L’Italia non se n’è quasi accorta, ma il 23 novembre scorso in diversi paesi si è tornati a parlare della necessità di restituire le collezioni frutto di bottini di guerra e di espropriazioni in terra di colonia.
– Posso aiutarla?
– Esaminavo questi manufatti. Mi dicono che lei è l’esperta.
– Possiamo dire così.
– Sono bellissimi. Questo da dove viene?
– Dalla tribù Bobo Ashanti… oggi Ghana, Diciannovesimo secolo.
– Davvero? E invece questo qui?
– Questo dal popolo Edo del Benin, Sedicesimo secolo.
– Ora, mi parli di questo.
– Anche questo dal Benin, Diciassettesimo secolo. Tribù Fula, credo.
– Naa…
– Come ha detto, prego?
– Lo presero i soldati britannici nel Benin, ma proviene dal Wakanda ed è fatto di vibranio… Nessuna paura, vi solleverò da questo peso.
– I manufatti non sono in vendita.
– Come li hanno ottenuti i suoi antenati? Li hanno pagati un prezzo equo? O se li sono presi, come hanno fatto con tutto il resto?
Questo dialogo è tratto da una scena del film Black Panther, ambientata in una delle sale del fantomatico “Museum of Great Britain” di Londra, che richiama nemmeno troppo velatamente il reale British Museum. Uno dei protagonisti del film, Erik Killmonger (interpretato da Michael B. Jordan) osserva alcuni oggetti di produzione africana, quando viene avvicinato da un’esperta del museo che risponde ad alcune sue domande. Killmonger non attende molto a contraddirla e a mettere in discussione la provenienza, la proprietà e la natura inalienabile degli oggetti esposti. Tutto questo in pochissime battute. Il sesto film della Fase Tre della Marvel, per gli appassionati non solo di Africa, ma anche di arte e musei, ha rappresentato un must da guardare e riguardare. In particolare, questa scena introduce nella narrazione i temi del colonialismo, della musealizzazione, della proprietà e della restituzione del patrimonio culturale materiale africano, tanto che il cinecomic è stato per certi versi un evento culturale globale, capace di superare ampiamente il ruolo dell’ennesimo capitolo della saga. La storia del regno di Wakanda e dei suoi eroi, non solo ha aperto le porte a dibattiti di ampia portata, ma è divenuta un manifesto per l’identità nera. Inoltre, il film sollecita tematiche sempre più attuali per il mondo museale: la provocazione di Killmonger all’istituzione culturale, rappresentata da una donna bianca in tailleur e dal tono formale, non è secondaria, ma uno snodo attraverso cui vengono presentati allo spettatore i “cattivi” della storia e il valore del cosiddetto vibranio.
L’importanza della scena per l’impianto narrativo risuona nel dibattito intorno alle collezioni africane conservate nei musei occidentali, riaccesosi recentemente. Controversia che in Italia ha avuto pochissima (se non addirittura nulla) eco. In Francia, i toni sono invece diventati sempre più accesi dal 28 novembre 2017. In questa data Emmanuel Macron, di fronte a una sala gremita dell’Università di Ouagadougou (Burkina Faso), ha aperto un vero e proprio vaso di Pandora, dichiarando: «Voglio che da qui a cinque anni si creino le condizioni per procedere a restituzioni temporanee o definitive del patrimonio africano in Africa». Per la prima volta un presidente francese ha preso posizione riguardo le collezioni di origine coloniale conservate nei musei e lo ha fatto in completa controtendenza con le politiche attuate finora. La questione della restituzione è sempre stata trattata come una «missione impossibile» [1], data la natura giuridica degli artefatti che appartengono al patrimonio pubblico: inalienabili e, quindi, non trasferibili a soggetti terzi, come avviene anche nella legislazione italiana [2].
Le reazioni non sono mancate, ma sono cadute nel vuoto, almeno fino al 22 marzo 2018, quando l’Eliseo ha annunciato di aver affidato a due accademici, Bénédicte Savoy (francese, storica dell’arte) e Felwine Sarr (senegalese, economista), il compito di redigere una relazione sull’argomento. Il rapporto, dal titolo Restituer le Patrimoine africain: vers une nouvelle éthique relationnelle è stato consegnato il 23 novembre 2018 e pubblicato dalla casa editrice Seuil alla fine dello stesso mese. Il confronto scatenatosi da questo momento non accenna a fermarsi, in attesa che il Governo d’Oltralpe dia risposte concrete alle sollecitazioni del documento.
