Recensione a “Il silenzio della polvere. Capitale, Verità e Morte in una storia meridionale di amianto”, a cura di Antonello Petrillo, Mimesis.
Il fatto sociale che si narra e si interpreta alla luce di alcune categorie sociologiche ne “Il silenzio della polvere. Capitale, Verità e Morte in una storia meridionale di amianto” (a cura di Antonello Petrillo, Mimesis-Cartografie sociali) è del tutto simile ad una qualsiasi altra micro-storia coloniale, con la differenza che qui non occorre spostarsi di latitudini e neppure tanto lontano nel tempo. Si tratta infatti, di un caso di “colonialismo sul posto”, come direbbe Balibar e come sostengono gli autori del volume. Siamo nell’Irpinia dell’immediato post-terremoto, esattamente nella provincia di Avellino, agli inizi degli anni Ottanta, quando un imprenditore, Elio Graziano, apre l’Isochimica, una fabbrica per costruire vagoni per treni ovvero uno dei più grandi giacimenti di sversamento di amianto d’Europa.
Una miriade di operai-ragazzini pensa di aver risolto l’atavica condizione del “disoccupato meridionale”, ma ancora non sa che di lì a poco alcuni sarebbero morti ed altri si sarebbero ammalati: asbestosi, fibrosi polmonari, placche e ispessimenti pleurici, mesotelioma peritoneale, mesotelioma della tunica vaginale e del testicolo, carcinoma polmonare. La “polvere bianca” che andranno a maneggiare senza alcuna protezione è amianto, un veleno di cui in quegli anni – come ricostruisce Petrillo nel suo bel saggio – si sapeva già tutto, ma non era dato parlarne. L’intreccio si genera, ma presto si biforca: da un lato l’ascesa dell’imprenditore Graziano che nel frattempo diventa, oltre che un “salvatore” dell’Irpinia, anche proprietario dell’Avellino calcio, amato e rispettato sul territorio come un podestà; dall’altro famiglie proletarie che trovano lavoro, accedono al salario, ma perdono la salute e in parecchi casi la stessa vita.
Un racconto coloniale, dicevamo, che narra di trasformazioni sociali, di modalità di gestione del territorio e della popolazione – come ci insegna Foucault – e di forme di organizzazione del lavoro “feudali e modernissime” insieme. Una ricerca precisa e minuziosa sul campo, che ci restituisce una storia e una narrazione sociologica in grado di andare al di là del descrittivismo della cronaca giudiziaria, ma anche al di là di un’idea di sociologia astratta, fuori dalla realtà dei fatti sociali. Oltre a Petrillo, che scrive uno dei saggi e cura il volume, il lavoro si snoda attraverso vari contributi che analizzano differenti piani della questione: Petrozziello scrive della bonifica, Di Costanzo scrive di territorio e popolazione, Della Cerra ricostruisce la vicenda della rappresentazione mediatica del caso, De Biase riannoda i fili della lotta operaia scattata all’indomani della presa di coscienza del disastro, D’Ascenzio tratta di relazioni industriali nel Mezzogiorno, Ferraro scrive di salute e lavoro, nodo mai risolto e che coinvolge, in assoluta tenuta conflittuale, la medicina sociale e la prospettiva dei sindacati che sull’argomento è stata particolarmente muta. L’Ilva è l’esempio paradigmatico più recente.
L’intreccio di ricerca e di restituzione è potente perché tutto basato sull’esperienza dei soggetti direttamente interessati, corpi che parlano e corpi che contano, situati in un determinato spazio e all’interno di un’altrettanta determinata rete di relazioni. Rete asimmetrica, come tutte le relazioni che scaturiscono dal Capitale. Una sorta di empirismo che stravolge la postura classica delle scienze sociali troppo spesso ancora vincolate a uno sguardo intrappolato in una prospettiva orientata al “quantitativismo”, alla cultura del “dato senza corpo”. Questo lavoro si inserisce così, pienamente, in una narrazione complessa in grado di restituire la narrazione sociale a chi “fa” la società, cioè a noi stessi.
