Si può dire che il cinema abbia riflesso il sentire comune sulla mafia? O che l’abbia influenzato? Un recente saggio di Umberto Santino, di cui pubblichiamo un estratto, riprende le prime riflessioni sulla rappresentazione cinematografica della mafia siciliana.[*]
A conclusione di un suo scritto sulla Sicilia nel cinema, del 1963, Leonardo Sciascia scriveva: dopo aver visto un film sulla mafia «…lo spettatore è portato a chiedersi non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è. E poiché la Sicilia è terribilmente di moda nel cinema, crediamo che questa domanda dello spettatore è destinata, nei prossimi mesi, ad investire tutta la realtà siciliana: che cosa la Sicilia non è?» Il riferimento di Sciascia era al film Mafioso di Alberto Lattuada, con Alberto Sordi, del 1962, in cui tutto era o si rapportava alla mafia:
Nel film di Lattuada tutto è mafia […]. Mafioso è il dirigente di una grossa industria del nord (per di più riconoscibile, un’industria che lavora in collegamento con altra grande industria europea); di mafia partecipano dogane e compagnie aeree; sicario della mafia è un «cronometrista» di quell’industria del Nord.[1]
E Sciascia, che era solito avvertire: «se tutto è mafia, niente è mafia», per arginare la corsa alla generalizzazione, aveva proposto una definizione di mafia: «una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione fra la proprietà e il lavoro, mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza».[2] La definizione era del 1957 ma riproponendola, con qualche integrazione (la mediazione era anche «tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato»), in un discorso alla Camera del 26 febbraio 1980, come parlamentare eletto nelle liste del Partito radicale, diceva di ritenere che essa fosse ancora valida, «malgrado siano cambiate tante cose, malgrado sia aumentato il volume delle cose».[3]
Quindi: un’associazione a delinquere, il cui fine è l’illecito arricchimento, la cui modalità d’azione si compendia nella mediazione, parassitaria e violenta. Il libro sulla mafia più diffuso in quegli anni, di cui lo stesso Sciascia aveva scritto la prefazione che ne aveva favorito la diffusione, era quello del giovane sociologo tedesco Henner Hess, pubblicato in italiano nel 1973, che sosteneva che la mafia era una subcultura diffusa in mezza Sicilia, e che la tesi più infondata era quella della mafia come organizzazione. Al contrario, lo scrittore siciliano partiva da quello che considerava un punto fermo: la mafia è un’associazione, la sua base sta nella struttura associativa, anche se non ricostruita nelle sue articolazioni. Eppure Sciascia, anche nei suoi discorsi parlamentari, dava buon giudizio del libro di Hess, a riprova che il suo «contraddisse e si contraddisse», che avrebbe voluto sulla tomba, era un fedele autoritratto.
Siamo nel 1980, cioè a due anni dalla legge antimafia (3 settembre 1982, dieci giorni dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, della moglie Setti Carraro e dell’agente Russo), che per la prima volta definisce l’associazione di tipo mafioso e successivamente (nel 1984) verranno le dichiarazioni di Tommaso Buscetta che svelerà nome e struttura di Cosa nostra: alla base i sedicenti uomini d’onore, raggruppati in decine e in famiglie, a livello intermedio i mandamenti, al vertice la commissione e alla testa il capo dei capi. Una piramide di gerarchie fisse, rigide, apparentemente immodificabili. E in una letteratura segnata dalle polarizzazioni, dopo un lungo dominio della visione culturalista (da Giuseppe Pitrè, predicatore dell’ipertrofia dell’io, agli anni Settanta del secolo scorso), negli anni a seguire regnerà la visione organizzativista, come se l’aspetto culturale non potesse coniugarsi con quello organizzativo e il secondo con il primo.
[…]
Sciascia, che di cinema si è occupato non solo come critico ma anche come sceneggiatore, nello scritto già richiamato considerava la Sicilia al cinema come una moda e dava un giudizio critico anche di film che sono considerati dei capolavori. Trovava La terra trema di Visconti (1948) una «regressione nel vernacolo del mondo verghiano», considerato più moderno e universale; giudicava calligrafica la Sicilia de L’avventura di Antonioni (1960) e considerava come un grande film sulla Sicilia («mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione»[4]) il Salvatore Giuliano di Rosi (1961), anche se il nascondimento del capobanda poteva rafforzarne il mito. E osservava che gli spettatori, a vedere anche le sequenze più drammatiche del film, ridevano, perché più che ai contenuti si appassionavano alle immagini e riconoscevano volti e paesaggi noti, come riscoprendoli o vedendoli per la prima volta, nella loro trasposizione sullo schermo.
