In altri termini. Storia e memoria negli archivi psichiatrici

È in corso di svolgimento a Siena Metamorfosi rassegna di incontri, laboratori e spettacoli dedicata al rapporto tra arti performative, disagio fisico-mentale e marginalità sociale.

Saremo presenti nel programma di questi tre giorni con una tavola rotonda dal titolo “Le voci e l’archivio: storie dal S. Niccolò di Siena”, organizzata insieme all’associazione Culturing, che si terrà domani 16 febbraio alle ore 16.30 presso il Santa Chiara Lab. Sarà questa l’occasione per presentare lo stato dei lavori attorno all’archivio dell’ex-ospedale psichiatrico senese e dibattere insieme alle istituzioni cittadine circa il futuro – oggi quantomai precario – di questo straordinario complesso situato all’interno della cerchia muraria. Il nostro interesse per il San Niccolò risale a oltre una decina di anni fa e nel corso del tempo ha rappresentato lo spunto per dare vita a incontri, seminari, racconti e progetti che riportassero l’attenzione sulle memorie e i documenti contenuti negli edifici e immaginare una valorizzazione di questo ingente patrimonio architettonico, storico e culturale. In vista della tavola rotonda pubblichiamo un estratto da Follie di guerra: medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte 1915 – 1918 di Ilaria La Fata (Unicopli 2014 che, insieme a Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella di Acquario della Memoria, sarà fra gli ospiti dell’iniziativa.

Le carte e la memoria conservate negli archivi degli ospedali psichiatrici sono una miniera preziosa per guardare alla Storia, alle sue cesure e al suo scorrere da un altro punto di vista, che non è solo quello “dal basso” dei ricoverati, ma anche quello di chi con quei ricoverati aveva a che fare, restituendo un’immagine più sfaccettata della gestione del trattamento del disagio mentale e dei marginali più in generale. Nella mia ricerca sui “matti di guerra” a Colorno nel primo conflitto mondiale ho cercato di seguire le tracce dei soldati, dei medici e degli infermieri nel piccolo manicomio della provincia di Parma, lontano dal fronte, mettendo a verifica le elaborazioni di storici come Antonio Gibelli o Bruna Bianchi. A partire da quelle basi, diverse ricerche – per lo più sui manicomi sulla linea del fronte, o sui principali centri di raccolta come quello di Reggio Emilia – hanno verificato in sede locale dinamiche più generali riguardo al rapporto tra guerra e follia, basandosi principalmente sull’analisi delle cartelle cliniche degli internati in manicomi.

In Italia, la graduale chiusura degli ospedali psichiatrici dal 1978 a oggi ha favorito, accanto alla progressiva consultabilità dei loro archivi, la ripresa di un certo interesse sulla storia sociale della psichiatria, […] non solo da parte di psichiatri ma anche di storici, sociologi e archivisti.
Dopo una prima fase di studi, nella quale è prevalsa la lettura dell’internamento legata alle categorie di “devianza” e “controllo sociale”, la storiografia ha adottato modelli interpretativi più flessibili, incentrati ad esempio sull’evoluzione dell’assistenza psichiatrica o delle tecniche terapeutiche. Questi studi si basano principalmente sull’analisi delle cartelle cliniche, allontanandosi […] da una mera storia della psichiatria, per privilegiare un’analisi della società nel concreto dei contesti locali e della microfisica delle relazioni.

La produzione storiografica più recente sulla Grande guerra tiene conto di queste tendenze, non limitandosi più solo a riprendere e sviluppare il tema della guerra come trauma o frattura, ma anche come trasformazione delle strutture mentali e antropologiche e delle identità personali e collettive, sulla scorta degli studi pionieristici di Eric Leed e Paul Fussell.

In questi ultimi anni, anche le “nuove” guerre hanno finito per rafforzare l’interesse verso la storia della violenza nelle “vecchie” guerre del XX secolo, in un’ottica lontana dalle narrazioni nazionali ufficiali di storia militare e politica (realizzate per lo più da militari), nelle quali la presenza della violenza e delle atrocità di guerra si riduceva alla quantificazione delle vittime e ad un’astratta storia di battaglie, trascurando la soggettività degli individui coinvolti. Ragionare su aspetti che per lungo tempo sono stati tenuti ai margini dalle analisi storiografiche non serve solo a scomporre ulteriormente il quadro per averne una visione più dettagliata, ma anche a comprendere il periodo nel quale viviamo.

Queste stesse osservazioni furono espresse già nel 1975 da Paul Fussell, ponendo in relazione la Grande guerra con la «memoria moderna», e cominciando a considerarla proprio come grammatica e sintassi per la comprensione del mondo contemporaneo . Così, ad esempio, Joanna Bourke ha riflettuto sull’immutabilità del comportamento “minimizzatore” in merito alla violenza della guerra anche da parte delle gerarchie militari e del personale sanitario in tutte le guerre, da quelle mondiali, a quelle più contemporanee come il Vietnam:

Non è possibile quantificare i disturbi emotivi causati dalle guerre e dai combattimenti. Anche se ci provassimo, i dati forniti dal personale medico risulterebbero inattendibili poiché spesso si evitava qualunque analisi di tipo psichiatrico e si preferiva stilare diagnosi più “sicure”, cioè fondate su cause organiche. Temendo che la perdita di soldati per motivi psichiatrici si riflettesse negativamente sulla loro immagine di comandanti, erano gli altri gradi dell’esercito a incoraggiare questo approccio. Inoltre, la scarsa preparazione psicologica e la necessità di effettuare diagnosi rapide facevano passare ai medici la voglia di tenere un archivio aggiornato.

