Intervista a Jeffrey Schnapp.
Stefano Capezzuto ha incontrato Jeffrey Schnapp al Museo Marino Marini di Firenze. Il direttore del metaLAB dell’Università di Harvard ha partecipato al ciclo di incontri “What’s Next” con una conferenza dal titolo “La sorte dei saperi nel ventunesimo secolo”.
Stefano Capezzuto: Una delle prime difficoltà in cui s’imbatte chiunque operi nell’ambito delle Digital Humanities è quella di darne una definizione esauriente. In Italia sembra ancora prevalere l’idea di un’informatica applicata alle scienze umane (e, non a caso, si è affermata la formula «Informatica Umanistica»); tale impostazione fa sì che i corsi di studio siano in larga parte strutturati per fornire una serie di competenze digitali ritenute utili in ambito letterario, filosofico e storico.
Può essere, a tuo parere, sensato un ribaltamento di prospettiva, che riconosca nelle discipline umanistiche un set di tool per l’informatica? Si potrebbero considerare il pensiero critico, l’immaginazione, l’interpretazione storica come delle «tecniche», non accessorie ma incorporabili nell’apprendimento stesso delle tecnologie digitali? Cosa accadrebbe se, ad esempio, per un esame di data analysis fosse richiesta non soltanto l’abilità di estrarre informazioni da un dataset, ma anche quella di porsi domande più radicali su cosa siano quegli oggetti che chiamiamo «dati»?
Jeffrey Schnapp: È una domanda molto interessante e importante. Io condivido pienamente il punto di vista secondo cui una definizione dell’umanistica digitale che la riducesse all’applicazione di una serie di strumenti informatici allo studio del patrimonio culturale sarebbe un’operazione relativamente banale.
Questo dialogo, questa convergenza e collisione tra il mondo dell’informatica e il campo delle scienze umane data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e durante questo mezzo secolo ha avuto una fortissima evoluzione. Già negli anni Novanta, quando negli Stati Uniti si è affermata la formula Digital Humanities e si è smesso di parlare di Computational Humanities o Humanistic Computing, si è voluto sottolineare due aspetti: l’emergenza della Rete come spazio pubblico e la personalizzazione del computer, diventato oggi qualcosa che portiamo in tasca, sugli occhiali o al polso. Insomma l’informatica stessa è entrata a far parte della nostra quotidianità e del modo in cui ci muoviamo nel mondo: non più un attrezzo dell’ufficio o del laboratorio, ma un oggetto sociale.
L’espressione Digital Humanities segnava appunto questo momento di passaggio, in cui la distinzione tra il mondo delle tecnologie digitali e la cultura nella società non esisteva più. Si tratta di un momento di fusione in cui c’è stato sicuramente un ripensamento su cosa può essere la ricerca nel settore delle scienze umane ma anche – come tu hai accennato – è emersa la funzione critica, creativa, di pressione e di invenzione, che proviene dalle tradizioni umanistiche.
Oggi siamo entrati in un periodo in cui i dati fanno parte della nostra soggettività, della nostra società e cultura, e il digitale fa parte del modo in cui noi produciamo, diffondiamo e scambiamo le conoscenze. Per questo preferisco parlare di Knowledge Design, design della conoscenza. Non mi interessa riferirmi ad un filone di ricerca specificatamente umanistico; tanti progetti e pratiche emergenti ci portano già oltre i confini di una tassonomia delle discipline.
Digital Humanities significa per me allora parlare di un modello sperimentale delle scienze umane, dove la tecnologia ha un ruolo ma non è l’unico ruolo: c’è spazio anche per l’immaginazione, per nuove ipotesi di comunicazione, modelli di conoscenza e generi da inventare. Uno spazio di sperimentazione e invenzione.
S. C.: Parlando di archivi in Rete, li hai descritti come “esseri viventi”, dinamici e fragili, la cui sopravvivenza o estinzione dipende in gran parte dal riuso dei materiali da parte di una comunità attiva. La tua proposta è stata, quindi, quella di ripensare il concetto stesso di archivio: non un luogo dove si conservano cose, ma dove si fanno cose. Dal punto di vista di un umanista digitale è interessante allora capire se queste “cose” siano, in qualche modo, portatrici di senso.
A questo proposito, ritieni che le pratiche partecipative stiano contribuendo in modo positivo all’esplorazione, manipolazione e riuso degli artefatti digitali, come dati e immagini, o intravedi possibilità ancora poco battute?
