Uno sguardo obliquo sul terzo paesaggio

“Piccola pedagogia dell’erba, Riflessioni sul Giardino Planetario” di Gilles Clément a cura di Louisa Jones” (DeriveApprodi, 2015) non andrebbe letto solo da chi si interessa al giardinaggio o aspira a diventare paesaggista.

Quello di Gilles Clément è insieme discorso e pratica di resistenza di cui questo libro traccia la genesi. 

Certo l’erba, il giardino e il paesaggio costituiscono tre ambiti fondamentali del suo lavoro di ricerca e di azione, ma in realtà, quello che Clément vuole trasmetterci, è una maniera diversa di praticare la nostra esperienza di esseri umani sulla terra.

Giardini condivisi, orti urbani o addirittura agricoltura in città, se ci si posiziona sulla superficie, piuttosto costruita, del nostro pianeta; ritorno alla terra, coltivatori diretti, o “neorurali” (come li chiamano i francesi), se invece esploriamo le zone agricole e rurali: due sponde parallele che disegnano la condizione contemporanea del nostro mondo e sembrano entrambe interrogare la nostra relazione con la natura, l’interdipendenza tra mondo agricolo e mondo urbano, l’esistenza quotidiana e la sua dimensione politica. Giardiniere, paesaggista, ingegnere orticolo, docente, Gilles Clément ci invita a ripensare la nostra presenza sulla terra e a ridefinire il nostro rapporto con il “vivente”. Ci suggerisce di farlo a partire dall’erba e dal modo di guardarla, e addomesticarla, per riscoprire come anche nei piccoli gesti si costruiscano rapporti cosmici e politici che ridefiniscono la nostra maniera di organizzare lo spazio e quindi di stare al mondo.

Uno dei modi di leggere questo libro è quello di considerarlo come un giornale di bordo: come si è costruito questo pensiero che ha qualcosa di profondamente politico nonostante i piedi, le mani, lo sguardo, il corpo, non si allontanino mai troppo da terra? Tra sollecitazioni esterne (richieste di interventi, di introduzioni a volumi altrui o ancora volontà di intervenire in un dibattito politico o farsi carico di aprirne un capitolo ancora chiuso) e necessità dell’autore stesso di « fissare » alcuni pensieri per renderli comunicabili, trasmissibili, i testi di Clément si susseguono a comporre, secondo l’architettura immaginata da Louisa Jones, un percorso che restituisce la genesi e l’orizzonte di un pensiero doppiamente situato. Ed è proprio in quest’ottica che si pongono le introduzioni della Jones ad ognuno degli scritti di Clément presentati in questo libro: il loro ruolo è quello di contestualizzare pensieri e azioni dell’autore sia nel suo percorso di vita, privato e professionale, che in un contesto più ampio del pensiero dell’ecologia politica francese, ripercorrendo cosi la produzione del nostro giardiniere paesaggista dal 1985 al 2006.

Il libro è organizzato in tre parti: la prima presenta i temi fondamentali della ricerca e dell’azione di Gilles Clément; la seconda sposta l’ottica e ci fa immergere in quelle che possiamo immaginare come delle situazioni specifiche che hanno fatto scaturire le intuizioni del nostro giardiniere. La terza chiude il percorso aprendo su scenari futuri che ci richiedono di riflettere sul nostro modo di vivere la quotidianità.

Ogni parte, anche se in modo diverso, ci svela la genesi e il contesto di elaborazione delle tre grandi «idee-attrezzo» di Clément, che egli stesso preferisce definire come diventate i suoi tre assi di ricerca: il giardino in movimento, il giardino planetario e il terzo paesaggio. Ogni testo ci fa entrare progressivamente nei « principi » base di una pratica che non é solo professionale ma è anche, e forse soprattutto, civica e politica. Più di altri libri che prendono rapidamente un’allure di Manifesto, questo ha il dono di restituire processo e percorso allo stesso tempo e di porre quindi il lettore più vicino alla relazione tra il dire e il fare: il via vai continuo di descrizioni di momenti di vita, riflessioni (che spesso risuonano come un dialogo interiore) e interventi pubblici, ci fa entrare in una dimensione particolare che è quella di un pensiero in movimento che attraversa più livelli e permette di comprendere il rapporto “scalare” tra le cose.

Coltivare il nostro sguardo obliquo

Tutto ha inizio con quello che potremmo definire un allenamento dello sguardo che permette di vedere, su un piccolo appezzamento di terra, movimento laddove si potrebbe avere l’impressione di grande staticità. Lo sguardo di Clément scruta il paesaggio alla ricerca di scarti e sfasamenti, di scricchiolii e vagabondaggi, tracce di un processo in corso che scardinano una percezione statica del giardino e rimettono in discussione l’impulso organizzatore del giardiniere. L’attrezzo fondamentale diventa lo sguardo obliquo che ci permette di percepire le tracce di ciò che nel mondo vegetale è allo steso tempo invisibile e fondamentale, ciò che sta già avvenendo prima ancora che quel pezzo di terra sia definito il giardino del giardiniere.Quando guardo un terreno incolto” spiega Clément “l’energia della riconquista non è la sola ad affascinarmi, cerco anche di scoprire come inserirmi in quel flusso imponente. E anche come dirigerlo, come averne padronanza senza per questo renderlo sterile” (p. 15). Si tratta dunque di una sottile linea di divisione tra l’agire e il non agire, sulla quale il giardiniere cammina in punta di piedi, trovando un equilibro che risiede nel fare il più possibile con e il meno possibile contro quei meccanismi e processi già in atto. È un’economia dell’azione che entra in gioco, al fine di orientarsi diversamente tra illusioni dell’ordine e illusioni del disordine del mondo.

