Michel Foucault: liberalismo e critica

Nel dicembre scorso Daniel Zamora, un giovane studioso belga, ha rilasciato un’intervista al settimanale francese «Ballast» dal titolo ambiguamente provocatorio “Peut-on critiquer Foucault?”.

L’intervista, concessa in occasione dell’uscita del volume – a cura dello stesso Daniel Zamora – Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (Aden Editions, 2014) e tradotta poi in inglese qui dalla rivista Jacobin, ha originato un vivace dibattito (qui un riepilogo) che ha avuto risonanza anche Oltreoceano (qui e qui).


C’è un grande equivoco di fondo nel dibattito contemporaneo attorno alla figura di Foucault. Si tratta della sua storicizzazione e canonizzazione all’interno di una tradizione di pensiero sezionata in categorie predeterminate, dalla quale discende la crescente volontà filologico-esegetica dei sempre più numerosi foucaultiani sparsi per il mondo, o – a contrario – la critica serrata a singoli passaggi e interpretazioni testuali, magari relativi all’antichità. Zamora si innesta su questo terreno scivoloso con una “vecchia” innovazione, più affine all’intervento militante contemporaneo che all’analisi a distanza: la critica del portato politico e della ricaduta sociale all’interno di una cornice ideologica ben circoscritta. All’apparenza distanti, queste due strategie riposano su un medesimo presupposto: il passaggio dal lavoro con i testi e il pensiero di Foucault al lavoro sui testi e il pensiero stessi. Proponiamo di seguito alcuni estratti dell’intervista concessa da Daniel Zamora, cui seguirà nelle prossime settimane una nota critica (a cura di Giacomo Tagliani e Antonio Iannello) che vuole essere anche un invito ad aprire sul nostro blog uno spazio di discussione sul pensiero di Michel Foucault in merito alle sue analisi dei dispositivi, delle pratiche storiche, i discorsi, le razionalità politiche che hanno contribuito alla nascita e al consolidamento di quella forma economica, politica sociale e militare che ha preso il nome di Stato liberale in Europa occidentale.

La traduzione italiana dell’intervista completa è a cura di Martina Battaglia.


1. Ballast Revue – Veyne, nota che il pensiero di Foucault e la sua persona erano inclassificabili politicamente e filosoficamente. «Non credeva né a Marx, né a Freud, né alla rivoluzione né a Mao, sogghignava in privato dei buoni sentimenti progressisti e non ho conosciuto una sua posizione di principio su problemi più vasti, terzo mondo, società dei consumi, capitalismo, imperialismo americano». Tu scrivi che è sempre stato «un passo avanti rispetto ai suoi contemporanei», cioè?

Daniel Zamora: Diciamo che si può difficilmente togliere a Foucault il fatto di aver messo in luce problematiche che erano chiaramente ignorate, addirittura messe da parte dagli intellettuali dominanti della sua epoca. In particolare la tradizione marxista che si è occupata solo tardivamente di quello che sta ai margini del mondo del salariato [le salariat]. Dalla psichiatria alla prigione o alla sessualità, i suoi lavori hanno chiaramente posto l’attenzione su temi «impensati» nel campo intellettuale. Ci ha insegnato a mettere in questione politicamente i temi che sembravano «al di là» di ogni sospetto. Mi ricordo ancora della sua famosa intervista con Chomsky quando dichiarava che il vero compito politico ai suoi occhi era quello di criticare le istituzioni «apparentemente neutre e indipendenti» e attaccarle «in modo tale che la violenza politica che si esercitava oscuramente in esse venisse smascherata». Se io provo talvolta dei dubbi sulla natura delle sue critiche – ci torneremo – rimane che questa era una sfida più che innovatrice e stimolante.

2. B – Foucault compatibile con neoliberismo. Il suo libro farà digrignare i denti agli ambienti radicali dove normalmente Foucault ha il ruolo del Profeta.

