con Pasolini poi questo rapporto viene sintetizzato ed esposto in modo esemplare e radicale, e percorso in tutte le sue declinazioni, contraddizioni e implicazioni.
C’è un arco nel nostro cinema, che va da Roma città aperta (Rossellini, 1945) a Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pasolini, 1975), un trentennio nel quale il cinema italiano ha conquistato il mondo: Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini… In questi trent’anni si passa così dal corpo sacrificale di Anna Magnani, che fonda la nuova individuazione (e non identità) italiana, un popolo che fuoriesce dalla guerra con gente che muore per rinascere, ai corpi insacrificabili di Salò, che sono davvero “nuda vita”, per usare i termini di Agamben, dove questo percorso della modernità controversa italiana giunge a compimento (ed esautorazione).
Però la cosa interessante è che il grande cinema italiano non è solo definito da questo primo arco che nasce con Roma città aperta e si conclude con la “biopolitica” degli anni Settanta, come ce la racconta Pasolini a proposito del neocapitalismo. Oltre a questo arco ben definito, che chiamo della modernità controversa, il cinema italiano è in grado di dare avvio a un secondo arco a partire dagli anni Sessanta, dagli effetti dirompenti, quello della cosiddetta “postmodernità”. Sergio Leone, lavorando sui generi popolari come il western all’italiana, era in grado di pensare un tipo di cinema che chiudeva con la questione della vita, assorbendola nelle forme dell’immaginario. Leone aveva capito in quel momento, fin da Per un pugno di dollari (1964), che l’arco del legame stretto tra forme di rappresentazione e forme di vita si era concluso con il boom e il neocapitalismo, e che ora il cinema si trovava a lavorare con brandelli di immaginario, per di più importato dall’America; un immaginario non più alimentato dal simbolico. Ed ecco dunque che con Leone prende corpo un secondo arco, che fa sì che uno dei più importanti registi contemporanei come Tarantino dichiari che il suo cinema nasce tutto da lì e dai generi di profondità italiani.
G.T. – Nonostante un percorso accidentato e tortuoso le discipline umanistiche si stanno profondamente rinnovando, testimoniando la loro importanza per inquadrare il mondo all’interno di uno schema di senso. Come si inseriscono queste voci all’interno di tale rinnovato paradigma? Il Lessico ha anche l’ambizione di configurarsi come strumento di metodo?
R.D.G. – Sergej M. Ejzenštejn ha riletto i metodi di composizione al cinema cercando di individuare come la fonte di questa composizione potesse essere rintracciata altrove, in altre arti come pittura e letteratura, o addirittura in pratiche antropologiche profonde, come i riti dionisiaci di smembramento e ricomposizione del corpo della divinità. Parte dall’analisi del montaggio per dirci che per comprendere questa pratica bisogna guardare altrove, “fuori” per capire meglio il “dentro”.
Credo che il Lessico del cinema italiano metta in gioco un metodo analogo: pensare il cinema in un movimento potente di estroflessione nel mondo, ma anche nella vita delle altre forme di rappresentazione, letteraria, filosofica, pittorica. Non solo per la questione, in fondo irrisoria e fuorviante, della interdisciplinarietà, ma per cercare di cogliere quella specificità non specifica, che mi sembra il cuore di tutto: vedere il modo specifico con cui il cinema coglie qualcosa di non specifico, e in questo caso la vita, il mondo, le forme della tradizione di un’intera nazione.