Sul finire della festa

Sul tema della festa attraverso tre libri italiani recenti: “Muro di casse” di Vanni Santoni, “La festa è finita” di Eugenio Vendemiale e “Teoria della classe disagiata” di Raffaele Alberto Ventura. Con apparizione finale di Luciano Gallino.

Questa estate sono stato per la prima volta a un festival techno. Si chiama Black Moon, si svolge intorno a ferragosto tra le colline marchigiane in un poco più che simbolico recinto all’interno del quale regna una parziale sospensione delle norme penali – almeno per il consumo di stupefacenti – e un clima di spensierata e tutto sommato pacifica atmosfera vacanziera. La gradevole confusione di lingue europee, un numero di partecipanti sostenibile, un’organizzazione che dava l’impressione di essere molto meno rapace di quella che presiede alla maggior parte degli eventi culturali e ricreativi a cui siamo abituati, aiutavano ad ambientarsi. Si dormiva in tenda ma non mancavano altri confort. Forno a legna, cibi vegetariani, piadine romagnole si accompagnavano con grande naturalezza a fumo ed erba di ogni genere e qualità. Anche senza l’ausilio di psicoattivi, il Black Moon mi è subito apparso come un microcosmo vagamente allegorico: il giorno e la notte si susseguivano svincolati dagli abituali ritmi sociali, la pulsazione della cassa accompagnava ininterrotta una temporalità fluida e nello sterrato del main stage un numero variabile di individui consumava calorie al ritmo della musica psytrance, ritmo che raggiungeva un’intensità febbrile intorno alle due di notte per tornare a calare verso l’alba. Davanti (e in mezzo) a quella gente dalle movenze meccaniche e ripetitive ho pensato al lavoro: operai che compiono gesti segmentati, o rematori impegnati a seguire il battito dei “musici” nelle antiche galere. Comunque volessi considerarli era senza dubbio quello il motore che teneva in piedi la baracca e faceva andare tutto “avanti”. Poi c’era la zona chill-out, dove la musica si ammorbidisce e si possono osservare i tipi umani: giovani immersi in meditazioni trascendentali davanti al sole nascente, o coperti di tatuaggi con le canotte da basket e la camminata spavalda, ragazze vestite come l’eroina di Tomb Raider e biondi rastoni ascetici nordeuropei con un eterno boccale di birra in mano.

Col passare del tempo quell’atmosfera mi è diventata familiare e persino gradevole: ti adatti alla musica eterna trasformata in un dato ambientale (pattern ripetitivi, suoni che lentamente ti penetrano il cervello), impari a mimetizzarti, immagini una specie di complicità con chi sta lì perché cerca qualcosa che tu non conosci, o stai imparando a conoscere.

Tra le immagini mentali che mi sono portato dietro da quei tre giorni di festa ne spicca una: un ragazzino di 15 o 16 anni, delicati lineamenti infantili, dreadlock, mimetica e scarponi da skate. L’ho visto il primo giorno ballare dinoccolato alle dieci di mattina disegnando cubi nell’aria e poi di nuovo, nel tardo pomeriggio, accasciato su una panca sotto botta pesante, probabilmente ketamina. Dopo qualche minuto che lo osservo cercando di capire se respira, se è il caso di intervenire, si avvicina un suo coetaneo che gli dice qualcosa, gli posa una mano sulla schiena e gli resta seduto accanto, in silenzio, lasciando che il contatto fisico penetri lentamente nel profondo coma chimico dell’amico. Non c’è dramma, non c’è allarme, sembra un copione ben noto.

Pochi giorni dopo il Black Moon mi riposo al mare sfogliando un libro di Joan Didion, scrittrice statunitense di recente assurta (almeno in Italia) al gotha della letteratura americana tra “lettori forti” e addetti ai lavori. Non ne condivido il culto ma leggo con curiosità un reportage degli anni sessanta su alcuni giorni trascorsi in mezzo ai fricchettoni di San Francisco (Verso Betlemme, Il Saggiatore). Dietro lo sguardo neutrale e distaccato si percepisce fin dalle prime pagine uno sdegno trattenuto a stento. Degli hippie americani vengono mostrati solo gli aspetti più degradanti: la sciatteria, la sporcizia, le vite che sembrano votate allo scacco e allo sfascio. Il pezzo si chiude con l’immagine di una bambina di cinque anni a cui i genitori hanno appena fatto ingoiare un acido, una mossa retorica che mi è sembrata pesantemente faziosa e moralistica.

