Eccedere l’empirico

Quello a cui (non) pensiamo mentre facciamo osservazione sul campo.

Può una riflessione semiotica prettamente teorica rivelarsi di qualche utilità per chi, nell’ambito delle scienze umane e sociali, faccia a vario titolo osservazione sul campo? Risposta: “sì, può”. E questo perché la semiotica, disciplina a vocazione scientifica che studia com’è possibile che qualcosa significhi quel che significa, conduce l’osservazione sul campo a sbrogliare la matassa dei propri impliciti, primo dei quali è proprio il campo, condizione stessa di ciò che vi si può osservare e di cui, non a caso, tenterò di proporre un paio di definizioni.

Dichiariamo, dunque, il nostro pubblico nemico, che spesso – peraltro – è anche un nemico che pubblica, e non poco: il “populismo epistemico”. L’espressione, un po’ provocatoria, è stata coniata nel 1995 da Bourdieu1 e descrive la passività di un certo empirismo di maniera, cui antropologi e sociologi non sono mai del tutto esenti: per darsi l’aspetto di un sapere rigoroso e scientifico, esso assume ad oggetto, senza rigore e senza scienza, unità d’analisi precostituite come tali dal senso comune: quartieri, classi sociali, partiti politici, gruppi di persone, ordini religiosi, ordini professionali, fasce di età, istituzioni, scuole, ospedali, ecc.2 

Niente di meglio, in fondo, per garantirsi una comparsata in tante arene mediatiche, dove lo studioso di turno, rinunciando a competenze per acquisire autorità,3 può diventare “l’esperto” ed essere così invitato a dire cose che senza grandi variazioni potrebbero essere dette da un assessore o da un giornalista.

Detto questo, il problema riguarda anche i semiologi, cui spesso non dispiace far coincidere i propri oggetti di ricerca – e cioè i testi, costrutti articolabili in un piano dell’espressione e in un piano del contenuto4 – con i documenti, che in definitiva sono proprio i testi che il senso comune riconosce e accredita come tali.5

L’alternativa a tutto questo – quasi mai compatibile con didattica, politiche accademiche, finanziamenti e agende pubbliche – è pensare un oggetto di ricerca che sia, anzitutto, da costruire, sposando cioè l’idea che una scienza degna di questo nome non possa interessarsi a un oggetto senza interessarsi, come prima cosa, alla sua costruzione, e cogliendo così, nell’ambito di questa costruzione, il campo cui l’oggetto appartiene. È un’idea a cui il populismo epistemico guarda malvolentieri, quindi bisogna difenderla e darle respiro, credito, minuti di vita.

Ma che vuol dire costruire l’oggetto? Si tratta forse di inventarselo a misura dei propri modelli teorici, così da poter fare tutto a tavolino (e magari una volta per tutte)? Ovviamente no, altrimenti alla deriva empirista avremo semplicemente sostituito una deriva di sapore più idealista. Non occorre evitare l’empirico: la sfida consiste semmai (come vorrebbe suggerire il titolo del mio contributo) nell’eccederlo, nel prenderlo in giro, nel prenderlo letteralmente in giro. Costruire l’oggetto, allora, significa far sì che l’osservazione attraversi l’empirico e lo coinvolga in un giro più ampio, entro il quale diventi frutto della costruzione di un senso che la sua semplice e isolata esistenza non avrebbe potuto restituirci. Si tratta di aprirsi, in altre parole, a una molteplicità irriducibile.

Se pensiamo ad alcune proposte teoriche elaborate in antropologia a cavallo fra XX e XXI secolo – dal  “multisituato” di Marcus,6 alle “strade” di Clifford, 7 passando per le “localizzazioni mutevoli” di Gupta e Ferguson 8– la molteplicità di cui parliamo si è spesso manifestata come pluralità dei luoghi convocati sulla scena della ricerca, snodi di quel giro più ampio in cui prendere ed eccedere l’empirico.

A ben vedere, però, c’era molteplicità già in Malinowski,9 capace – per così dire – di “multisituarsi” persino sul posto, ad esempio nella descrizione del rituale del “kula” (Malinowski 1922: trad. it. 88-89). Allo scheletro dell’empirico, inteso come dominio di quei dati che si possono registrare su una tavola sinottica, l’antropologo polacco aggiungeva in questo senso la carne e il sangue della “vita reale”, di cui dichiarava la natura “imponderabile”. Il “tono che assume la vita sociale quando si conversa intorno ai fuochi del villaggio” (Id: 26-27), infatti, non si può misurare, sfugge alla presa di un riscontro empirico ingenuo e rinvia semmai all’esistenza stessa. La quale, dirà più tardi Merleau-Ponty «non ammette in se stessa nessun fatto puro perché è il movimento attraverso cui i fatti sono assunti».10  Assunti, certo. O, appunto, presi in giro, attraversati.

