La materia ruvida de Lo Scuru

Il romanzo “Lo Scuru” di Orazio Labbate è uscito nel novembre 2014 per Tunué nella collana Romanzi diretta da Vanni Santoni.

Dopo averlo letto, ho lasciato che il libro di Orazio Labbate, Lo Scuru, facesse il suo effetto, sedimentasse alcune settimane. Capita in alcuni casi di volersi concentrare sullo stato d’animo che un romanzo può lasciare, sull’atmosfera con cui può accompagnarti per un breve o lungo tratto; può capitare di rimanere imbrigliati nella materia che si è letto – e forse in questo caso è quello che è accaduto a me – una materia ruvida, nient’altro che una dimensione mentale e labirintica del ricordo. Poi, solo in un secondo momento si riflette su quali siano le tecniche narrative che hanno contribuito alla sua costruzione.

Iniziamo dalla dimensione del racconto: la voce narrante è quella di Razziddu Buscemi – avvocato in pensione – il quale ripercorre con la distanza temporale della vecchiaia e spaziale – si trova infatti in West Virginia – la sua infanzia a Butera, paesino nell’entroterra siciliano in provincia di Caltanissetta. Il romanzo descrive l’infanzia di Razziddu: una parentesi interrotta da un episodio violento che lo coinvolge in prima persona e che lo spinge a emigrare lontano per poter iniziare una nuova vita.

Ma è lo stesso passato a ritornare a galla, nitido e carico di immagini, al limitare della vita: sono trascorsi solo pochi giorni dalla morte della moglie e, nella solitudine notturna del West Virginia, il vecchio protagonista, seduto nel porticato di casa a contemplare le nuvole, si trova faccia a faccia con gli spiriti della propria giovinezza.

Il romanzo si apre energicamente. Il primo capitolo mi fa pensare alle «stragi di lucertole» compiute da Marcello Clerici, protagonista del Conformista di Moravia, il cui destino è già scritto nei giochi sadici dell’infanzia, non diversamente da quello di Razziddu.

Piazza Dante.

Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.

Solo. Io sono da solo, dentro la piazza. (pp. 12-3)

Sin dall’incipit di questo primo capitolo si entra nel mondo di Razziddu bambino, riprodotto da una scrittura carica di immagini; ricorre qui come per altri personaggi la presenza di animali – lo stesso Razziddu ha comportamenti istintivi e animaleschi – volti ad esprimere la crudezza e la violenza della vita.

Leggere Lo Scuru è anche un esercizio di ascolto: stare a sentire la litania di un vecchio, come spiega il personaggio stesso, sempre nelle prime pagine del libro: «In principio, il mio verbo era confuso, un fantasma piccolo, tormentato dalla religione. Nel sentiero della maturità ne uccisi il disordine con la spirtìzza della ragione e la luce del fuoco. Ora, pieno di morte, mi sforzo di parlare, tramite la debolezza, per saggezza. Sotto forma di litania, invaso dalla mia fine ultimativa» (p. 11).

Per cogliere il testo nella sua interezza non bisogna dunque solo ascoltare il significato delle parole, ma prestare attenzione ai suoni, utilizzando lo stesso ascolto che si dedica leggendo poesia. Il linguaggio sembra voler riprodurre con il suo alto uso di consonanti – in modo particolare la “erre” e la “esse”, rispettivamente dure consonanti alveolare e dentale – la durezza del destino del personaggio, sin da picciddu perseguitato dalla paura del diavolo e della religione. Paure in parte dovute al suo essere stato abbandonato: orfano di padre, considerato nel paese un bastardo, trascorre la maggior parte dell’infanzia in un ambiente domestico, sottoposto dalla nonna e dalla madre a diversi esorcismi, oppure in contesti legati alla religiosità, in sacrestia e in chiesa, in funzioni religiose come chierichetto, o ancora nelle lezioni liturgiche di padre Giummaredda.

Dall’articolata materia narrativa che va a costituire i diciotto brevi capitoli emergono alcuni personaggi in particolare: uno di questi è nonna Concetta, responsabile, dal punto di vista di Razziddu, di averlo abbandonato, come aveva fatto precedentemente il padre. Questo personaggio femminile viene descritto, ancora una volta, in modo fortemente espressivo utilizzando immagini prelevate dal mondo animale:

Piccola, una nana lavandaia con l’amore per le uova, le frittate, cattolica fino alla stampa nera sul dito ciccione, dove si inarcava il rosario ad anello. Era un minuscolo cagnaccio, col grasso e la pancia piena di latte, un mammifero carico di figli, una cagnola che si trascina verso il Belvedere per lasciarsi cadere all’ombra del castello normanno (p. 15).

Un’altra figura chiave è Nitto Petralia, mago di professione, amico e iniziatore del padre di Razziddu alla stregoneria e al mistero esoterico. Da un dialogo tra il mago e Razziddu al momento del loro primo incontro, emerge il rapporto che ha il protagonista con l’Altro, il Diavolo, lo «Scuru», un rapporto di attrazione e timore:

«Qual è tò nomi?»

«Razziddu Buscemi».

«Anni?»

«Ventisette», rispose il ragazzo ladiu del lùstru malato del semibuio.

«Qual è il tuo travagghiu?»

«Pescatore».

«Peschi il Diavolo?», dumannò il mago mentre cugghiva aria con le mani per poi nascondere quest’ultime dentro i pugni ora raccolti.

«In quale significatu?»

«È chiaro il significato, ruvigghiti». […] «L’hai mai visto realmente?», predicò sarbaggiu il mago a scorciare la peddi dello scanto del ragazzo.

«A volte credo di trovarlo nell’oscurità o nella natura ombrata della notte. Altre volte in una statua», manifestò serrato Razziddu sfunnàndosi di voce.

«La Statua dei Puci con i capiddi dell’arancia sanguigna e la faccia simile a quella lucifirina?»

«E tu come lo sai?!»

«Lo so» (p. 68).

L’insieme dello stile e del linguaggio di Orazio Labbate lo rendono a oggi una voce originale e distinguibile nel panorama della narrativa italiana contemporanea. Ci si chiede con fiducia quale sarà la materia del prossimo lavoro e verso quale sviluppo lo porterà la sperimentazione linguistica in questo testo così forte e riuscita.

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