Tenevo quell’istantanea mentale, la bambina hippie, accanto all’altra del ragazzino sotto ketamina e mi sembravano due mondi impossibili da rapportare. La Didion finge di lasciarci la libertà di giudicare, mentre carica il suo ritratto di tutta la potenza di fuoco politica e letteraria di una brillante donna borghese di successo, economicamente emancipata e straordinariamente intelligente. Il ragazzino al Black Moon invece non comunicava nulla, almeno non a me. Lo sdegno e il moralismo non avevano diritti di soggiorno nel luogo in cui mi trovavo, scivolavano appena sulla superficie delle cose. Per dare un nome a quello che stavo vedendo servivano parole, e pensieri, che al momento non avevo. 

Santoni, o l’ottimismo

Sono andato al Black Moon perché seguivo le tracce di un amico scrittore, Vanni Santoni, che aveva da poco pubblicato per Laterza un libro dedicato ai festival techno degli ultimi vent’anni. Per finezza di stile e complessità narrativa (tra romanzo, saggio, poesia, autobiografia indiretta), Muro di casse mi ha fatto pensare a certi libri francesi degli anni sessanta e settanta, ma felicemente immune da quell’astratta cerebralità. Il tema zavorra l’elaborazione formale con un mucchio di esperienza concreta, un mondo di contro o sottocultura underground che è quanto di più lontano dalle eburnee preoccupazioni estetiche dei romanzieri nouveau (o di molti nostri neoavanguardisti coevi). Quello di Santoni è un libro vissuto, un testo colto e allo stesso tempo popolare, un omaggio molto amoroso a un’espressione secondo lui importante e ancora fertile della cultura giovanile.

I giovani di Santoni si drogano parecchio, nei loro raduni non manca il “sudiciaio” e lo scrittore non si rifiuta di mostrare anche i momenti meno edificanti. Le contraddizioni e le debolezze sono esibite e rivendicate come segni di autenticità.

Muro di casse è attraversato da una vitalità che illumina i personaggi e le storie di un ottimismo misurato. Contro i nostalgici dei primi rave Santoni fa valere le nuove frontiere delle feste goane relativamente legalizzate (Black Moon è una di queste) come valido prolungamento di più selvatici e anarchici party d’antan (anni novanta, primi duemila). La trasgressione e lo sfondamento percettivo hanno ancora un senso da consumarsi in situazioni e azioni collettive e in qualche modo liberatorie: la condivisione di esperienza, scampoli di politica incarnata, il senso di trasformazione del viaggio psichico e fisico, l’intensità di un divertimento ancora capace di custodire un potenziale oppositivo. La festa non è finita ed è ancora possibile godersela senza staccare la spina dell’intelletto.

Vendemiale, il pentito

Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. (…) E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.

Come per David Foster Wallace in questa famosa intervista anche per Eugenio Vendemiale, trentenne barese al suo primo libro, la festa è decisamente finita, ed è una faccenda che ci riguarda tutti. Se nel romanzo-saggio di Santoni i party sono oggetto di una fiduciosa adesione, nel romanzo di Vendemiale la movida è l’esatto contrario dell’emancipazione: puro viaggio al termine della notte, escapismo autodistruttivo e sintomo generazionale di una gioventù affondata fino al collo nella propria mancanza di senso. La festa è finita (Caratteri Mobili editore) è appunto il titolo del romanzo autobiografico che ha ricevuto nei giorni scorsi il Premio Sinbad della giuria popolare (quello dei critici l’ha vinto Pincio con Panorama). A me è parso una delle cose narrative italiane più interessanti di quest’anno, a maggior ragione se lo si considera un esordio.

Il libro di Vendemiale è quanto di più vicino a un genere fondativo della letteratura occidentale: la confessione. Ad accostare le pagine sulla perdizione giovanile di Sant’Agostino e certe altre dello scrittore barese difficilmente si noterebbero i millecinquecento anni che li separano.

