Le Confessioni pericolose

In occasione dell’uscita dell’autobiografia di Toni Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015), che tante polemiche ha sollevato, abbiamo intervistato il curatore del volume Girolamo De Michele.

Intervista su “Storia di un comunista” di Toni Negri

Marco Ambra: Lasciamo da parte l’acritica stroncatura di Simonetta Fiori su Repubblica, segno di un evidente fastidio provocato dalla lettura di questa autobiografia, alla quale peraltro lo stesso Negri ha replicato sine ira ac studio.

Partiamo invece dal testo. Scorrendo le seicento pagine della vita di Toni Negri il lettore ha l’impressione di avere a che fare con una confessione, nel senso dato a questa categoria dalla filosofa Marìa Zambrano: la confessione è un genere letterario che sorge laddove l’autore intenzionato a raccontare la propria vita individui un conflitto di questa con la verità (La confessione come genere letterario, ed. it. Bruno Mondadori, Milano 2004). L’effetto principale di questo conflitto sarebbe l’emergere, nell’autore, dell’uscita dal senso di isolamento attraverso la comunicazione di questo conflitto. Ma per farlo l’autore della confessione deve farsi carico di lavoro faticoso, della produzione di un linguaggio in grado di raccontare. Come dice lo stesso Negri «il linguaggio bisogna reinventarlo, attraverso segni e parole che corrispondono ad altro, che indicano altro rispetto a quello che nella mia infanzia ancora mi dicevano» (p. 15). In che modo l’io narrante della vita di Toni Negri è riuscito a parlare questo nuovo linguaggio? Quale relazione ha questa esigenza con il suo essere un filosofo? E con il suo essere un militante?

Girolamo De Michele: Consentimi solo un accenno alla recensione di Simonetta Fiori. Il 5 ottobre 2014, su «la Repubblica» la stessa signora si peritò di definire questo libro – che ancora non esisteva – “un’inopportuna agiografia” stroncando in effetti non il libro, ma la scheda di segnalazione editoriale che lo annunciava: stroncare un libro un anno prima che esso esista credo sia un record.

Veniamo invece al testo. In effetti, il titolo di lavoro che ci ha accompagnato per quasi due anni era “Confessioni”, e se alla fine abbiamo optato per “Storia” è stato anche per i possibili fraintendimenti di questa parola polisemica, che noi intendevamo proprio come tu l’hai intesa – come del resto è detto nel libro. Il lavoro della confessione è stato faticoso, perché faticosa è stata la ricerca di sé da parte dell’io narrante, in atti che era faticoso attraversare – ma quando non lo è? Così, il giovane Toni oscilla fra un “io” che si cerca e una terza persona che è un po’ il suo io che gli si rappresenta davanti: se vuoi, un io che si scopre “un altro”. Solo quando troverà se stesso non come soggetto declinabile alla prima persona singolare, ma come collettivo, questo io avrà un proprio linguaggio, sempre declinato in “un grande noi collettivo” – come recitano gli appunti di lavoro sul manoscritto. En passant, che questo lavoro stilistico non sia stato colto da chi ha parlato di solipsismo o ego-biografia dimostra che mio fratello è figlio unico, perché non ha mai criticato un film prima di averlo visto: ma che te lo dico a fare? Quale poteva essere, il linguaggio di questa narrazione, se non quello filosofico?

Essere filosofo non è per Negri un orpello o una spilletta sul bavero: Negri è filosofo perché lo è diventato, dunque la filosofia è uno strumento di lettura e interazione, sia critica che pratica, col mondo. Il che rende importante anche la narrazione del diventare-filosofo di Negri, dalle prime irrequietudini bruniane e spinoziste, al lungo attraversamento della grande filosofia tedesca, all’apprensione del doppio linguaggio – quello francese e quello tedesco – della filosofia. Ma al tempo stesso, il giovane filosofo in divenire è anche un militante, prima cattolico poi socialista – in anni nei quali questa forma di militanza significava sporcarsi le mani nella miseria contadina del profondo Veneto, nelle prime inchieste sulla società degli anni Cinquanta, nel mondo del lavoro, che peraltro il giovane Negri conosce sin dall’adolescenza, sia per le sue origini contadine, sia per il bisogno di pagarsi i viaggi in autostop con i quali entra in contatto col mondo. Sono tratti che determinano un carattere fatto di curiosità per il mondo, di lavoro continuo, di inquietudine, di un uso critico e non monumentale delle categorie filosofiche, che chi conosce il Negri attuale non fatica a ritrovare ancor oggi. Per concludere: non è casuale che il linguaggio, filosofico e militante, nel quale Negri trova infine se stesso sia un linguaggio diverso da quello degli inizi, degli anni Cinquanta: è il linguaggio di una filosofia e di una militanza intrecciate negli anni Sessanta, quando tutto cambia.