J. S.: È molto facile parlare di cultura partecipativa, così come – ad esempio – di democrazia, però mettere in atto queste belle idee è sempre un problema di design. Come nel Settecento, quando sono avvenute le grandi rivoluzioni, immaginare un’architettura partecipativa (le piazze pubbliche) e i canali di comunicazione (le pubblicazioni sulle pareti) significava esprimere una visione e un’ideologia.
Nella situazione contemporanea ci troviamo di fronte a sfide simili ma con uno spazio pubblico diverso, che richiede l’elaborazione di nuove norme. Per questo, quando si parla di meccanismi di coinvolgimento del pubblico nella produzione della cultura, nella ricerca scientifica o nel sociale, bisogna tenere presente che la Rete non è adatta ad ogni forma di partecipazione: alcune funzionano molto bene, altre meno.
Le vere sfide, a mio parere, sono quelle che cerco di incorniciare parlando di Knowledge Design, dove in questo caso design significa: scomporre un problema in elementi e comprendere in quali di questi è possibile inserire la componente partecipativa. Alcuni progetti di citizen science, ad esempio, riescono con grande efficacia a coinvolgere numeri significativi di persone con la passione per uno specifico settore: l’osservazione delle stelle, la meteorologia, le migrazioni degli uccelli, o certe categorie di collezionismo. Ma bisogna costruire, “architettare” con grande intelligenza questi progetti, che molto spesso rischiano di fallire, proprio perché la partecipazione non è monolitica: non funziona allo stesso modo in ogni contesto.
Un progetto secondo me molto bello è Ancient Lives. Si tratta di una piattaforma che ha coinvolto un gruppo di utenti nella trascrizione dei papiri di Oxyrhynchus, attraverso la decodificazione di minuscoli frammenti che avrebbero richiesto anni di studio ad un singolo paleografo. Per partecipare non era richiesta alcuna conoscenza del greco demotico, ma la capacità di riconoscere una lettera, la cui interpretazione veniva poi sottoposta a meccanismi di votazione. Questo è un esempio di un buon design: comprende la scala in cui si può agire e stabilisce al giusto livello le competenze richieste. Molte persone, anche giovani studenti, hanno preso parte in quanto affascinati da questo gioco, che però era appunto portatore di senso.
S. C.: Mi sembra che la sfida oggi sia anche persuadere istituzioni e aziende dell’importanza di avvalersi di una figura professionale come il knowledge designer. Cosa significa per un umanista come te, filologo medievalista di formazione, lavorare in progetti come Piaggio Fast Forward?
J. S.: Non c’è una linea diretta che lega la mia attività scientifica con quella di sviluppo di nuovi prodotti, però io sono convinto che le grandi sfide – sia sul fronte della ricerca “pura”, sia nei settori “applicati” – richiedano oggi una duplicità di competenze, cioè: profondità di radici in un campo disciplinare e un’attitudine trasversale. Si tratta di una formula paradossale che risponde allo strumentario in straordinaria trasformazione della nostra epoca e che spiega il valore di una formazione umanistica.
Ad esempio, tutto ciò che fa parte del metodo di ricerca di uno storico – la “lotta” per la costruzione di significati, i processi di elaborazione critica – rappresenta un valido strumento, soprattutto se messo sotto pressione da compiti che vanno oltre il proprio settore di appartenenza. La creatività è, per me, questa tensione. L’innovazione avviene sempre nell’attrito, nella collisione o scontro tra tradizioni e forme di sperimentazione (com’è stato, ad esempio, per il Bauhaus).
Il nostro mondo universitario attuale, pur invocandola, purtroppo perde spesso questa dimensione di profonda interdisciplinarità, da vivere anche con allegria e stupore. I laboratori che ho avuto la fortuna di poter costruire – sia a Stanford, sia ad Harvard – hanno avuto quest’ambizione. Il MetaLab è un laboratorio in senso scientifico, ma non è composto da scienziati: siamo un mix tra creativi, designer, tecnologi, storici. Ci diverte l’avventura di cercare nuove forme, radicandoci in domande profondamente umanistiche. Non siamo data scientist e non vogliamo esserlo: il nostro approccio è diverso. Ti faccio un esempio, ricollegandomi a quanto dicevi all’inizio sui dati. Per un umanista il dato eccezionale, anomalo è spesso quello vincente; non ci interessa necessariamente seguire dei pattern. Così oggi quando lavoriamo sui database delle istituzioni culturali, gli artifact (imperfezioni o problemi di architettura nei dati) spesso sono per noi gli elementi decisivi perché segnalano che c’è stato un cambiamento nella tassonomia: un oggetto che era un disegno è diventato un documento, una fotografia è diventata un’opera d’arte, e così via.