Vendemiale racconta i figli di una borghesia benestante impegnati con tutte le loro forze a fare del divertimento una ragione di vita. La “scena” di riferimento è meno quella dei centri sociali e dei free party (anche se non mancano punti di contatto) che quella dei club e delle più ortodosse discoteche. Ma è il luogo mentale e morale specifico da cui parla questo scrittore che lo avvicina in maniera impressionante ai classici della confessione: il pentimento. A parte qualche palliativo sprazzo di pietà, Vendemiale spara a zero sul suo recente passato, sui posti, gli stili di vita, le persone con cui ha vissuto e condiviso esperienze, con un moralismo non lontano da quello della Didion. Se quest’ultima, tuttavia, si muoveva in un sistema di valori ancora in qualche misura solido e diametralmente opposto a quello del ribellismo hippie, Vendemiale non ha nulla da contrapporre a ciò che sembra fare definitivamente parte dell’identità sua e della sua classe sociale.

Le droghe e la psichedelia sono al centro del libro anche più che in quello di Santoni. Di ogni sostanza gli effetti sono descritti in maniera quasi puntigliosa e Vendemiale racconta benissimo gli abusi liceali (e universitari) che molti della nostra generazione hanno conosciuto. Allo stesso tempo quelle pagine mi sembrano pesantemente sbilanciate dalla parte dell’effetto collaterale: dissociazioni e orribili postumi senza ritorno come una versione iperletteraria di una nota informativa del Sert.

Lo scrittore rivolge uno sguardo impietoso verso qualsiasi forma di cultura o controcultura giovanile. Le figure dei genitori sono l’emblema di una classe media sconsiderata e arrivista cresciuta nella corruzione politica e morale degli anni ottanta, e noi siamo la loro prosecuzione con altri mezzi.

Gli storici della letteratura hanno spesso messo in rapporto la confessione con l’idea di una conversione. Colui che confessa lo fa soltanto dopo avere trovato la verità, dopo avere cambiato vita (solitamente attraverso la religione). Non Vendemiale. Ne La festa è finita c’è l’immersione nichilista nell’autodistruzione più la coscienza severa di qualche decennio di critici della cultura, con tutte le parole d’ordine del caso – consumismo, edonismo, infantilizzazione, assenza di futuro, declino dell’occidente – ma non c’è conversione o possibilità di riscatto, e il narratore continua dichiaratamente a muoversi in una fatale, o forse epocale, “mancanza di senso”.

Ignoro se ci sia qualche forma di compiacimento in questa ostentata ma connivente superiorità, ma qualcosa nella voce dell’autore me l’ha reso lontano e in qualche modo antipatico. C’è qualcosa di stonato in questo moralista colpevole, ed è forse, in fondo, la dissonanza stessa che dà il sapore al suo libro. Non è certo la prima volta che le feste vengono utilizzate dagli scrittori per parlare di decadenza sociale, ma raramente escludendo in maniera così netta qualsiasi ambivalenza. Qui davvero non si salva nulla e nessuno.

RAV, il rasoio economico

A occhio e croce Raffaele Alberto Ventura, che è nato come Vendemiale nel 1983, potrebbe essere una delle teste pensanti più lucide, incisive e smaliziate della nuova leva intellettuale. Oltre a molti articoli dove attraversa con grande disinvoltura i più svariati ambiti della produzione culturale e simbolica (cinema, letteratura, videogames, musica, politica, ecc), ha pubblicato tre ebook, l’ultimo dei quali, Teoria della classe disagiata, mi sembra una delle cose più interessanti (e scoraggianti, a dire il vero) che siano state scritte sulla nostra generazione. Dove per “nostra” s’intende anzitutto di noi classe media di trenta-quarantenni che fatichiamo a trovare un lavoro all’altezza dei nostri titoli e “un posto nel mondo” ma continuiamo a coltivare ambizioni e vasti consumi culturali, vivendo chi meglio chi peggio su un welfare statale (sempre più malmesso) e famigliare che quasi certamente non garantiremo ai nostri figli. E perciò, tendenzialmente, non ne facciamo, o li facciamo sempre più tardi. Insomma noi classe dis-agiata, perché falsamente agiata, non più agiata, o ancora per poco: “troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare”. Secondo Ventura.