In sintesi, il report sostiene che, per riequilibrare le relazioni tra Francia e Africa, la strada da intraprendere sia di restituire le collezioni frutto di bottini di guerre ed espropriazioni in terra di colonia. I punti di forza del documento sono, da un lato, un approccio diretto e chiaro al passato imperialista senza provare a dare adito a giustificazioni o scusanti e, dall’altro, la ricostruzione delle occasioni e dell’ideologia che hanno caratterizzato l’arrivo di questo patrimonio in Francia. Savoy e Sarr incoraggiano pertanto alla restituzione, superando gli impedimenti burocratici e legislativi, con argomenti che rimettono al centro della questione la spoliazione culturale dell’Africa e il valore, non solo economico ed estetico, ma soprattutto simbolico e sociale degli oggetti conservati oggi in Europa.
Questa tesi è stata ben accolta da più voci del mondo culturale, talvolta anche con reazioni accese: la scrittrice e giornalista freelance Christine Mungai, per esempio, mette in dubbio quella narrativa paternalistica che teme la perdita del patrimonio materiale, qualora gli oggetti ritornassero presso le culture che li hanno prodotti. Discorso che riproduce i pregiudizi classici dell’Occidente verso le società africane che non sarebbero in grado di proteggere il proprio patrimonio culturale. Mungai rivendica: «Non importa quanto gli occidentali amino e tengano a questi artefatti; il fatto è che questi non sono loro».
Le riflessioni in merito del filosofo Achille Mbembe fanno luce sulla dimensione del torto storico subito dal continente africano in epoca coloniale e reiterato dal potere europeo attraverso forme diverse di controllo e spoliazione. In gioco non vi è solo la conservazione di artefatti che appartengono all’umanità, ma anche il diritto degli africani di avere accesso al proprio patrimonio culturale e di giocare un ruolo nello scacchiere globale. Significativamente, il tema della perdita riecheggia nelle istanze sia di chi teme lo svuotamento dei musei europei sia di coloro che rivendicano la necessità di riconoscere e, in qualche modo, ripagare le culture africane. Ancora una volta, il rapporto tra le due “perdite” è inequivocabilmente impari. Sottolinea Mbembe: «la verità è che l’Europa ci ha privati di cose che non potrà mai restituire. Abbiamo imparato a convivere con questa perdita […]. Restituire non sarebbe un gesto di carità né un gesto di benevolenza. Restituire le opere africane agli africani è un obbligo, il punto di partenza di un nuovo regime di circolazione, senza condizioni e in tutto il Pianeta, del patrimonio universale dell’umanità». Da questo punto di vista, i processi di restituzione avrebbero una forza trasformatrice in quanto condurrebbero a riconoscere gli squilibri di potere e a rimodulare le relazioni tra Occidente e Africa secondo la via dell’equità e della reciprocità. Si può dire, quindi, che il dibattito interessa gli addetti ai lavori quanto le società europea e africana in generale. Questo è quanto emerge anche dall’intervista realizzata da Jason Farago su The New York Times al filosofo Souleymane Bachir Diagne, alla storica Cécile Fromont e all’artista Toyin Ojih Odutola, dai quali viene ribadita l’importanza di rendere accessibile questo patrimonio alle nuove generazioni africane.
Per quanto riguarda il mondo museale, l’ICOM (International Council Of Museums) ha mantenuto una posizione al momento più cauta, pubblicando il rapporto e una relativa rassegna stampa, facendosi così portavoce di approcci diversi. Più nello specifico, in un commento rilasciato alla testata The Art Newspaper, i direttori Nicholas Thomas (Museum of Archaeology and Anthropology di Cambridge), Tristram Hunt (V&A Museum di Londra) e Hartmut Dorgerloh (Humboldt Forum di Berlino), insistono sull’importanza di continuare con il processo di messa in trasparenza della storia dei musei europei, i quali rischiano però di essere soggetti a strumentalizzazioni. In questa occasione, per esempio, i musei francesi verrebbero utilizzati come tassello essenziale nelle negoziazioni politiche ed economiche con gli stati subsahariani. Teoria ripresa e argomentata da Laurence Caramel e Cyril Bensimon per Le Monde, che contestualizzano le dichiarazioni di Macron nel più ampio panorama degli interessi e delle strategie dell’attuale presidente francese in questo continente, il che richiede di «fondare una nuova narrativa delle relazioni franco-africane, la cui immagine rimane impregnata da decenni di affarismi e ingerenze. Dopo un anno, si serve di azioni, gesti simbolici e di canali fino a ora poco impiegati, come lo sport. Tuttavia, il legame si fonda su dei fondamenti che non sembrano evolversi».