S. C.: Ci segnalano anche la natura dei dati in quanto prodotti umani, di per sé non “neutrali”, elemento che invece sembra costantemente occultato dalle narrazioni attuali sui big data.
J. S.: Esatto: i dati non sono “dati”. Sono delle costruzioni, e quindi delle interpretazioni, che appartengono al settore della cultura e alla vita sociale. Questa dimensione, per me fondamentale per le Digital Humanities, può sembrare in conflitto con il punto di vista di altri appartenenti a questa community, che puntano invece ad una convergenza tra le scienze sociali e quantitative. Io non sono contrario purché ci sia vitalità e dibattito. Quello che io temo di più – forse è la mia formazione filologica – è una specie di “sclerotizzazione” delle aree disciplinari, quando adottano un atteggiamento difensivo nei confronti delle nuove tecnologie. La filologia era una tecnologia di punta nella seconda metà dell’Ottocento, ma perché ripiegarci oggi su metodologie ottocentesche?
S. C.: Manca forse anche l’elaborazione di un linguaggio comune che permetta questo dibattito e questa collaborazione tra discipline.
J. S.: Per questo è stata fondamentale per me la scelta della parola “laboratorio” per descrivere queste piattaforme di sperimentazione, che da un lato suggerisce l’idea di modelli di conoscenza collaborativi adatti alla complessità del reale, dall’altro invita a “sporcarsi le mani” per lavorare insieme. Il digitale porterà sempre di più ad una contaminazione tra sfera della ricerca “pura” e settori della “pratica”.
S. C.: Un altro tipo di contaminazione di cui spesso parli a proposito di Knowledge Design è quella tra due forme di sapere, la prima come prodotto e la seconda come processo. Il tuo ultimo libro, FuturPiaggio, è il risultato di questo dialogo?
J. S.: Io sono convinto che, a differenza di quanto affermano alcuni giornalisti, non stiamo affatto vivendo un’epoca di declino della cultura stampata, ma stiamo assistendo ad una sua evoluzione. Questo porta a chiederci: cos’è un libro? Abbiamo conosciuto quest’oggetto in una sua fase, ma non sappiamo che aspetto avrà nella prossima.
FuturPiaggio, che racconta i 130 anni del gruppo Piaggio, evoca nella sua forma fisica una genealogia del libro sperimentale, industriale e artigianale allo stesso tempo, che è quello futurista. Ovvero un tentativo di far “esplodere” l’oggetto-libro per come era stato pensato nell’Ottocento e di creare un’alternativa: un “libro imbullonato” come quello di Fortunato Depero, che si può aprire, chiudere, a cui è possibile aggiungere delle pagine come ad un oggetto meccanico. FuturPiaggio lo fa però in una chiave rivolta al futuro e contiene perciò anche un manifesto.
La mia idea è che un grande settore della cultura della stampa insisterà sempre di più sulla fisicità dell’oggetto, utilizzando naturalmente strumenti digitali di progettazione e design per fare dei libri sperimentali. Un volume che sia l’equivalente stampato di un pdf perderà sempre più senso, così come lo stanno perdendo ora i giornali cartacei.
La cultura della stampa, insomma, rifiorirà in nuove forme. Affrontando questo tipo di cambiamenti, il vantaggio di essere uno storico è che, parafrasando la frase di un mio amico archeologo, il mio “database” ha mille anni.
Riferimenti bibliografici
J. Schnapp, Knowledge Design, Volkswagen Foundation, Hannover 2014.
Id., Digital humanities. Meet the media guru, a cura di M. G. Mattei, Egea, Milano 2015
Id., Futurpiaggio. 6 lezioni italiane sulla mobilità e sulla vita moderna, Rizzoli, Milano2017 .
Id., A. Burdick, J. Drucker, P. Lunenfeld, T. Presne, Umanistica_Digitale,di M. Bittanti, Mondadori, Milano 2014.
[Le fotografie che accompagnano questo post sono state scattate da Cao Zhang durante la conferenza di Schnapp al Museo Marino Marini].