Questo “noi” non significa certo “tutti” ma di sicuro una buona parte, e soprattutto – questa sembra la tesi del libro – una parte esemplare, la più vicina ai nervi scoperti del sistema socio-economico dominante. La “teoria” di Ventura (che fa il verso a “Teoria della classe agiata” del sociologo Thorstein Veblen) si basa sostanzialmente su analisi economiche di matrice marxista ma conduce a posizioni che difficilmente si potrebbero collocare senza esitazione sullo scacchiere politico. Diversi intellettuali di riferimento citati in questo libro, da Ivan Illich a Michel Clouscard, sono anch’essi difficilmente ascrivibili a una precisa corrente di pensiero politico.

Teoria della classe disagiata potrebbe benissimo essere letto come l’illustrazione del retroscena economico-sociale dell’esistenza descritta a cuore aperto nel romanzo di Vendemiale. Il lessico economico del libro impone un andamento rigoroso, esiziale, di fronte al quale anche il lettore profano ha l’impressione di riconoscere un’immagine abbastanza fedele della propria situazione. Ed è proprio come autorappresentazione di classe e generazionale che vorrei considerare questo saggio.

Alla base di tutto c’è la convinzione, con Marx, del carattere strutturalmente contraddittorio, e quindi “tragico” e “apocalittico”, del capitalismo. Analisi sommarie dell’imperativo sviluppista, dell’aumentare ipertrofico del lavoro improduttivo, della delocalizzazione, ecc. si susseguono a tratteggiare un paesaggio profondamente malato dove prolifica, come un immenso sfogo sociale, la “monocultura del consumo”: beni voluttuari, differenziati, sempre più immateriali, gonfiati artificialmente da stili di vita e programmi tecnici che possono assumere i connotati della fantascienza, come ha mostrato recentemente il libro di Jonathan Crary 24/7 (Einaudi). La crisi di oggi è osservata da Ventura sulla scorta di numerosi studiosi del novecento, e attraverso la lettura di alcuni classici della letteratura occidentale come Molière, Goldoni, Shakespeare, Austen. È quest’ultimo sicuramente uno dei motivi di maggiore fascino del libro, e un momento della sua riflessione quasi involontariamente programmatico. Il fatto di ridurre testi letterari a schemi economici ha molto a che fare con lo spirito del saggio, che semplificando brutalmente sembrerebbe dire: “ragazzi, mi spiace per voi ma le leggi dell’economia dicono che siamo nella merda fino al collo, e lo dicono così chiaramente che, a guardare bene, si possono ritrovare anche nei romanzi con cui trascorrete le vostre domeniche pomeriggio.”

La proverbiale e lacrimevole “perdita d’immaginazione del futuro” che guida le peripezie senza domani dei discotecari di Vendemiale e che ci è stata propinata in tutte le salse da sociologi, filosofi e predicatori vari, trova qui una coerente formulazione economica. Una vita festaiola, appiattita su un presente di pura consumazione e consunzione, dove la regola “prendi il contante e lascia stare il credito” – una delle massime che ossessionano il narratore di La festa è finita – trova un corrispettivo macroscopico nella spada di Damocle del debito pubblico. Si vive al di sopra delle proprie possibilità divertendosi e drogandosi, come drogato e privo di lungimiranza è il sistema economico su cui contiamo. Almeno finché dura.

Particolarmente dure le considerazioni contro il feticismo della cultura, vero e proprio crisma della classe disagiata: “quel che è certo, per citare Frédéric Bastiat, è che non ha senso ostinarsi a vendere candele in un paese in cui c’è sempre luce, ad ogni ora del giorno e della notte, da ogni pertugio e finestra. Il problema è che siamo gli sfortunati possessori di una gigantesca partita di candele, ed è tutto quello che abbiamo da vendere… e se la Cultura fosse la nostra maledizione?”. Le più deprimenti metafore economicistiche si avvicendano nel libro verso un finale catastrofico: siamo macchine rimaste nei magazzini dopo una crisi di sovrapproduzione, siamo la generazione-betamax, una delle più clamorose brand failures della storia recente.

Il tema della “fine della festa” aleggia onnipresente sulle analisi di Ventura. I fratelli maggiori lottavano per liberare il desiderio negli anni settanta, inneggiavano al “right to party” insieme ai Beastie Boys negli ottanta, e alla fine ci hanno lasciato soli nella casa di Wallace tra il vomito nel portaombrelli e l’ansia di trovare qualcuno a cui chiedere aiuto. Fine della festa, fine della vita da cicala. 