Alla fine il problema è un po’ questo: la costruzione dell’oggetto tentata dall’osservazione scopre, nel corso della propria vicenda, di essere implicata in una costruzione altra, che fa già parte della “vita reale” e proprio a questo titolo include l’osservatore stesso che la punta, puntandolo a sua volta. Questa molteplicità più pura, di cui quella dei luoghi non è che una manifestazione, sembra dunque specificarsi come molteplicità irriducibile di punti di vista.11  La famosa “osservazione partecipante”, preconizzata proprio da Malinowski, è allora (e sempre) un’osservazione osservata, la costruzione, cioè, di una costruzione che ha per oggetto ciò che la assumeva come proprio oggetto.

In questo contesto, dire che il reale è sempre costruito non basta più: bisogna precisare che esso – lungi dal costituire il piano di risoluzione delle dispute intersoggettive – coincide piuttosto con l’intersoggettività stessa. 12 Se dunque vogliamo porci il problema delle condizioni di possibilità che presiedono alla manifestazione del suo senso, non dobbiamo vivere nell’ossessione di gettare piena luce sull’oggetto. Si tratta di archiviare, semmai, la nostalgia di ogni luce piena, nella cui beata speranza procede appunto l’empirismo ingenuo (e il populismo epistemico) che ci siamo dati il compito di eccedere.

Questo ci porta a riconsiderare lo statuto stesso dell’osservazione, che dev’essere intesa non già come riconoscimento neutro delle cose bensì come articolazione della nostra inerenza ad esse. 13 In altre parole, non si è mai osservatori per il semplice fatto di dedicare al mondo l’attivazione di qualche canale percettivo. Occorre piuttosto riconoscere la misura – e il tempo – in cui si diventa osservatori nel corso dell’osservazione stessa, come effetto locale dei rapporti di inerenza che la definiscono, perché questo titolo di osservatori non ci può essere riconosciuto che da un’osservazione ulteriore, di cui diveniamo oggetto.

Ma allora il campo non risulta che dalla tensione fra osservazioni reciproche, che senza tregua si incassano a vicenda e proprio per questo, se è vero – come consiglia De Certeau – che bisogna imparare a «fare dell’analisi una variante del suo oggetto», la sua definizione dovrà esprimere quella stessa molteplicità “che assume la vita sociale quando si conversa intorno ai fuochi del villaggio».14

Tale definizione, tuttavia, non dovrà arenarsi e risolversi in quei soli e particolari fuochi, esaurendo con essi la propria validità. Occorre chiudere, dunque, con un certo piglio contemporaneista, che in nome di un relativismo da quattro soldi individui in quel che si vive tutto ciò che resta da dire (1). Né, per altro, ci si può accontentare di quel che spesso gli viene contrapposto, e cioè una ricerca che guardi quel che si vive come ciò a cui aggiungere una teoria generale (2). Facendoci largo fra queste due opzioni, si tratta piuttosto di assumere quel che si vive come ciò di cui resta da dire tutto (3), superando così la sterile alternativa fra una ricerca sul campo che non si curi della parte teorica e una ricerca sul campo cui faccia seguito una teoria di cose più grandi del campo.15 Rifiutare questo schema, infatti, ci permette di affermare i diritti e la necessità di una teoria del campo in quanto campo, sottraendo l’episodio (che il campo sempre è) alle sue evidenze e facendo una teoria generale delle sue condizioni di possibilità.

Secondo questa teoria ambiziosa e un po’ paradossale, che generalizza le condizioni di costitutiva episodicità del senso, proporrei dunque di considerare campo qualunque plesso di forze la cui covariazione stabilizzi la tenuta di un certo insieme significante, al quale sia integrata l’istanza della sua attestazione.

Secondo tale definizione, l’attestazione operata dall’osservatore “produce” sì un testo – nei cui termini oggettivare quel che osserviamo – ma al contempo non se ne esclude, manipolando le cose (1) senza rinunciare ad abitarle (2) e consentendo così alla prospettiva scientifica di federare i corni dell’alternativa (1 oppure 2) alla quale, non senza ragioni, era stata inchiodata dall’ultimo Merleau-Ponty[xvi].

Il testo è cioè la messa in forma del nostro osservare ma, proprio come questo osservare, non è mai già dato. Occorre, semmai, presumerlo, presentirlo, scommettendo cioè su una possibile messa in forma dell’osservare in cui siamo impegnati, per poi valutare – dentro la rete di osservazioni incrociate in cui siamo irrimediabilmente presi – se la scommessa ha funzionato.

