L’irruzione con cui le forze speciali della Marina Militare statunitense hanno messo fine alla latitanza dello “sceicco del terrore” Osama Bin Laden segna, almeno in chiave simbolica, la fine di un periodo, quella della “guerra al terrorismo”, iniziato l’11 settembre 2001.
Come in quella occasione, anche questo evento si presenta denso di spunti problematici per chi si occupa di immagini. Infatti, a poche ore dalla diffusione della notizia relativa alla morte della “primula rossa” saudita, l’uomo il cui fantasma ha tenuto in scacco l’Occidente per un intero decennio, prende a circolare sui media una foto del cadavere di Bin Laden: il volto dell’uomo più pericoloso del mondo, contratto in un ghigno grottesco, appare lordo di sangue e sulla fronte campeggia il foro del proiettile che ne avrebbe decretato la morte.
L’immagine fa il giro del mondo, candidandosi a diventare l’icona che sancisce la fine del periodo più difficile dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale, se non fosse che quella fotografia è, in realtà, un falso, un’elaborazione grafica ottenuta grazie ad un software di fotoritocco. Come in altri casi analoghi è l’intelligenza collettiva della Rete, unita alla sua capacità di muoversi tra i media, ad aver rivelato la contraffazione recuperando la fotografia su cui si era svolta l’intera operazione. Tale circostanza ha favorito la proliferazione di numerose teorie del complotto, alcune delle quali sosterrebbero che l’uccisione di Bin Laden altro non sarebbe che un’abile mossa di propaganda dell’amministrazione Obama per recuperare quel consenso lentamente perduto in questi anni di presidenza.
Ciò che colpisce in questa dinamica è l’equivalenza che si suppone intercorra tra l’inattendibilità del documento fotografico e l’inattendibilità della notizia, tra la falsificazione dell’immagine e la falsificazione dell’evento. In parole povere: se la foto è falsa l’evento che essa documenta deve esserlo altrettanto, dunque, in questo caso, piuttosto che mettere in discussione la deontologia professionale del sistema mediatico si preferisce mettere in questione l’autorevolezza dell’apparato di Stato.
Tale circostanza dice molto a proposito di come il sistema mediatico concepisca il proprio rapporto con le immagini e, conseguentemente, di come il pubblico dei media recepisca e decodifichi le immagini all’interno degli apparati comunicativi.
I media tendono ad usare le immagini come elementi in grado di validare un fatto, come elementi capaci di testimoniare della “verità” di un determinato evento, supponendo che tra la prova documentaria ed il fatto corra la più breve distanza possibile. Tale situazione è, però, soltanto supposta, si potrebbe affermare che in realtà questa distanza non è altro che un effetto di “montaggio” – tra la notizia e le immagini che dovrebbero attestarne la verità – perseguito e realizzato più o meno consciamente. Ad esempio, in un telegiornale, la notizia di un albero abbattuto dal maltempo che ha causato la morte di una o più persone può anche utilizzare delle immagini che non si riferiscono proprio a quell’albero specifico. Per ottenere l’effetto comunicativo desiderato basta utilizzare una qualsiasi immagine che raffiguri un albero abbattuto e mostri i segni del maltempo (nuvole nere all’orizzonte, pozzanghere, fango sulle strade, ecc.). Nel regime di senso che accoppia ad un determinato evento la sua immagine entro una relazione di causa-effetto l’esempio portato poco sopra sarebbe una “falsificazione”, anche se nessuno si sognerebbe mai di sostenerne l’inattendibilità. La foto di Bin Laden circolata poche ore dopo la sua morte ricade in questa casistica, anche se in questo caso la magnitudo dell’evento è considerevolmente più grande e densa di implicazioni rispetto a quella dell’albero abbattuto dal maltempo.
In mancanza di un’immagine che potesse fungere da sigillo di verità per l’evento, il sistema mediatico ne ha prodotta una che fosse in grado di assolvere a questa funzione. Non è sicuramente il primo caso del genere, e probabilmente non sarà neppure l’ultimo: il cormorano inzaccherato di petrolio, il simbolo delle devastazioni della prima guerra del Golfo, la cui fotografia fu scattata a decine di migliaia di chilometri di distanza in circostanze del tutto diverse, il servizio del TG1 di quest’autunno, che raccontò una manifestazione studentesca romana usando le immagini degli scontri di Londra di una settimana prima, dando vita ad un grottesco effetto propagandistico.
Lo scenario che si viene a delineare sembra pertanto essere il seguente: da una parte i media assolvono al loro ruolo di raccontare i fatti utilizzando le immagini come sigillo “veridittivo” nei confronti del pubblico. Dall’altra parte vi è nel sistema dei media una sorta di “indifferenza” nei confronti delle immagini, in quanto queste, sulla base del loro supposto valore testimoniale, vengono utilizzate per creare effetti di senso simile ma con un impatto sociale differente: da un lato l’esempio dell’albero abbattuto, dall’altro il caso del servizio del TG1.
La domanda che si pone a coloro che studiano le immagini è perciò la seguente: come sfondare i limiti di questo scenario?
Probabilmente è possibile operare questo sfondamento tramite una serie di atti di montaggio del tutto simili a quelli operati, in circostanze operative del tutto diverse, dal cinema e dall’intelligenza collettiva della Rete. Se il primo è capace di operare sulle immagini a livello estetico ma coi tempi lunghi che lo contraddistinguono, la seconda è invece in grado di accorciare i tempi pur possedendo minori potenzialità estetica.
La sfida da raccogliere: elaborare gli strumenti e le forme per operare atti rapidi di montaggio che, allo stesso tempo, siano capaci di esprimere una tensione estetica.
Vedi on line: La rotta per Itaca