Il critico cinematografico Vittorio Albano, scomparso nel 2003, scriveva che la Sicilia è la regione italiana più privilegiata dal cinema, con la parte del leone accaparrata dalla filmografia sulla mafia, ma si chiedeva: è un privilegio o un sorta di «sfruttamento continuato ed aggravato (tranne solitarie eccezioni) della cultura, delle tradizioni, dei problemi e dei più appariscenti fenomeni di costume isolani»? La Sicilia non rischia di passare per una «colonia» frequentata da mercanti che pensano solo a speculazioni commerciali? Albano non è di questo parere:
il cinema non è tenuto a rispecchiare fedelmente la realtà, ma ha il suo pieno diritto di reinventarla, o perlomeno di riprodurla in funzione delle proprie esigenze narrative. Né il cinema ha il dovere di esprimere denunce, di svolgere indagini in chiave storico-sociologica, o di comunicare «messaggi» di qualsiasi genere: quando lo fa è per scelta di certi registi che sono mossi da vocazioni di sociologi o moralisti e, guarda caso, si rivelano quasi sempre i meno dotati di capacità di linguaggio filmico degno di apprezzamento.[5]
[…]
Nel cinema si riflettono le idee e le rappresentazioni che circolano a vari livelli, nel cosiddetto immaginario collettivo: gli stereotipi più sedimentati e le analisi più avvedute, le apologie e le ripulse, le complicità e le sfide, una lunga storia di violenze e di lotte che s’intreccia con quella di una comunità e di una nazione. Pur traducendoli nel suo linguaggio, o prendendone le distanze, gran parte della produzione cinematografica ha come fonte testi scritti, in particolare narrazioni romanzesche o ricostruzioni giornalistiche, spesso quelle di maggiore successo. A suo tempo sono stati libri di successo i romanzi di Loschiavo, enorme successo ha avuto Il Padrino di Puzo, un certo successo hanno avuto i romanzi e gli scritti di Sciascia e quelli di Giuseppe Fava. E libri di successo più recentemente sono state le biografie di personaggi del mondo mafioso, vuoi boss irriducibili, come Riina e Provenzano, o pentiti di maggior peso e fama, come Buscetta.
La favola romantica di una mafia di uomini d’onore, con i loro codici e le loro sanzioni ma pronta a sottomettersi alla legge; il cinema apologetico che decanta la mafia come erede e custode della Tradition, in un mondo senza valori e senza punti di riferimento; il cinema d’inchiesta e di impegno civile che ricostruisce legami e complicità e cerca di venir a capo di misteri troppo a lungo coltivati come insondabili e inspiegabili. O anche il cinema satirico che usa il dileggio e l’irrisione come forma di demistificazione e di destrutturazione del rispetto e della sudditanza.
In nome della legge di Pietro Germi è del 1949, il romanzo di Loschiavo Piccola pretura – da cui è tratto il film – del 1948. Sono gli anni in cui sono in corso in Sicilia grandi lotte contadine a cui si risponde con la violenza mafiosa, regolarmente impunita perché funzionale al mantenimento degli assetti di potere. Ci sono già stati i delitti che colpivano dirigenti e militanti del movimento contadino e dei partiti di sinistra, tutti impuniti; c’è già stata la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, per cui hanno pagato solo i banditi.
Giuseppe Guido Loschiavo, magistrato, durante il periodo fascista si era impegnato in un dibattito sulla natura della mafia e aveva sostenuto che essa era associazione a delinquere,[6] mentre altri erano dell’avviso che fosse solo un fenomeno culturale,[7] ma nel romanzo e negli scritti successivi avalla l’idea di una mafia come «onorata società», ben diversa dalla delinquenza, che applica una sua giustizia. Solo una parte della mafia, giovane e/o tralignata, si può considerare associazione a delinquere.
