Intervista a Hossein Derakhshan.

Hossein Derakhshan è uno scrittore e giornalista canadese-iraniano noto per essere considerato il padre dei blogger iraniani.
All’indomani dell’11 settembre 2001, decise di creare un proprio blog, il primo in lingua persiana. In pochissimo tempo l’Iran divenne uno dei paesi con il maggior numero di blog.
Detenuto in Iran dal 2008 al 2014, al suo rilascio ha trovato un mondo della rete (e nella rete) molto diverso da quello che lui conosceva e per il quale era finito in prigione. Nel suo post Il web che dobbiamo salvare, pubblicato il 14 luglio 2015 attraverso la piattaforma Medium, ha denunciato la morte del web.
Secondo Derakhshan, con il depotenziamento dell’hyperlink, ovvero del collegamento ipertestuale, la rete sta diventando sempre più una modalità di intrattenimento lineare, passiva e centralizzata, una forma rimediata di televisione. Il modello Facebook, infatti, certamente oggi dominante, tende a scoraggiare l’utilizzo degli hyperlink (che vengono sempre più incorporati nella struttura del social newtork, come dimostrano i video embedded e gli Istant Articles). Se Google — sostiene Derakhshan — ha costruito il proprio impero intellettuale ed economico sul potere dell’hyperlink, Facebook, invece, tende a contenere l’utente nell’ambito del proprio ecosistema. Le conseguenze potrebbero essere molto serie: innanzitutto per la sopravvivenza e la sostenibilità del giornalismo e, più in generale, per la definizione delle modalità attraverso cui conosciamo ed interagiamo con il nostro ambiente.
Angela Maiello: Nel 2001, dopo gli attacchi alle torri gemelle, hai creato il tuo blog dando vita a quella che è stata poi definita la rivoluzione dei blog iraniani. In quel periodo, che ruolo aveva l’attività di blogging nella riconfigurazione dello spazio pubblico?
Hossein Derakhshan: Credo che l’hyperlink fosse l’elemento-chiave di quello spazio vibrante: sia che prendesse la forma del blogroll, dando accesso così ad una lista di blog o siti web che una determinata persona riteneva utili e meritevoli, oppure che venisse usato in conversazioni dove si poteva discutere un post citandolo e collegandolo con un link. I commenti sono una conversazione tra lettori e autori mentre i link erano conversazioni tra autori e autori. È proprio questo tipo di conversazione che è diventato più difficile senza l’hyperlink.
A. M.: Tra gli elementi che hanno determinato la notorietà del tuo blog c’è sicuramente il fatto che fosse il primo blog in persiano. Come te lo spieghi? Il titolo di padre dei blogger iraniani ti è stato attribuito semplicemente perché sei stato il primo?
H. D.: Certamente l’essere un pioniere ha contribuito a determinare la mia notorietà, tuttavia ci sono stati altri pionieri che non hanno mai raggiunto il mio status. Essendo un giornalista sapevo come scrivere per attrarre lettori e, all’inizio, scrivevo post più sintetici ma con maggiore frequenza. Ho cercato anche di promuovere altri blog di cui tenevo una lista enorme. Il mio blog è diventato, così, una specie di punto di partenza per la navigazione quotidiana di molti iraniani. Ho svolto anche un ruolo cruciale nel far conoscere Unicode agli Iraniani, in un momento in cui non c’era quasi ancora nessun sito che lo utilizzava.
A. M.: Come il protagonista della storia coranica che racconti nel tuo post, anche tu dopo la tua detenzione hai trovato un mondo molto diverso. Qual è stata la tua prima impressione? Lo sviluppo delle tecnologie mobile e la diffusione dei social network hanno creato una sorta di mondo ibrido: cosa ne pensi e in che modo tutto ciò ha un impatto sull’attività di blogging?
H. D.: È un’ottima domanda. Internet fu creata dal Pentagono ma presto divenne un progetto utopico guidato da tecnologi e accademici anti-capitalisti. Tuttavia, man mano che le sue potenzialità politiche ed economiche venivano allo scoperto, gli stati e le multinazionali si sono avventati su di essa per poterla controllare ma anche per trarne dei benefici. Mentre ero in carcere si è verificato il momento cruciale in questo processo di cambiamento. Ora il web, quale forma tecnologica dominante basata su Internet, sta morendo. È il risultato delle app mobile e dei social network: internet esiste ancora come infrastuttura, ma invece di essere una modalità di interconnessioni di siti web, viene ora inteso come un insieme di applicazioni mobile disconnesse tra di loro. Da un punto di vista sociologico, assistiamo ad un cambiamento anche nei termini di valori oggi dominanti in rete: prima nel web i valori dominanti erano diversità e interconnettività, archiviabilità e durata, esplorabilità, apertura e decentralizzazione, ora lo sono novità e spontaneità, popolarità ed immagine.
