Tra i mattoni di Milano, il libro che racconta la storia di un quartiere diverso: Fight-Specific Isola di Isola Art Center -Archive Books (2013).
La crisi economica degli ultimi anni, o meglio, il nuovo paradigma economico dentro cui viviamo, ha tra la sue conseguenze uno slittamento semantico nell’ambito immobiliare che molto dice del nuovo mercato in generale più ristretto e sovente orientato a ceti ricchi. Se per anni abbiamo guardato con curiosità o disperazione gli avvisi immobiliari, soggiacendo di fronte alle cosiddette finiture signorili, oggi, che più spesso osserviamo i medesimi con l’aria disincantata di chi può permettersi a malapena un posto divano in circonvallazione, non possiamo non notare la comparsa decisa delle finiture di pregio. Già, perché se le finiture signorili riguardano quello che si ritiene essere signorile, elegante e prezioso secondo i gusti della ormai tristemente defunta piccola borghesia o ceto medio che dir si voglia, le finiture di pregio sono, nella loro pur brianzola volgarità (seppur pregna di concretezza), ciò che è indiscutibilmente di valore nei termini di materiali, qualità artigianale e valore progettuale. Non ci si scappa: con le finiture di pregio quegli orribili pavimenti in legno a quadratini sono solo un ricordo delle camerette adolescenziali degli anni Novanta.
E di finiture di pregio si parla quando si entra nel complesso milanese di Porta Nuova: vetro, acciai, giochi d’acqua (anche se questo fa effettivamente un po’ anni Ottanta), negozi di lusso, grattacieli e quell’aria tutta Est Europa liberato che sogna New York e Park Avenue. Già, perché la finitura di pregio in realtà non è altro che la stessa finitura signorile su scala globale, perché se il mercato si è ristretto si è anche allargato; chi oggi vive in una città cosmopolita, sia essa Los Angeles, Parigi o Tokyo, non ha un vero luogo di appartenenza, vive il mondo, veste Costume National e, come Marchionne insegna, è l’anima che conta e non la sede fiscale d’appartenenza. Quindi l’impressione è che Milano, che grazie a una serie di complessa di operazioni immobiliari fa oggi parte del novero delle città cosmopolite, abbia un po’ il ruolo dell’ultima arrivata, quella con le scarpe nuove che cigolano e con l’abito bello comprato in saldo mesi prima appena dopo la dieta. E che adesso già sta stretto.
Milano che è tante cose (e tante capitali: moda, creatività, finanza) è principalmente una città piatta con il perenne complesso della verticalità, città superficiale che si sente stupida e ignorante e che vuole approfondire, ma dalla testa ormai così dura da finire sulle nuvole piuttosto che al fondo delle cose. Il primo a riuscire a elevarla è stato Luigi Mattioni che con la sua torre Breda in piazza della Repubblica ci ha regalato la mitica terrazza Martini, lungo la traiettoria di via Vittor Pisani lo ha seguito Giò Ponti con il grattacielo Pirelli, ma quello era il dopoguerra, erano altri anni. Quello era il tempo in cui la profondità si misurava sul numero delle fabbriche e dei suoi operai, fabbriche che arrivavano fino al cuore delle Varesine e dell’Isola, operai che invadevano corso Como e Garibaldi per viverci e sfamarsi. Poi le fabbriche sono state abbattute e si è creato il vuoto: erba spagna e boschi spontanei. Per anni ogni progetto è stato abbattuto prima che potesse elevarsi, vi si metteva di mezzo la politica con le sue istituzioni e la collettività, poi è arrivata la crisi, prima quella politica a cui a fatto seguito quella economica; la prima ha spazzato via le istituzioni, la seconda ha indebolito la collettività. Ma intanto quel bosco e quell’erba crescevano spontanei.
Già, perché unica a mettersi di mezzo alle finiture di pregio è stata la spontaneità e non nel triste ricordo sessantottino dello spontaneismo da militante sbandato, ma una spontaneità naturale e quindi organizzata, pensata e capace di far valere le proprie radici.
Principalmente radicata nel quartiere dell’Isola, la lotta ha trovato il suo fulcro attorno alla Stecca degli artigiani, storico spazio dedicato alla produzione artistica e artigiana dentro cui trovavano alloggio dalla sede del partito della Rifondazione comunista alla ciclofficina fino all’Art Center, luogo da cui prende avvio anche il bellissimo volume Fight-Specific Isola (Isola Art Center – Archive Books, 2013), presentato al MAXXI di Roma il 4 ottobre, che documenta l’azione e la resistenza contro la speculazione e la volontà di gentrificazione di uno dei quartieri con la più alta qualità sociale di Milano.
Il volume raccoglie dodici anni di storia dell’esperienza di Isola Art Center intrecciando immagini e testo, restituendo all’occhio il senso di quell’unitaria frammentazione attraverso cui gli stessi artisti che vi hanno partecipato hanno sviluppato e coltivato spazi di resistenza creativa all’interno di un tessuto urbano così complesso.
Inutile dire che la sconfitta era già scritta, tuttavia l’azione e la produzione culturale che ne è scaturita non rassegna certo le dimissioni dalla società dentro cui oggi è ancor più necessario intervenire con forza e precisione. Le oltre quattrocento pagine di Fight-Specific Isola rappresentano un modello di intervento possibile sia a livello urbanistico sia come forma di impegno collettivo a difesa del proprio ecosistema. Fight-Specific Isola propone soluzioni per intervenire e migliorare la qualità della propria vita in relazione con il luogo e lo spazio circostante: non si tratta di rincorrere i bisogni, ma di anticiparli, di renderli evidenti e quindi esauribili. Il volume è la storia di un luogo, la sua visione possibile e anche dell’oltraggio che subisce. Una ferita aperta che sotto l’eleganza delle finiture di pregio nasconde una lacerazione sociale fortissima. Un progetto che sembra essere pensato più dal committente che dai progettisti. Uno scambio di ruoli che in questi anni ha fatto parecchia scuola nei rapporti tra impresa e politica e che poco ha portato alla collettività.
Si diceva della sconfitta: già perché oggi quel bosco è una piazza con negozi e molta gente, un posto anche bello in cui stare col proprio cono gelato griffato gironzolando un po’ per vedere l’effetto che fa. Tuttavia il cosmopolitismo tarda a imporsi e le luci dei tinelli all’interno degli immensi grattacieli sono pochine, così come le aziende che possono permettersi uffici e sedi tanto prestigiose, e anche per i negozi non sembra facile cavalcare l’onda (o la tigre, non si sa mai nella confusione dei ruoli).
Quello che resta è così un gran passaggio, una vitalità sicura, ma tutta esterna, alimentata dalla Stazione Garibaldi da sempre il principale bacino milanese di pendolari provenienti dalla provincia, e dal cazzeggio un po’ gioviale un po’ ispirato (o insipirato) che sale da corso Como ormai ridotto ad outlet dell’apericena. Intanto chi è all’Isola un po’ si lamenta del buio che fanno quelle torri laggiù e un po’ si gode l’ombra. Poteva andare certamente peggio, ma probabilmente non è stata una grande idea – direi ancor meno lungimirante – mettere nelle condizioni di non aver nulla da perdere una collettività creando i presupposti, al di là della speculazione in sé, per condizionarne così spudoratamente il futuro. Ora che i palazzi sono vuoti e le strade affollate, da qualche parte una piena incontrollabile andrà a schiantarsi e non si tratta di un’onda lunga, ma di un’onda alta, verticale e non particolarmente signorile e tanto meno pregiata.