In queste settimane Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri stanno girando l’Italia per presentare “Il Quinto Stato” (Ponte alle Grazie 2013), un «romanzo di formazione» che si impegna a raccontare i tratti di una nuova e ancora inesplorata composizione sociale.
In occasione della presentazione che verrà effettuata oggi alle 18.30 al Teatro Pinelli Occupato di Messina, pubblichiamo un estratto del testo.
Organizzare comunità, creare società: ecco come cresce il Quinto Stato[*]
Le coalizioni sociali del Quinto Stato nascono dall’occupazione, dal riuso o dalla riqualificazione degli immobili, dalla reinvenzione delle vecchie camere del lavoro, dalle esperienze di coworking, dall’occupazione di un teatro o di un cinema, dalla creazione di reti dell’innovazione sociale o dalle lotte delle associazioni che difendono un territorio.
In questa cornice, si può immaginare che un community organizer proponga l’istituzione di una mutua, una campagna di crowdfunding, chieda ai membri di una coalizione di investire le risorse accantonate in una o più reti di solidarietà mutualistica e di finanziare la cassa per la disoccupazione o per i periodi di non lavoro, una per gli infortuni, oppure progetti a supporto della convivenza o della formazione. Questo modello di autogestione delle risorse dal basso potrebbe favorire lo sviluppo e l’innovazione dei territori, dei quartieri, delle città.
Il fare coalizione non può essere ridotto a un sistema di consultazione delle popolazioni locali in merito a una variante urbanistica, all’uso dei fondi comunali o alla riqualificazione di un parco. Queste iniziative funzionano quando assumono un carattere vincolante per tutti i livelli dell’amministrazione ed esprimono un potere collegiale delle cittadinanze coinvolte. Ciò sarà tanto più vero se le forme tradizionali di aggregazione tra cittadini, come i comitati civici o le assemblee di quartiere, verranno accompagnate da istituzioni derivanti dalla libera associazione tra lavoratori indipendenti.
Il community organizing serve a imporre una volontà popolare dal basso e a facilitare l’adesione dei singoli e dei gruppi a una rete di alleanze la più ampia possibile, non ad alimentare il consenso delle forze politiche. Non è il prodotto della mediazione tra le istanze insorgenti della società civile e la buona volontà degli eletti o dell’amministrazione. Il community organizing pratica l’integrazione tra i singoli dispersi su uno o più territori e promuove l’idea del conflitto. Non bisogna tuttavia sottovalutare l’eventualità che il conflitto possa esplodere anche tra i componenti di una coalizione. Senza contare che nelle nostre città esistono pratiche come le occupazioni, e molte persone non sono disposte a partecipare ad atti conflittuali.
Nei luoghi dove il nostro organizzatore svolge la sua attività possono coesistere condizioni giuridiche inconciliabili. In questi casi, egli promuove la possibilità della collaborazione tra uno spazio occupato e uno «normale», sapendo che per il primo è difficile partecipare a un bando nazionale o europeo per ottenere un finanziamento, ad esempio. Ancora più delicate sono le situazioni che vedono protagoniste le persone immigrate. Capita spesso di scontrarsi con il razzismo diffuso contro queste ultime, oppure che i differenti interessi delle parti in causa entrino in conflitto impedendo la definizione di un progetto condiviso.
Queste difficoltà non dovrebbero tuttavia scoraggiare la ricerca della collaborazione. Anzi, l’eterogeneità di partenza di una coalizione, tipica della società del Quinto Stato, può costituire l’elemento virtuoso che ci spinge a iniziare un per- corso o a immaginare un esperimento. Non importa allora la formula giuridica che consentirebbe agli spazi di diventare operativi, così come non dovrebbero essere determinanti né lo status giuridico di una persona né la sua condizione lavorativa. Nell’azione quotidiana di una coalizione, ci sarà sempre la possibilità di stabilire sinergie tra spazi occupati, in concessione, di proprietà o in affitto, così come è ormai di- ventata una regola l’agire di concerto tra persone che hanno situazioni professionali diverse o sono precarie o disoccupate. Ciò che è davvero determinante è la qualità e le aspirazioni degli individui associati che animano tali esperimenti. Il community organizer cerca un accordo tra le parti rispetto a un obiettivo comune. La realizzazione di un microsistema sociale, in cui confluiscono pratiche differenti volte a riprodurre la solidarietà attiva, è una ricchezza per tutti e può tornare utile in ogni momento.