A. : L’autore ha deciso di raccontare la propria vita ripercorrendo l’intrico di avvenimenti, storie, esperienze personali, pratiche sociali che dall’orizzonte cupo della seconda guerra mondiale rinviano al “lungo ’68” italiano, fino al 1979, anno in cui Negri vieni arrestato. Lungo questa faglia critica si consuma l’esperienza dell’Autonomia operaia, il lento maturare della trasformazione dell’operaio-massa in operaio sociale, il postfordismo, l’emergere del lavoro cognitivo, la restaurazione neoliberista. Si tratta di un punto di vista interno al movimento e per questo di rilievo storiografico. In che senso Negri individua nel decennio ’68-’79 l’onda lunga del ’68 europeo (in particolare francese e tedesco)?

D. M.: Il lungo Sessantotto italiano ha peculiarità proprie, attraverso le quali si attualizzano secondo una sorta di differenza italiana quelle potenzialità che erano esplose in altro modo a Parigi e Berlino, e secondo proprie differenti strade erano giunte a esaurimento – con modalità tragiche in Germania – mentre in Italia le lotte si allargavano. Le ragioni sono in quegli stessi processi che indichi nella domanda, e che sottendono il modello di sviluppo italiano, che parte da una generale arretratezza nel dopoguerra per giungere a produrre una vera e propria mutazione antropologica non solo nelle forme e nei rapporti di produzione, ma anche dei comportamenti, e addirittura nei corpi, della generazione degli anni Sessanta e Settanta. In secondo luogo, il biennio ’68-’69 non conosce, nonostante la Strage di Stato del 12 dicembre 1969, un punto arresto e di involuzione: in modi complessi, che nel libro cerchiamo di narrare sia dalla prospettiva del lungo periodo, sia da quella evenemenziale, più narrativa e coinvolgente, di alcuni singoli momenti di lotta, il movimento non solo non si ferma, ma avanza, conquista potere nelle fabbriche e nei quartieri, si dota di strumenti comunicativi originali ed efficaci, fino a porsi, all’interno delle lotte e nel contrasto con le nuove forme di produzione – segmentazione, parcellizzazione, fabbrica diffusa sul territorio – questioni che già preludono alla globalizzazione e alla produzione nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia.

A.: Le pagine che raccontano le origini di Potere Operaio e il fermento della prima metà degli anni ’60 appaiono lontane, per stile e ritmo, alle pagine dedicate all’Autonomia. Come se una nuova forma di vita imponesse all’io narrante un commiato e un’accelerazione dai vecchi giochi linguistici della sinistra partitica, dal riformismo socialista e dal paradigma keynesiano. Fra i primi ad intuire questa svolta ci fu sicuramente Raniero Panzieri e il gruppo dei Quaderni rossi. Quali furono i limiti di quella esperienza? Cosa produce nella narrazione di Negri il senso di quella accelerazione?

D. M.: Come già detto, il Negri dei primi anni Sessanta che partecipa, ultimo arrivato e un po’ intimidito e sulla difensiva, alle riunioni dei “Quaderni Rossi” non è lo stesso Negri degli anni Settanta, della metropoli milanese, di “Rosso” e dell’autonomia diffusa. A dispetto della cronologia che vuole questi periodi vicini, la radicalità degli stili di vita e di militanza degli anni milanesi sembra davvero un’altra epoca. Di conseguenza doveva trovare un linguaggio adeguato, più rapido e frenetico rispetto all’alternanza fra i febbrili viaggi in autostop e la quiete padovana: ma ti assicuro che questo mutamento della narrazione è venuto da sé, prodotto dall’oggetto della narrazione.

Quali i limiti dell’esperienza dei “Quaderni Rossi”? Retrospettivamente, io più che di limiti parlerei di una potenza di essere che esprime tutto quel che può. Panzieri e i “Quaderni” hanno rappresentato un momento di rottura formidabile, un coagulo di soggettività e intelligenze di prim’ordine, che è stato per un certo periodo nutrito delle diverse tendenze – quella più “sociologica”, quella più “militante” – che nei “Quaderni” hanno convissuto fin quando è stato possibile. Poi l’accelerazione impressa dalle lotte ha determinato la necessità di una nuova fase – quella di “Classe Operaia”, ma anche del germinare dei circoli di Potere Operaio, nella quale la produzione teorica era ancor più stretta attorno alle pratiche di lotta. Succederà lo stesso anche con “Classe Operaia” e Potop: ogni esperienza, pratica o teorica, giunge prima o poi al proprio limite, e richiede una rottura con le proprie radici, un salto in avanti.