E insomma? Gallino

Ventura, Vendemiale, Santoni sono – siamo – tutti sulla stessa barca. Una barca di giovani e non-più-giovani dove regna un clima denso di pessimi auspici. Ma prima di capire una volta per tutte di che morte moriremo, prima di capire – o anche dopo averlo capito – quale eminenza grigia si nasconde dietro i nostri piaceri e le nostre paure, come dovremmo sentirci? in colpa? dobbiamo pentirci? o ammazzarci di sarcasmo? siamo una generazione di turboconsumatori formata dai maestri della controcultura libertaria (dice Ventura), ma che fare di tutte quelle candele, che fare dei nostri desideri senza copertura? Sono davvero così svalutati?

Non sembra l’opinione di Luciano Gallino. Il suo ultimo libro, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nostri nipoti (Einaudi), oltre a essere un testo estremamente documentato, autorevole e convincente, è un’opera incoraggiante, ed è tale proprio perché seriamente allarmata. Possiamo considerarlo come una specie di testamento intellettuale visto che è stato scritto poco prima di morire, che riassume molte delle riflessioni sviluppate nei libri precedenti dello stesso autore, e che si rivolge fin dal titolo ai più giovani, ai “nipoti”, a noi e ai nostri fratelli minori. Anche Gallino, come Ventura, considera secondo l’ortodossia marxista il capitalismo un sistema contraddittorio, destinato alla crisi e probabilmente all’estinzione. E tuttavia Gallino è molto più propenso del “nipote” a valutare la possibilità di correggerlo. Tutta l’ultima parte del saggio è dedicata a simili provvedimenti correttivi nella convinzione – che a mio parere andrebbe imparata a memoria e ripetuta ogni mattina appena svegli – che “vi sono trasformazioni nel capitalismo che, nel caso siano tra loro conseguenti, coerenti e cumulabili, posso addurre a trasformazioni radicali del capitalismo”. Gallino è inoltre abbastanza informato da indicare storture specifiche e specifici responsabili, entrando nel dettaglio del funzionamento dell’attuale sistema economico-finanziario oltre l’algebrica e apodittica determinazione della sua strutturale contraddittorietà.

La questione del vivere a credito che Ventura declina nei suoi diversi campi d’analisi e che il protagonista di Vendemiale vive sulla pelle, è al centro anche del libro di Gallino. Secondo lui, dietro giudizi severi come quelli espressi più sopra, c’è un sostanziale errore di valutazione. Siamo stati abituati a considerare il debito pubblico “generato […] dall’eccesso di spesa sociale e dal costo troppo elevato del lavoro” e non – come invece sarebbe giusto fare – dall’operato delle banche, dal loro smisurato potere di manipolazione finanziaria e da un capitalismo completamente sfuggito al controllo democratico. Perciò il ritornello secondo cui “viviamo al di sopra delle nostre possibilità” non sarebbe altro che un balla moralista utilizzata dal pensiero neoliberale per giustificare le sue politiche di austerità. Ventura liquiderebbe questo modo di procedere come qualcosa che “appiattisce l’economia sulla psicologia, attribuendo cioè all’avidità di una ristretta cerchia di capitalisti la responsabilità di fenomeni ben più profondi”, ma Gallino mostra e analizza e identifica una per una le singole questioni nei singoli contesti, col risultato di apparire più credibile e concreto.

Il problema insomma, restando nelle nostre metafore, non è tanto che abbiamo fatto troppo le cicale, festeggiato troppo crogiolandoci nell’opulenza, ma che ci fanno credere che sia così, che “pensatoi e pensatori neoliberali sono all’opera giorno e notte per fabbricare un consenso collettivo intorno a simile giudizio negativo” sulle nostre vite. Siamo stati inguaiati e lo siamo stati talmente bene da essere finiti a giustificare, colpevolizzandoci, quelli stessi che insistono per interessi privati a demolire sistematicamente il bene pubblico.

Ecco, ma il problema è che quello che ha scritto questo nonno premuroso è difficile da assimilare, da sentire, perché, con le migliori intenzioni, siamo stati indottrinati, impregnati di un pensiero geneticamente catastrofista e autodistruttivo e neanche ci rendiamo più conto, talmente l’abbiamo assimilato, che a toglierci il futuro è lui, prima ancora della crisi economica.