Z: Lo spero! È un po’ lo scopo del libro. Volevo chiaramente rompere con l’immagine fin troppo consensuale di un Foucault in opposizione completa al neoliberismo durante l’ultimo periodo della sua vita. Da questo punto di vista io penso che le interpretazioni tradizionali di questi ultimi lavori siano erronee o quantomeno evitino una parte del problema.
Non è solo il suo corso al Collège France che pone la questione (Nascita della biopolitica) ma numerosi articoli e interviste che sono molto accessibili. Foucault era molto attratto dal liberismo economico. In effetti, vi vedeva la possibilità di una forma di governamentalità molto meno normativa e autoritaria rispetto alla sinistra socialista e comunista che egli trovava completamente superata. Vede nel neoliberismo una politica «molto meno burocratica» e «molto meno disciplinarista» di quelle proposta dallo Stato sociale del dopoguerra. Sembra immaginare un neoliberismo che non proietta i suoi modelli antropologici sugli individui e che offre loro una autonomia maggiore di fronte allo Stato. Anche Colin Gordon, uno dei principali traduttori e commentatori di Foucault nel mondo anglosassone, non esita a dichiarare di vedere in lui una sorta di precursore della terza via di Blair, che inseriva nel corpus social-democratico alcuni elementi della strategia neoliberista.
Questa constatazione è particolarmente importante se vogliamo comprendere i cambiamenti del post ’68. La maggior parte delle opere consacrate alla svolta conservatrice degli anni Ottanta è stata articolata intorno all’idea del “tradimento”. In fondo, erano di sinistra, poi hanno cambiato casacca per “opportunismo”. È una lettura sommaria e completamente scorretta dal mio punto di vista. Studiando seriamente l’analisi di Foucault – ma anche di molti altri – a cavallo degli anni Ottanta, si capisce subito che il loro gauchisme o le loro critiche vertevano essenzialmente su tutto quello che aveva incarnato la sinistra del dopoguerra. Lo Stato sociale, i partiti, i sindacati, il movimento operaio organizzato, il razionalismo, la lotta contro le disuguaglianze. In fondo, al di là di Foucault, non penso che questi intellettuali abbiano “cambiato casacca”. Erano predisposti, per le loro critiche e per il loro odio nei confronti della sinistra classica ad abbracciare l’opinione neoliberale.

[…]

4. B  Nel tuo testo, tu contesti la sua visione della sicurezza sociale e della redistribuzione delle ricchezze: puoi parlarcene?

Z: È una questione quasi inesplorata dall’immensa produzione dei foucaultiani. A dire il vero io stesso non pensavo di lavorare a tale questione quando ho immaginato il progetto del libro. Il mio interesse per la sicurezza sociale non era inizialmente legato direttamente a Foucault. Le mie ricerche su tale questione mi avevano portato a interrogarmi sul modo in cui si è passati, nel corso degli ultimi quarant’anni, da una politica che mirava a lottare contro le disuguaglianze, ancorata nella sicurezza sociale, a una politica che mira a combattere la povertà, sempre più organizzata intorno ai budget specifici e calibrata su obiettivi pubblici. Per portare a compimento a questa piccola rivoluzione è stato necessario un lungo lavoro di delegittimazione della sicurezza sociale e delle istituzioni legate al salariato. Ed è percorrendo con attenzione le pagine dell’«ultimo» Foucault, fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta, che mi è apparso chiaro come egli abbia preso pienamente parte a questa operazione. Egli rimette in causa non solo la sicurezza sociale ma è anche sedotto dall’alternativa dell’imposta negativa proposta da Friedman in questa epoca.

Dal suo punto di vista, i meccanismi di assistenza e di assicurazione, che egli mette sullo stesso piano della prigione, delle caserme e delle scuole, sono istituzioni indispensabili «per l’esercizio del potere nelle società moderne». Visti i troppi difetti che comporterebbe il sistema classico di sicurezza sociale Foucault sembra allora interessato al progetto di sostituirlo con un sistema di imposta negativa. L’idea è relativamente semplice, consiste nell’offerta da parte dello Stato di un sussidio a tutti coloro che si trovano al di sotto di un certo livello di reddito. L’obiettivo è di fare in modo, senza grandi sforzi amministrativi, che nessuno possa trovarsi al di sotto di un livello minimo di reddito. In Francia è attraverso l’opera di L. Stoléru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, che questo dibattito appare nel 1974. Da questo punto di vista, l’entusiasmo appena celato con cui Foucault parla della posizione di Stoléru fa parte di un movimento più ampio che procede di pari passo con il declino della filosofia egalitarista della sicurezza sociale a vantaggio di una lotta liberale contro la povertà.

Per quanto possa sembrare sorprendente, questa lotta, lungi dall’aver limitato gli effetti delle politiche neoliberali, ha in realtà operato in favore della loro egemonia politica. Detto questo, non dovrebbe sembrare strano vedere i più ricchi al mondo come Bill Gates e Georges Soros impegnarsi in questa lotta alla povertà nel mondo continuando a difendere senza contraddizione apparente la liberalizzazione dei sevizi pubblici, la distruzione di tutti i meccanismi di redistribuzione della ricchezza e le «virtù» del neoliberalismo. Lottare contro la povertà permette di includere le questioni sociali nell’agenda politica senza tuttavia dover lottare contro le disuguaglianze e i meccanismi strutturali che le producono. Questa evoluzione ha dunque pienamente accompagnato il neoliberismo e Foucault ha la sua parte di responsabilità in questa deriva.