Leggendo questo libro si possono fare molte considerazioni, alcune mi sembrano più pregnanti di altre. La prima che mi viene alla mente è di ordine temporale. Mentre si consumava il disastro dell’Isochimica di Avellino, gran parte della sociologia italiana ed europea si occupava, talvolta persino con toni enfatici, del paradigma del “rischio” considerando quest’ultimo come un vero e proprio superamento della geografia concettuale del fordismo. Le società tardo-liberali, per Luhmann tanto quanto per Ulrick Beck – seppure a partire da approcci diversi – non potevano che assumere il rischio come orizzonte di riferimento che avrebbe dovuto guidare tanto i nuovi assetti istituzionali legati alla governance, quanto le politiche di sviluppo ambientali e il progressivo ridimensionamento dell’esigibilità dei diritti sociali, per approdare a nuove forme di sicurezza non più determinate dal vecchio assetto sociale e industriale, così come lo abbiamo conosciuto dalla Rivoluzione industriale in poi. Una temporalità impressionante se consideriamo che la sociologia del rischio ha segnato la scena sociologica almeno dalla fine degli Ottanta all’inizio degli anni Duemila, ovvero esattamente quando avremmo dovuto fare i conti con una realtà empirica che già ci chiedeva di utilizzare l’apparato concettuale della “sociologia del disastro” e del disastro ambientale soprattutto.
Di quali rischi teorici e paradigmatici parlavamo se nel frattempo si consumavano sotto i nostri occhi solo disastri? La seconda considerazione concerne la modalità attraverso cui questi fatti sociali vengono narrati dalla doxa per costruire ciò che comunemente definiamo “opinione pubblica”. Prima dello scalpore suscitato dalla sentenza del processo Eternit, che tipo di informazione è stata davvero trasmessa dai media mainstream sull’amianto? Ma soprattutto, se già erano disponibili dossier e indagini di ogni sorta da parte delle istituzioni sulla pericolosità della “polvere bianca” fin dai primi anni ’80, come si può pensare di affidare solo ad un processo contro un imprenditore un simile fatto sociale? E la responsabilità politica? Questi fatti sociali e la vicenda Isochimica in primis, infatti, ci dicono molto di più rispetto a quanto possa emergere da atti e faldoni processuali. Il “silenzio della polvere” è stato ed è ancora tale per una ragione di altra natura: l’estrazione di valore e di plusvalore dall’umano è stata ed è la costante del funzionamento dell’ordine economico basato sul culto del profitto e del Capitale a scapito di una forma degna di giustizia sociale. Un ordine che ha avuto come proprio limite solo il welfare e i diritti sociali, certamente non la risoluzione dell’abbinamento dicotomico e micidiale tra salute (non salute, in realtà) e lavoro.
Avviandomi verso la chiusura mi prenderò la libertà di fare la terza e ultima considerazione. Anni fa, mentre attraversavo una montagna del Sulcis per raggiungere la splendida Piscinas, il famoso deserto rosso della Sardegna, vissi un’esperienza psichica molto forte. Quasi dinnanzi ad ogni tornante che ci conquistavamo, come fossimo in una scena che si avvitava e svitava su se stessa per ore e ore, ci si presentavano improvvisamente dinanzi degli strani ed enormi fantasmi: erano le miniere dismesse della zona. Ci apparivano gigantesche, improvvise, vuote, desolate, senza corpi, zombi senza vita, ma ancora lì, presenti, imponenti come un grande dispetto della natura e della storia o come un fantasma, appunto, di cui è pressoché impossibile liberarsi. Leggendo questo libro, l’immagine sopra descritta mi è tornata prepotentemente alla mente e spero, mi auguro, che il fantasma dell’Isochimica, così come i fantasmi di tutte le persone che facendo gli operai hanno perso la vita a causa dell’amianto o della mancata sicurezza sul lavoro, possano presentarsi continuamente ai nostri occhi e nella nostra testa, come una sorta di rimozione impossibile.