Nei blog, ad esempio, raramente trovavi una foto personale dell’autore, si badava molto più alla sostanza e alla qualità che all’apparenza. Oggi tutti i social network costringono i proprio utenti a caricare una foto profilo: è il segno di un cambiamento decisivo rispetto ai valori dominanti. Non sto dicendo che ciò sia necessariamente negativo, ma è un cambiamento. La nuova internet è diventata molto personalizzata, secondo il modello dell’individualismo americano. Forse si potrebbe addirittura sostenere che internet, sotto molti aspetti, è diventata sempre più dominata da questo modello americano.
A. M.: Il problema del passaggio da una rete basata sul testo ad una basata sull’immagine mi sembra cruciale. Tu hai scritto: «Il futuro del web è la televisione». La Timeline di Facebook, il successo di Instagram e di altre applicazioni simili sono la prova che le immagini stanno acquisendo sempre più importanza in rete: tu credi che ciò coincida necessariamente con un impoverimento del potenziale critico del web? Non credi che potremmo fare un uso critico delle immagini in rete?
H. D.: Non penso, le immagini sono molto meno capaci del testo di veicolare messaggi intellettuali complessi. Dopo tutto, l’alfabeto è stato inventato per consentire all’essere umano di avere un sistema di comunicazione molto più complesso. Tornare alle immagini è una sorta di regresso nella storia. Il testo era così potente che l’alfabetizzazione è stato per molto tempo un enorme privilegio riservato solo ad una minoranza selezionata. Le masse venivano private dell’alfabeto a causa del suo potere sovversivo. La democrazia moderna è fondata sull’alfabetizzazione testuale. Ora, con il dominio delle immagini, stiamo producendo una società orale. Gli americani fanno da pionieri in questo trend ed è il motivo per cui la democrazia, con la sua cultura dominante della tv, è in serio declino. Sta accadendo altrettanto rapidamente anche in altri paesi.
A. M.: Se siamo d’accordo che non possiamo semplicemente tornare indietro, quale può essere allora l’alternativa?
H. D.: Penso che lo stream non sia di per sé quello che è adesso. Possono esserci molti tipi di stream con valori sociali diversi e, quindi, diversi algoritmi. Prima gli algoritmi devono diventare aperti e trasparenti – e ciò richiede un’azione politica degli stati – e poi devono poter essere personalizzabili. Bisogna essere nelle condizioni di scegliere algoritmi basati sulle persone, sulle notizie, sulla comodità, sullo stimolo, e così via. Gli algoritmi esistenti dominanti non dovrebbero essere considerati naturali, possono esserci molte alternative.
A. M.: Allora quali dovrebbero essere, secondo te, le regole della partecipazione nel web che dobbiamo salvare? Seguendo la tua riflessione, potremmo dire che ora viviamo in una sorta di regime della condivisione che garantisce il regime di sorveglianza. Quale può essere una buona pratica da adottare come utenti, ovvero come cittadini di questo nuovo tipo di spazio pubblico? Quale tipo di libertà ci dà questo spazio?
H. D.: Non penso che il web possa essere salvato senza l’hyperlink ma, al momento, non vedo alcun tentativo per resuscitarlo. Se è vero che, come dice Foucault, là dove c’è potere, c’è resistenza, dobbiamo trovare i potenziali punti di resistenza. Un modo può essere quello di confondere gli algoritmi, mostrando delle preferenze discordanti: seguendo le persone o le pagine con cui siamo in disaccordo, o dando il proprio like a post che non ci piacciano, possiamo raggiungere un livello di diversità altrimenti impossibile. Forse anche programmatori e hacker possono trovare dei modi per manipolare e personalizzare gli algoritmi, creando dei plugin disponibili a tutti per Facebook, Twitter e gli altri. Non sono certo che siano abbastanza aperti ma, se fosse possibile, sarebbe fantastico.
Qui potete leggere l’intervista in inglese