Quel testo “regge”? Dice qualcosa di più su quello di cui abbiamo presunto che potesse essere (e fare) testo? La scommessa è ardita, necessariamente visionaria ed esposta a clamorosi fallimenti, ma è anche inevitabile. Lo sa bene, in fondo, chi fa etnosemiotica, disciplina che radica la razionalità differenziale della semiotica nel problema del campo e della sua insorgenza, facendoci vedere come il testo, che alla fine opera sempre come possibilità di lettura, intervenga – fin dall’inizio – come lettura della sua possibilità.

 

Non si esce, insomma, dal carattere presuntivo della testualità, in cui si manifesta e al tempo stesso si affronta il problema del campo, inteso – secondo l’ultima definizione che qui propongo – come concatenamento ricorsivo e reversibile di attestazioni. Prospettiva dell’osservatore che prende in carico la prospettiva dell’osservato, certo, ma anche prospettiva dell’osservato sull’osservatore, che si trova tracciato dal testo che ha presunto (e proprio per il fatto d’averlo presunto), integrandosi al senso come termine ulteriore delle funzioni semiotiche individuate per renderne conto.

Non v’è chi possa diventare semiotico davanti al senso, né tantomeno chi possa aggiungere a questo la pretesa di fronteggiare se stesso nell’atto di fare semiotica. Si diventa semiotici, piuttosto, nel senso, partecipandovi come sue varianti, e tutto quello che si riuscirà a oggettivare, compresa l’oggettivazione delle proprie oggettivazioni, sarà sempre installato in questa partecipazione fondamentale.

La ricerca ha ancora bisogno di creatività, ma deve darne prova senza pretendere la titolarità delle proprie prerogative, quasi senza possedersi e annettendosi, anzi, ai problemi di cui tratta. Del resto, in questo “paesaggio” del senso, che poco si vede e molto si vive,16 lo stile con cui ci arrangeremo farà – ogni volta – tutta la differenza.

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Note

  1. L’occasione fu una conferenza tenuta all’università “Lumière” di Lione nel 1995. Il testo è stato pubblicato in P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, Armando Editore, Roma 2012)
  2. Cfr. M. Desmond, “Relational Ethnography”, in Theory and Society 43: 547–579, 2014.
  3. Cfr. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2010)
  4. Per una definizione semiotica di testo cfr. A. Greimas et J. Courtes, Semiotica: dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007); per una disamina del rapporto fra testualità e paradigma costruttivista cfr. Gianfranco Marrone, L’invenzione del testo, Laterza, Roma-Bari 2010; per le ragioni e le metodiche testualiste della ricerca etnosemiotica cfr. Francesco Marsciani, Tracciati di Etnosemiotica, Franco Angeli, Milano 2007.
  5. Cfr. E. Lucatti, Si fa presto a dire testo, www.ocula.it, 2015.
  6. G. E. Marcus, Ethnography in/of the world system: the emergence of multi-sited ethnography, «Annual review of Anthropology», n.24, pp.95-117.
  7. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 2008)
  8. A. Gupta, J. Ferguson (a cura di), Anthropological Locations. Boundaries and Grounds of a Field Science, University of California Press, Los Angeles 1997.
  9. B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, G. Routledge & Sons, London 1922 (trad. it. Argonauti del Pacifico Occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 2011)
  10. M. Merleau-Ponty,  Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 238).
  11. M Ceruti, La fine dell’onniscienza. Epistemologie della complessità, Studium, Roma 2014.
  12. L’argomento, cui sono incardinati i nessi tra semiotica e fenomenologia, è ampiamente trattato in Francesco Marsciani, Ricerche Semiotiche 1: il tema trascendentale, Esculapio, Bologna 2012; cfr. anche AA.VV. Corpo, linguaggio e senso. Tra semiotica e filosofia, Esculapio, Bologna 2016 (recensito per il lavoro culturale da Giuseppe Mazzarino e per Ocula da Francesco Galofaro).
  13. La percezione come articolazione di un rapporto d’inerenza alle cose è al centro degli studi sulla percezione in M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003; sul tema dell’inerenza, cfr. anche F. Marsciani, À propos de quelques questions inactuelles en théorie de la signification, «Actes Semiotiques» n. 117, 2014.
  14. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit. p. 3.
  15. Cfr. F. Remotti, Per un’antropologia inattuale, Elèuthera, Milano 2014; sull’argomento, ma da prospettiva molto diversa, cfr. anche  AA.VV., Ontology is just another word for culture, Critique of Anthropology, Sage, 2010.
  16. Cfr. F. Jullien, Vivre de paysage ou L’impensé de la Raison, Gallimard, Paris 2014.
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