A.: Riprendendo i suoi anni da assistente di Filosofia del diritto a Padova, Negri ricorda le proprie conversazioni con Carlo Diano a proposito della «storia segreta della filosofia che viveva in parallelo nella nostra antropologia» (p. 144), di quella tensione insolubile tra forma ed evento, tra passione e ragione all’interno della quale la storia del pensiero si rinnova. La storia della filosofia è per Negri sempre doppia, sempre abitata da questa tensione antagonista, mai riducibile a nessuna dialettica. Contro la lettura di Marx che riporta la soggettivazione della forza lavoro all’uno del politico (il partito, il movimento, la sinistra) Negri si dichiara «agostiniano» (pp. 516-517), interprete di una storia come terreno frastagliato, campo di lotta fra l’agire umano e le forze collettive. In che modo questa posizione del suo io teoretico ha influito sul suo modo di affrontare l’esperienza politica? Perché Negri si distinse da quegli «scolastici» (Tronti, Cacciari e in parte lo stesso Panzieri) che preferirono riportare l’analisi del lavoro vivo all’interno del capitale, attraverso la rievocazione dell’autonomia del politico e del primato della sovranità?

D. M.: La pagina in cui, pur con le giuste critiche, Negri ricorda ciò che ha imparato alla scuola di Diano è davvero importante: riguardandola all’indietro, è lì, prima ancora che nel confronto con i testi, nelle polemiche con Cacciari e il suo pensiero negativo, che Negri impara qualcosa di fondamentale che ritroverà poi in Nietzsche, e che costituirà un vaccino preventivo contro le illusioni della dialettica, del continuismo, della bella totalità. Cacciari e Tronti – io terrei da parte Panzieri, anche per riconoscergli l’onestà intellettuale – hanno elaborato costruzioni teoriche sofisticate e complesse, ma il cui scopo era, alla fin fine, giustificare la loro incapacità di uscire dall’ombra del Padre, di rompere con la Casa Madre, con quella sorta di grande Altro che era per loro il Partito (dal quale, peraltro, Tronti non si era mai separato). Nel caso di Tronti, si assiste al paradosso di un pensatore che ha prodotto Operai e capitale, un libro formidabile, il più importante non per una fase, ma per una generazione, per poi passare il resto della sua vita in preda a una specie di senso di colpa per aver nominato – senza praticarlo davvero – il parricidio. Il suo nome nella lista dei senatori cattodem contrari alla legge sulle unioni civili è la logica conseguenza delle sue derive misticheggianti, che vanno a braccetto con l’autonomia del politico – il che non vuol dire che non si provi una immensa pena per l’uomo, nel vederlo in quella compagnia malvagia e scempia.

La polemica, che Negri rende giocando con le categorie della teologia politica così cara ai due teorici dell’autonomia del politico, era in realtà serissima, e aveva come posta la differenza fra l’intellettuale che ha la radicale ambizione di produrre, pensando con la propria testa, giochi di verità, e l’uomo di partito che si lascia imporre quella posizione profetica che consiste nel dire: ecco quello che bisogna fare, che è beninteso semplicemente quello di aderire al PCI, di fare come il PCI, di essere con il PCI o di votar per il PCI. Quello che il PCI domandava all’intellettuale era di essere l’anello di trasmissione di imperativi intellettuali, morali e politici utili al partito. Sto volutamente usando le parole con le quali Foucault rispose alle falsificazioni che Cacciari disse – o forse fu mandato a dire – contro di lui (e Deleuze-Guattari) nel 1978, e la cui attualità mi sembra ancor oggi innegabile. Ma all’epoca non era solo una questione di giochi di verità contro menzogne di partito, o di chi fosse il vero interprete di Nietzsche: era anche una questione di differenza fra l’autonomia e il servaggio di partito, e fra gli stili di vita e le pratiche militanti che questa differenza comportava.

A.: Credi che oggi sia possibile rovesciare, se è tale, l’egemonia degli «scolastici» nel dibattito mainstream su cosa ci sia a sinistra del PD?

D. M.: Ciò che c’è a sinistra del PD è spesso difficile da determinare, visto che il PD non cessa di spostarsi sempre più a destra, facendo diventare topologicamente sinistri anche personaggi come Cuperlo e Fassina. Ma non so se il reiterato tentativo di creare un partito o partitino o gruppetto, l’incapacità di pensare al di fuori della forma-partito, e anche della forma-Stato (sia pure in negativo) facendo di questi oggetti dei trascendentali, derivi da una capacità teorica all’altezza del Tronti vintage: la facilità con la quale si scivola sinistramente verso un antieuropeismo a prescindere senza chiedersi cosa significa sedersi, a volte non solo metaforicamente, allo stesso tavolo con i vari Fusaro, Bagnai, Borghi mi sembra eloquente. Insomma, non c’è bisogno di passare per Tronti o Cacciari per scoprirsi togliattiani del terzo millennio, e saltellare ripetendo “tattica, compagni, tattica!”, come il Clarinetto di 1984.

Essere a sinistra non ha a che fare con la topografia parlamentare, ma con la capacità di costruzione di resistenze, di coalizioni fra soggetti in lotta, di tumulti – costruzione alla quale, con i miei limiti e con grande modestia, io cerco di partecipare. Rispetto a ciò, in questa Storia di un comunista a noi sembra di aver detto e illustrato qualcosa di utile per quelli che oggi lottano e si ribellano: starà a loro, se lo credono, farne buon uso, e provare a far di meglio. Se accadesse, ne saremmo felici.

 

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