Giardinieri planetari

Se ci spostiamo di scala e lo spazio di riferimento diventa la terra intera, i giardinieri siamo noi tutti. La “messa in movimento” che Clément suggerisce per il giardino di casa o il progetto di un parco urbano, deve valere per il nostro grande giardino comune che è il pianeta: concluso, finito, sistema interattivo, territorio abitato in comune dall’uomo e dal mondo vegetale e animale. Scorrendo le pagine del libro il messaggio arriva chiaro. Si tratta di «costruire un felice equilibrio tra gli esseri che condividono uno spazio comune: animali, piante, mammiferi, uomini… » (p.44). E allora lo sforzo non è più solo quello di imparare a guardare le cose diversamente ma ritrovare un modo di stare nelle cose e agire tra le cose in modo diverso. Il giardinaggio si distanzia d’improvviso dall’immagine dell’attività domenicale e si scrolla di dosso la polvere di una pratica che, sebbene molto diffusa e quasi di moda, resta pur sempre confinata ad un’attività da farsi nel “tempo libero”.

L’architettura del paesaggio cessa di essere un esercizio di organizzazione e semplice abbellimento del verde pubblico. La consapevolezza di una riconfigurazione necessaria del sistema di relazioni tra giardino, paesaggio, natura e pianeta rifonda queste diverse pratiche in figure della relazione, collaborazione, interazione tra gli esseri umani e il pianeta terra, sorta di giardino senza recinto, i cui confini coincidono con i limiti spaziali e volumetrici della biosfera, di cui possiamo scegliere di essere giardinieri più o meno accorti, più o meno attenti. La figura del giardiniere diventa metafora di un’ecologia politica perché basata sulla consapevolezza dei gesti in quanto azioni ed interazioni con un sistema che influisce contemporaneamente a livelli diversi e su spazi tra loro distanti.

Paesaggi dell’ospitalità

Frazione di questo giardino planetario è quello che Gilles Clément definisce il terzo paesaggio: somma di spazi trascurati, risultanti dall’organizzazione degli spazi circostanti, residui non ancora sfruttati dall’uomo. Questi spazi, che associamo più spesso al mondo urbano, ma che in realtà ritroviamo ovunque, hanno una doppia ricchezza. Dal metro quadro di aiuola incolta in centro città allo spazio interstiziale tra un campo coltivato (regolato dall’ingegneria agraria) ed un bosco (regolato dall’ingegneria forestale); dai terreni non edificabili intorno agli aeroporti fino ad un appezzamento agricolo dismesso; da un bordo di autostrada ad un angolo nascosto di un giardino privato: appare un territorio di accoglienza della diversità spesso respinta dalla mano e dal pensiero organizzatore che gestiscono il resto degli spazi (ingegneria urbana, agraria, forestale). Spazi marginali, non soggetti alla logica dello sfruttamento, che sfuggono al disegno pianificatore e diventano serbatoio di una grande biodiversità. Spazi, dunque, che definiscono un respiro che ci permette di pensarli come luoghi «per il futuro», riserva genetica del pianeta. Margini garanti di un possibile futuro.

Questa capacità di Clément di spostare lo sguardo, di focalizzare l’attenzione in spazi residuali e lascarsi sorprendere dalla ricchezza dell’incolto, della vita spontanea laddove non ce l’aspettiamo, non può non farci pensare a Marcovaldo, alle sue ricerche della natura e al suo “occhio poco adatto alla vita di città” che lo rende invece molto attento ad ogni traccia di una vita indipendente dal cemento come quella di un « tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede » (pp.15-16 nella terza edizione Eindaudi del 1966). Forse le ricette di questo giardiniere atipico avrebbero rassicurato Marcovaldo e gli avrebbero dato delle indicazioni per ridefinire il suo rapporto con il mondo cittadino e la sua voglia di interagire con le manifestazioni di questa natura in città, non per una rinuncia ma per una riscoperta della forza auto-rigeneratrice di questi piccoli grandi fenomeni.

Consigliare oggi questa lettura acquista un significato particolare mentre si apprende che gli ultimi brandelli del “rifugio collettivo” di Calais stanno per essere cancellati dal territorio su cui si erano insediati; mentre le ruspe stanno smuovendo la terra del terreno incolto e marginale dove erano sorte le tende, le case, i luoghi di ristoro, di cultura e di preghiera di esseri umani di passaggio che, come le Erbe Vagabonde di Clément (erbe che sfuggono alla progettazione, s’infiltrano mettendo in crisi un principio di pianificazione, controllo e sicurezza) avevano cominciato appena a mettere leggere radici abitando uno spazio considerato indesiderabile ed inabitabile da altri; mentre l’alternativa offerta a questa installazione temporanea è una fila di container equidistanti e tutti uguali in un terreno limitrofo il cui accesso è permesso previa registrazione delle impronte digitali, che esclude ogni singolarità e specificità, cancellando ogni sforzo, anche piccolo, di rendere uno spazio, con fatica abitabile… Cogliere la metafora descrittiva è facile. Non è altrettanto facile rispettare l’intensità politica del pensiero di Clément quando si tratta di tradurre la sua proposta in pratica, e cioè immaginare quale traduzione politica possono avere l’indecisione, e la non organizzazione; essere capaci di stupirsi della diversità ed avvicinarla; fidarsi della mescolanza come principio di evoluzione; guardare al margine come spazio comune del futuro; imparare dagli altri, quando questi sembrano fondare la propria esistenza su una visione unitaria tra uomo e natura che la storia sociale ed economica occidentale ha, al contrario, progressivamente separato.

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