Bisogna sottolineare che la restituzione coinvolge principalmente i settantamila oggetti africani conservati al Musée du quai Branly “Jacques Chirac”: in particolare, le prime trattative riguarderebbero ventisei emblematici oggetti, parte del bottino di guerra della conquista del Regno d’Abomey (attuale Benin). A tal proposito, il direttore Stéphane Martin ha rilasciato alcune dichiarazioni su Le Figaro criticando il lavoro, in quanto: «opera di persone engagées». Pur non escludendo l’opzione restituzione, sostiene che sia il caso di trovare «altre vie per una cooperazione culturale con l’Africa».
E in Italia? Attualmente, le reazioni del mondo culturale e di quello politico sono state davvero esigue. Alcuni media hanno riportato la notizia banalizzando la questione, male interpretando le posizioni del mondo francese e non facendo menzione, quasi mai, alla situazione italiana e al passato coloniale del nostro Paese. Nulla di nuovo, se si considera che pure la restituzione della Stele di Axum e dell’Afrodite di Cirene hanno provocato uno scarso dibattito rispetto al dominio e alla spoliazione nel Corno d’Africa e in Libia: i due casi paiono, infatti, una troppo semplice riparazione con cui lavarsi la coscienza in modo definitivo. Sembra la naturale conseguenza in un Paese in cui non è avvenuta una seria riflessione rispetto al passato coloniale. Il colpo di spugna gettato sull’impresa imperialista italiana alla caduta dell’Impero ha comportato la rimozione delle colpe e l’oblio degli immaginari e delle memorie coloniali che, lontane dall’essere scomparse, riemergono nelle pratiche e nei discorsi della quotidianità. Non è un caso che il mito degli “italiani brava gente” stenti ancora oggi a morire.
L’assenza di reazioni alle questioni sollevate dal report Sarr-Savoy è indicativa anche dello stato dell’arte della museologia italiana (più focalizzata sul mondo classico e rinascimentale) e della memoria dei contatti, coloniali e non, con l’extra Europa che i musei italiani custodiscono. Sul nostro territorio sono presenti numerose collezioni di provenienza africana che hanno consistenze, storie e luoghi di conservazione diversificati e anche importanti (ricordiamo, per esempio, il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, il Museo di Scienze Naturali, Antropologia ed Etnologia dell’Università degli Studi di Firenze e il MUDEC di Milano). Nonostante il loro valore, in ambito nazionale le collezioni etnografiche extra-europee ricoprono un ruolo decisamente meno centrale rispetto a quelle di cultura locale. Al contrario, nelle altre ex potenze coloniali europee si contano istituzioni museali che custodiscono un patrimonio di origine africana consistente e che hanno un impatto pubblico decisamente maggiore: tra tutti, va ricordato ancora il celebre Musée du quay Branly “Jaques Chirac” di Parigi, ma anche il British Museum di Londra e il Royal Museum for Central Africa di Tervuren (Belgio). Questo spiegherebbe solo in parte il silenzio italiano in merito, che si nutre anche di una mancata riflessione. Da questo punto di vista, la decolonizzazione dei musei e il loro ruolo politico-sociale, tanto reclamati, risultano ad oggi obiettivi ancora lontani da raggiungere. Sebbene la restituzione non sia l’unica strada da intraprendere (e intrapresa), questo tema è uno snodo centrale per comprendere come nei percorsi espositivi venga costruita (e decostruita) la storia della comunità nazionale e dei suoi rapporti con l’alterità, soprattutto nel caso dei musei etnografici con collezioni di provenienza coloniale.
Infine, come gli oggetti del “Museum of Great Britain” nascondono il prezioso vibranio così gli oggetti dei nostri musei custodiscono biografie e memorie delle società che li hanno prodotti e di quelle che li ospitano, trascendendo la mera estetica e connettendo spazi e soggettività. Il caso francese palesa la natura non neutrale del patrimonio culturale e del museo, luogo in cui entrano in gioco le contraddizioni della creazione della comunità nazionale e dei suoi rapporti con l’altro.
[1] Sarr, F., Savoy, B., 2018. Restituer le Patrimoine africain: vers une nouvelle éthique relationnelle, Seuil Ed., Paris, p. 17
[2] Art. 54 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 legge 6 luglio 2002, n. 137; http://www.anms.it/upload/rivistefiles/177.PDF
Erika Grasso – Dipartimento di Culture, Politica e Società (Università di Torino)
Gianluigi Mangiapane – Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione (Università di Torino)