Questa osservazione, del resto, è stata confermata piuttosto di recente da un’inchiesta giornalistica nella quale si è verificato che tra i soldati italiani il disturbo postraumatico da stress – riconosciuto proprio a partire dalla guerra americana in Vietnam e codificato nel 1980 nella terza edizione della “bibbia della psichiatria”, il Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (Dsm-III), a cura dell’American Psychiatric Association –, pare non esistere perché nell’Esercito italiano, attualmente, «su 150.000 soldati impiegati all’estero risultano solo 2-3 diagnosi l’anno su circa 20 casi segnalati. Statisticamente zero» .
Eppure, fin dalla “nuova” e Grande guerra del 1915-18, i soldati che ritornarono dal campo di battaglia si portarono addosso il peso di quell’esperienza, che in alcuni casi si rivelò talmente onerosa e di difficile gestione da scatenare disturbi mentali che li avrebbero accompagnati per lungo tempo.

Quali fossero quei disturbi che colpivano i soldati e capire che cosa li aveva prodotti è un’operazione che può essere compiuta solo leggendo fra le righe delle tabelle nosografiche – nelle quali i medici segnalavano periodicamente disturbi e comportamenti – o dei certificati che venivano richiesti ai medici del paese di provenienza per comprendere le ragioni dei loro disturbi.
L’archivio di riferimento per questa ricerca è stato dunque quello dell’ospedale psichiatrico di Colorno, a cominciare dai registri del movimento della popolazione, dove giornalmente venivano indicati i ricoverati in ingresso o in uscita e le relative motivazioni; fino alla serie delle cartelle cliniche, che rivestono un notevole interesse sia sotto il profilo medico-scientifico che sotto quello storico, nonostante Franca Ongaro Basaglia le abbia definite principalmente come uno strumento “oggettivante” che costruisce un corpo artificiale «al fianco del corpo vero dell’uomo malato» .

In primo luogo, infatti, il loro studio permette di ricostruire lo sviluppo dei sistemi di classificazione delle patologie o delle diagnosi, ma anche le diverse condotte terapeutiche, le pratiche di contenzione e le misure repressive adottate per ogni internato. Le cartelle, inoltre, non contengono solo documentazione prodotta dai medici e relativa alla degenza dei pazienti, ma anche gli scritti degli stessi ricoverati o la corrispondenza con le famiglie di origine e tra queste e il direttore dell’ospedale: da un altro punto di vista, dunque, esse ci consentono di rileggere la storia delle patologie dovute alla guerra partendo anche dagli stessi soggetti.

E tuttavia, l’indagine sui soldati ricoverati a Colorno a partire dalla documentazione sanitaria non può che essere parziale, dal momento che le voci che li descrissero furono sempre quelle di figure che avevano il compito di giudicarli, sia dal punto di vista medico, che […] umano. Per molti internati spesso bastarono poche parole per inchiodarli a una diagnosi per tempi lunghi, facendo perdere loro qualsiasi riferimento e legame con quello che erano davvero “fuori” dal manicomio, e quelle scarse informazioni spesso non sono sufficienti a farci ricostruire storie ed esperienze di vita.

Inoltre, al pari delle carte di polizia – che riflettono soprattutto lo sguardo del potere, ma in modo del tutto parziale e distorto da intenti e finalità di volta in volta diverse a seconda del contesto storico specifico – anche il linguaggio delle cartelle sanitarie è specialistico e apparentemente solo riservato agli “addetti ai lavori” . Dunque, se […] occorre mantenere le stesse cautele applicate nella lettura dei documenti di polizia, […] è pur vero che, come ha scritto Michel Foucault a proposito degli «uomini infami» rinchiusi all’Hôpital général di Parigi o alla Bastiglia, dietro a quelle parole c’erano persone in carne ed ossa, le cui storie sono giunte fino a noi solo perché brevemente illuminate da «un fascio di luce», gettato da chi li aveva raccontati:

Una luce che viene da un altro luogo. Quel che le strappa alla notte in cui avrebbero potuto, e forse dovuto rimanere, è l’essersi scontrate con il potere: se ciò non fosse avvenuto, nessuna parola verrebbe probabilmente a ricordarci il loro fugace percorso. Il potere che ha atteso al varco queste vite, che le ha perseguitate, che ha prestato attenzione, anche solo per un attimo, al loro lamento e al loro piccolo strepito, e che le ha segnate con i propri artigli, è all’origine delle poche parole che di essi ci restano.

Squarci di luce, spesso fiochi e “guidati” dal potere, che ci permettono però di venire a conoscenza dell’esistenza di quelle vite, perché per l’istituzione, i ricoverati cessavano di esistere nel momento in cui uscivano dai cancelli del manicomio, e il loro passaggio veniva archiviato al pari delle loro cartelle cliniche.
Allora forse proprio attraverso quegli squarci una parte della memoria di una comunità potrebbe tornare. Attraverso questi documenti e la loro valorizzazione, la creazione di uno spazio di consultabilità, ma anche di riutilizzo critico, artistico, mediale ancorché rigoroso e rispettoso della fonte e del suo privato. Per consentirci di accorciare la distanza col presente e con quello che siamo, col nostro doppio.

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