Nelle pagine introduttive del romanzo, destinate a non siciliani, ai «continentali», scrive che la mafia aveva un duplice profilo: sentimento di mafia e azione di mafia. E parla di un’organizzazione strutturata, con un capomafia per ogni paese, circondato da una corte che gli deve obbedienza, mentre ogni capomafia locale la deve al superiore provinciale e questi al regionale.[8]
Negli incontri con il nuovo pretore, il capomafia – il massaro Turi Passalacqua – espone il suo credo: la legge della mafia è come una legge di natura, legge di Dio, l’uccisione di chi sbaglia è come una legittima difesa della società,[9] di fronte a uno Stato che non riesce ad assicurarla; lui è un galantuomo e ci tiene che il pretore gli stringa la mano, gli raccomanda di compiere il suo dovere «senza esagerazione»; proclama: noi non siamo ribelli ma veri uomini d’ordine, abbraccia e bacia il giovane magistrato come un padre e impone ai suoi seguaci di baciargli la mano. Quando il pretore subisce un attentato lo fa assistere, dice che il delitto è stato compiuto da un «bardascia», un volgare delinquente, e che la mafia lo punirà. Il pretore si oppone e il massaro l’accontenta: basterà esiliarlo. E quando un affiliato, un rappresentante della mafia giovane che viola le regole, praticando «l’intimidazione spregiudicata connessa all’umiliazione della vittima»,[10] uccide il giovane Paolino, che è diventato amico del pretore, il capomafia consegna l’assassino al magistrato. La scena finale è il reciproco riconoscimento dei due poteri. il pretore dice al massaro: «Lei è veramente il re del paese», Passalacqua replica: «Io sono il servitore di Voscenza»[11] e si piega alla legge. Lo scrittore commenta: «Le due Leggi, quella dello Stato, la togata, e quella della campagna, avevano fatto armistizio e per la prima era vittoria!»[12]
Loschiavo continuerà su questa strada e quando muore il vecchio Calogero Vizzini e gli succede Genco Russo, sulle pagine di una rivista giudiziaria scrive:
Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è un’inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è sempre inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione dei banditi e dei fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine. […] Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e al miglioramento sociale della collettività.[13]
Chi scrive è Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, siamo a metà degli anni Cinquanta e la mafia sta ultimando la strage dei dirigenti e militanti delle lotte contadine. Per uccidere magistrati e uomini delle forze dell’ordine ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Il regista Pietro Germi, onesto socialdemocratico, ricalca la narrazione del magistrato-scrittore e celebra insieme l’onore della mafia e l’impegno del magistrato, concludendo con la vittoria della Legge sulla mafia. E a proposito del film, che ebbe grande successo, dichiara che per lui la Sicilia è come una categoria dello spirito, il luogo dello scontro tra il Bene e il Male. E in effetti il film segna la scoperta dell’isola come il Far West d’Italia e la trasposizione in chiave nazional-popolare della lezione dei grandi registi americani, a cominciare da John Ford.
Siamo, come si vede, in piena atmosfera romantica e, al di là dell’oceano, questo modo di intendere e raccontare la mafia troverà la sua apoteosi nel Padrino di Coppola (1972) e nelle sue prosecuzioni (1974, 1990).
Note
[*] U. Santino, La mafia al cinema, tra stereotipi e impegno civile, saggio introduttivo al libro di Andrea Meccia, Mediamafia. Cosa Nostra tra cinema e TV, Di Girolamo editore, Trapani 2014, pp. 196, euro 15.
[1] L. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino 1970, pp. 254 e sgg, virgolette nel testo.
[2] L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1961, p. 168.
[3] L. Sciascia, La storia della mafia, Barion, Palermo 2013, p. 25, in A. Camilleri, Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano 2009 (il testo era stato pubblicato nel 1972 su «Storia illustrata»).
[4] L. Sciascia, La corda pazza, cit., p. 253.
[5] V. Albano, La mafia nel cinema siciliano. Da In nome della legge a Placido Rizzotto, Barbieri, Manduria 2003, p. 8.
[6] G. G. Loschiavo, Il reato di associazione per delinquere nelle provincie siciliane, S.A.T. Pliniana, Selci Umbro 1933.
[7] G. M. Puglia, Il “mafioso” non è associato per delinquere, in “Scuola Positiva”, 1930, I, 452.
[8] G. G. Loschiavo, Piccola pretura, Colombo, Roma 1948, p. 4 e p. 112.
[9] Ivi, pp. 157 e sgg.
[10] Ivi, p. 255.
[11] Ivi, p. 276.
[12] Ibidem.
[13] In Processi 1955.