Il punto più critico per chi fa community organizing è il tempo. La buona volontà non basta, soprattutto in un’e-poca di crisi dove il lavoro manca e la disperazione offusca gli obiettivi di una coalizione. È da escludere che lo Stato assuma assistenti sociali, né che altre realtà organizzate sul territorio (come la Chiesa) mettano a disposizione educatori professionisti o volontari. Il community organizing resta una pratica informale che funziona quando le comunità di riferimento si muovono in autonomia e riescono a gestire i conflitti, contando sull’effetto moltiplicatore dell’esempio di chi già lavora in maniera cooperativa.
Non sempre questo accade, anche perché quasi mai le società si trovano in una fase «insorgente» e talvolta rinunciano persino a resistere. Occorre affrontare questo nodo sulla scorta delle esperienze accumulate nel mondo del la- voro indipendente. Pur nei loro limiti, le economie collaborative affrontano giornalmente il problema della passività, dell’opportunismo o della rinuncia da parte degli associati. Ciò non toglie che i cowork o i fablab, così come le occupazioni e l’associazionismo diffuso, siano comunque il risultato della determinazione di chi non vuole limitare la sua partecipazione all’intervento nel forum di un blog anche influente, né vota una compagine parlamentare per ritirarsi nel sonno dei giusti e degli incompresi nei cinque anni successivi.
L’ambito in cui essere immediatamente protagonisti è il lavoro. Nella ricerca di un impiego, così come nella costruzione di spazi da destinare alla realizzazione di un progetto, diventa subito chiara l’esigenza di allargare le proprie rela- zioni. In questo senso il community organizing è una pratica di vitale importanza per chi opera nelle economie della condivisione. Spesso, infatti, le reti professionali non bastano a soddisfare una domanda o a sviluppare le potenzialità insite in una determinata attività. È diffusa l’esigenza di portare nella società questo lavoro organizzativo. In questi casi il tempo impiegato corrisponde a quello dedicato alla creazione di reti, spazi e opere con persone che svolgono altre professioni o gestiscono iniziative utili per l’attività di chi gestisce un cowork oppure ha un’idea imprenditoriale.
Il futuro delle coalizioni sociali non dipende dalla militanza politica, o dal senso civico di un volontario, ma dal bisogno di svolgere al meglio il proprio lavoro oltre che dalla convenienza di poter contare su una cospicua rete di contatti. Questa è la ragione per cui i lavoratori della conoscenza, della cultura o della produzione immateriale occupano una posizione cruciale all’interno Quinto Stato.
Un punto a favore della battaglia culturale del movimento del community organizing è la capacità di produrre diritto e di includere la cittadinanza nei processi partecipativi. Questo potere emerge nell’esperienze di occupazione di teatri, cinema, atelier, o spazi culturali in Italia. In una città come Roma, che annovera sperimentazioni simili con l’Angelo Mai o il Nuovo Cinema Palazzo, il teatro Valle ha assunto in due anni di occupazione (giugno 2011) l’aspetto di un’«esperienza di legalità costituente».
In collaborazione con migliaia di soci che hanno aderito e finanziato con un capitale iniziale di duecentocinquantamila euro la fondazione Teatro Valle bene Comune, gli occupanti hanno redatto uno statuto che stabilisce: la pienezza della sovranità assembleare che elabora decisioni con il metodo del consenso, e non con quello della maggioranza; la turnarietà delle cariche sociali (cioè il direttore artistico, come il comitato dei garanti) e l’applicazione del principio di collegialità esteso a ogni carica; l’azionariato diffuso, il crowdfounding e l’utilizzo delle risorse pubbliche; e, infine, la creazione di un fondo contro la disoccupazione, un altro per i progetti, nell’ottica dell’autogoverno e della federazione tra istituzioni autogestite.
Questi accorgimenti sono ancorati al dettato costituzionale, e in particolare all’articolo 43 che stabilisce la gestione partecipata dei beni comuni da parte dei lavoratori e degli utenti. Potrebbero essere applicati alla scuola, alle biblioteche, agli ospedali perché garantiscono la proprietà sociale su beni inalienabili, rendendoli accessibili a tutti. Questa idea ha ispirato artisti e lavoratori della cultura a Palermo, a Catania e Messina, a Napoli, a Milano, a Pisa o a Venezia.