5. B – La questione dello Stato è sempre presente nell’opera. Chi critica la sua esistenza sarebbe un liberale: questo comporta dimenticare la tradizione anarchica, anti-Stato, e anche quella marxista. Engels e Marx parlavano di una sua «scomparsa» e Lenin ha teorizzato la sua riduzione. Non hai ignorato questa dimensione?

Z: Non penso. Mi sembra che la critica della tradizione marxista o di quella anarchica siano molto differenti da quella formulata da Foucault e da una parte non trascurabile del marxismo degli anni Settanta. Io sono sempre stato molto contrariato da questa idea abbastanza diffusa nella sinistra radicale per cui la sicurezza sociale sarebbe fondamentalmente uno strumento di controllo sociale da parte del grande capitale. Questa idea manifesta una ignoranza totale della storia e delle origini dei nostri sistemi di protezione sociale. Essi non sono stati instaurati dalla borghesia per controllare il popolo. Queste istituzioni, frutto di una posizione di forza del movimento operaio all’indomani della liberazione, sono state inventate dal movimento operaio stesso. Nel Diciannovesimo secolo gli operai e i sindacati avevano, per esempio, costituito le casse di mutuo soccorso per versare dei sussidi a chi fosse stato impossibilitato a lavorare. È dunque la logica stessa del mercato e le enormi incertezze che essa fa pesare sulle vite degli operai che hanno spinto questi ultimi a sviluppare dei meccanismi che permettessero di socializzare una parte dei loro redditi.

Da questo punto di vista, se con l’industrializzazione solo i proprietari potevano dirsi pienamente cittadini, è – come sottolinea R. Castel – con la sicurezza sociale che ha avuto luogo la «riabilitazione sociale dei non proprietari». Essa instaura quindi, a fianco della proprietà privata, una proprietà sociale destinata a fare realmente entrare nella cittadinanza le classi popolari. Questa idea è quella che difendeva Polanyi ne La grande trasformazione, vedendo in ogni principio della protezione sociale l’obiettivo di svincolare l’individuo dalle leggi del mercato e dunque di riconfigurare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Si può certamente criticare la gestione statale della sicurezza sociale e dire, per esempio, che sono dei collettivi che la dovrebbero amministrare – anche se io non ci credo molto – ma criticare lo strumento e i suoi fondamenti ideologici in quanto tali è molto differente… Quando Foucault arriva a dire che è «chiaro che non ha alcun senso parlare di diritto alla salute» e si domanda se «una società deve cercare di soddisfare con degli strumenti collettivi il bisogno di salute degli individui» e «se è giusto e legittimo che gli individui rivendichino un diritto alla soddisfazione di questi bisogni» non si è più nel registro anarchico.

[…]

8. B – Debray scrive, in Modernes catacombes, che Foucault, la penna ribelle degli emarginati, è diventato un «filosofo ufficiale». Come ti spieghi questo paradosso, con il quale sembri d’accordo? E come spieghi che egli possa sedurre gli ambienti radicali che, affermano e spesso con clamore, di volere superare l’era neoliberale?

Z: È una questione molto interessante e alla quale io non ho una risposta esaustiva. Tuttavia io penso che questo fatto sia in gran parte dovuto alla struttura dell’ambiente accademico stesso. Bisogna tornare a Bourdieu e ai preziosi lavori di L. Pinto per comprendere meglio questa evoluzione. Non bisogna mai dimenticare che inserirsi in una “scuola” o in una prospettiva teorica di un autore è anche inserirsi in un campo intellettuale dove c’è una lotta importante per avere accesso a posizioni dominanti. In fondo, dirsi marxista nella Francia degli anni Sessanta, quando il campo accademico è parzialmente dominato da autori che rivendicano tale appartenenza, non è la stessa cosa che essere marxista oggi. I concetti e gli autori canonici sono evidentemente degli strumenti intellettuali, ma essi corrispondono ugualmente ad altrettante strategie per inscriversi nel campo e nelle lotte di cui sono l’oggetto. Le congiunture intellettuali sono in parte determinate dal rapporto di forza interno al campo stesso. E mi sembra che i rapporti di forza nel campo accademico siano considerevolmente cambiati a partire dalla fine degli anni Settanta e che , in seguito al declino del marxismo, Foucault vi occupi un ruolo centrale. Io penso che egli offra in realtà una posizione molto comoda permettendo un certo grado di sovversione senza perdere posizioni nel mondo accademico. Richiamarsi a Foucault oggi è relativamente valorizzato e permette spesso ai suoi difensori di essere pubblicati dentro riviste prestigiose, di inserirsi in una larga rete di intellettuali, di pubblicare libri, eccetera. Lungi dall’essere sovversivo, oggi vaste aree del mondo intellettuale fanno riferimento a Foucault nei loro lavori e gli fanno dire tutto e il suo contrario.

Leggi l’intervista completa “Si può criticare Foucault?” a Daniel Zamora 

 

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