E allora la festa, ancora. Il moto perpetuo di quei ballerini che osservavo davanti al muro di casse era un’agghiacciante metafora incarnata del lavoro improduttivo e della temporalità ininterrotta del capitalismo 2.0? erano galeotti condannati a sprecare energie nel tunnel del divertimento? o era solo un prodotto della mia immaginazione apocalittica e c’era invece, ancora ci può essere, qualcosa di rigenerante, qualche spazio di fuga dal controllo e dal nostro supino ottemperare agli obblighi sociali 24/7? Ci può essere nel presente una dimensione di azione, magari collegata al desiderio e al godimento, un legame con la temporalità del “non ancora” oltre a quella del “finché dura”? Lo sdegno della Didion e dei moralisti, in ogni caso, ci lascia soli e bisognosi come prima. Il determinismo economico di Ventura e di molti altri è troppo definitivo compatto e totalizzante per essere davvero accettabile, dico psicologicamente, esistenzialmente, nella vita di tutti i giorni. Per non parlare del disagio che a tutto ciò aggiunge in queste settimane una situazione internazionale tesissima, tra titoli esplosivi, stati d’eccezione e l’insinuante fantasma dei terroristi, che quanto a produzione e consumazione di visioni apocalittiche non sono secondi a nessuno.

Probabilmente continueremo a vivere come sappiamo, accompagnati dalle litanie di una coscienza infelice nutrita dei monotoni ammonimenti di qualche generazione di critici radicali e malmostosi ex-rivoluzionari delusi; ma sarà una coscienza scissa, esteriore e impotente, come quella dell’individuo sentenzioso de La festa è finita che commenta da un luogo troppo astratto per essere reale. «Dirsi peccatori è più facile che smettere di peccare», ha giustamente osservato Walter Siti (evidente fonte di ispirazione per il giovane scrittore barese) in una bellissima conferenza (si può vedere qui). Ma anche per lui «nel nostro occidente democratico viene negato il diritto a un cambiamento radicale di sistema», anche lui parla come molti altri da un luogo che non prevede redenzione, se non quella forzata, dall’alto, il cambiamento meccanico e traumatico di una forza maggiore, diciamo pure economica, o al limite divina (o una divina forza economica), e nel frattempo non ci resta che “peccare”.

Non c’è una soluzione, questo è chiaro, se non quelle che possiamo trovare volta per volta e caso per caso, esattamente come fa Gallino nel suo libro che si conclude all’insegna di un famoso slogan sessantottino “detournato”: Siate realisti, non chiedete l’impossibile. L’idea di un “altro mondo” è difficile da immaginare almeno quanto è facile immaginare che esista soltanto quello in cui viviamo, che lo si consideri bello oppure orribile. Forse noi comuni mortali nati alla fine del novecento dovremmo iniziare a tapparci le orecchie di fronte ai narratori distopici di ogni genere e parrocchia. Intraprendere una sorta di autoeducazione umorale. Gallino, in una schematizzazione conclusiva parla di due possibili scelte: politiche e cognitive. Io credo che esista anche una dimensione più impalpabile, più emotiva, di cui dovremmo preoccuparci. Qualcosa che difficilmente potrebbero insegnarci altri e che forse la conoscenza e il sapere da soli non basteranno a produrre: un esercizio, per così dire, sulla tonalità emotiva del pensiero, delle nostre idee cresciute tra la cupa autorevolezza degli apocalittici e i sorrisi vacui o paraculi di tutti gli integrati o aspiranti tali. Una specie di equilibrismo tra l’illusione e il disincanto, la trasgressione e il conformismo, le ragioni del piacere e le ragioni del sacrificio, quelle ideali e quelle economiche. Se l’ottimismo sperticato dei “decisori” è un banale strumento di marketing, se la loro fiducia nel futuro serve soltanto alle oscure manovre della finanza, se l’energia positiva e i buoni sentimenti li vendono al discount spirituale in mezzo ai prodotti biologici e ai corsi di yoga acrobatico, neppure le passioni tristi ci salveranno. Perciò ben venga la festa, con i suoi sudiciai, i suoi rischi e anche le sue complicità. Quel ragazzino che ho fotografato mentalmente al festival techno è lontano, molto lontano dal mondo e dalla Storia ma non è morto, e neppure solo (un amico veglia su di lui), e forse non sta neppure scappando. Aspettiamo senza panico né cinismo che torni al mondo, e vediamo. Magari avrà qualcosa di imprevisto da raccontarci.

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