Sono esperienze nate anche per dare una risposta a un fenomeno che sembrava irreversibile. La deindustrializzazione, e la crisi fiscale dello Stato, hanno provocato l’abbandono di migliaia di fabbriche ed edifici pubblici, mentre la speculazione immobiliare, di comune accordo con gli enti locali, ha continuato a costruire abitazioni che restano sfitte o invendute. Le occupazioni degli spazi abbandonati, molti dei quali vengono privatizzati o concessi a canone agevolato alle imprese, hanno infuso nuova linfa alla teoria degli usi civici, cioè al diritto d’uso che spetta alle comunità dei residenti interessati alla ri- qualificazione, all’impiego sociale e produttivo di questi beni.
Oggi si parla di «usi civici metropolitani». Con questa definizione non si allude a un pascolo, un bosco o una valle, come nell’antica teoria dei beni comuni, ma all’uso dei beni sottratti alla speculazione immobiliare nell’interesse della cittadinanza. Su questi spazi vige molto spesso il principio dell’inalienabilità della proprietà privata. A esso viene contrapposto l’interesse generale, che si manifesta nel recupero di una produzione culturale, da gestire in maniera democratica, nella diffusione della formazione professionale o nel diritto a godere di uno spettacolo o di un’attività artistica a costi popolari.
I teatri occupati praticano un diritto collettivo e informale evocato da tempo nelle metropoli contemporanee. Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e imprescrittibile, non soggetto a commercio né a negoziazione. Come tale dovrebbe essere anche esercitato dagli amministratori che intendono contrastare la desertificazione culturale o l’emergenza abitativa che affligge tutte le principali città italiane. A questo diritto si è richiamata una sentenza della Corte di Cassazione del 2009, che ha stabilito la legittimità della scelta di quegli amministratori che hanno requisito decine di appartamenti sfitti per assegnarle alle famiglie in cerca di casa. Quello alla requisizione è un altro diritto propugnato da chi oggi pratica gli usi civici metropolitani.
Questa particolare categoria di uso civico trova legittimazione in una sentenza del Tribunale civile di Roma a proposito dell’occupazione del Cinema Palazzo a San Lorenzo (aprile 2011). L’immobile era destinato a ospitare un casinò ed è stato occupato per evitare lo stravolgimento della vita del quartiere oltre che la sua definitiva mercificazione. Il tribunale ha riconosciuto agli occupanti il ruolo di «possessori qualificati di un bene» in base all’articolo 1170 del Codice civile. Su queste basi è stata formulata anche la suggestione di una «Libera Repubblica di San Lorenzo».15
La generalizzazione di questi risultati è auspicabile per la definizione del community organizing. Il tratto comune delle iniziative menzionate è dato dall’opera di alcuni soggetti che svolgono il ruolo di «organizzatori di comunità», come nel caso degli attivisti romani del teatro Valle o del Cinema Palazzo oppure quelli dei movimenti per il diritto all’abitare, che hanno costituito un nuovo diritto, e una nuova «legalità», mettendoli a disposizione di chi ne ha bisogno.
L’affermazione di questo diritto implica il rovesciamento del metodo tradizionale di affidamento degli spazi in vista della realizzazione di un progetto. Di solito l’affidamento avviene attraverso una graduatoria o un bando, concordato dall’amministrazione con le associazioni più influenti in un settore, anche in virtù della vicinanza, della collusione o della corruzione dei dirigenti della prima e degli esponenti delle seconde. In questi casi assistiamo invece a un atto politico, la cui utilità generale viene riconosciuta dalla legge come dalla collettività. Si afferma così un’autonoma capacità di creare diritto e di autogovernarsi in base alle regole stabilite da chi si impossessa di un bene e sceglie di coinvolgere la cittadinanza nell’uso dello stesso. Anche la pratica dell’occupazione cambia di segno quando chi si assume la responsabilità, e la fatica, di condurla la trasforma in un momento di produzione di statuti e regolamenti, in altre parole di diritto e di norme di condotta che non servono solo all’autogestione dello spazio in sé, ma anche alla diffusione di un potere collegiale che soddisfa un’utilità generale.
Nel Quinto Stato sta emergendo un diritto non statale, che nasce dall’elaborazione dell’intelligenza diffusa e giunge alla definizione di un potere basato sulla proprietà collettiva.
Note
[*] R. Ciccarelli, G. Allegri, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, Autonomi, Free Lance per una nuova società, Parte III – “Il diritto alla città”: Capitolo Community Organizing, Ponte alle Grazie, Milano 2013, pp. 214-220.