“Difendere la Terra di Mezzo”. Intervista a Wu Ming 4

In occasione dell’incontro “L’eroe epico tra medioevo e modernità”, svoltosi all’interno della mobilitazione studentesca contro la chiusura della Biblioteca di Fieravecchia (Siena), Salvatore Marco Ponzio ha intervistato Wu Ming 4 a proposito del suo saggio “Difendere la terra di Mezzo. Scritti su J. R. R. Tolkien” (Odoya, 2013).

 

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Salvatore Marco Ponzio: Come prima cosa vorrei partire dal titolo che hai scelto di dare al libro: Difendere la Terra di Mezzo. Leggendo il saggio appare subito chiaro che quella che proponi è una vera e propria “difesa”del messaggio letterario tolkieniano contro quanti lo hanno strumentalmente interpretato a partire da una prospettiva ideologicamente connotata. In particolare, ti schieri apertamente contro la critica made in Italy che in questi anni ha proposto una lettura tradizionalista dell’opera tolkieniana, provando così a ricondurre lo scrittore inglese al pantheon ideologico di quella che Jesi definiva come “cultura di destra”. Nonostante ciò, nel libro hai anche avuto l’onestà intellettuale di ricordare come, soprattutto sul piano personale, lo stesso Tolkien a volte avesse espresso opinioni politiche che sarebbe complicato non definire di “destra”. In base a queste considerazioni allora ti chiedo: secondo te, esiste nel caso di Tolkien una contraddizione tra dato biografico e messaggio letterario? E, se è possibile, in che termini si può ricomporre quella che a prima vista potrebbe sembrare un’evidente incoerenza?

Wu Min 4: Ogni essere umano convive con molte contraddizioni. Gli scrittori non fanno eccezione. Ad esempio sappiamo che Tolkien tenne per i franchisti durante la Guerra Civile spagnola, in quanto difensori del cattolicesimo contro gli atei “rossi”. Questo non significa che ammirasse Franco o auspicasse un regime fascista, ma che – da cattolico osservante, che tra l’altro viveva in un paese dove la sua confessione era minoritaria – pensava che Franco fosse un male minore rispetto a Stalin. Se però leggiamo le sue storie e le sue riflessioni sull’eroismo, ci rendiamo conto che qualcosa come il grido dei miliziani franchisti “Viva la muerte!” (gridato perfino in chiesa) lo avrebbe lasciato, proprio da cattolico, parecchio perplesso, per non dire disgustato. Più in generale si può citare la riflessione di Tolkien sulla teoria dell’eroismo nordico. Fascinazione e critica all’antico modello guerriero convivono nella sua opera, rappresentano un problema poetico, e l’una non sarebbe possibile senza l’altra.

Allo stesso modo è difficile dire con nettezza se la poetica tolkieniana sia conservatrice o progressista. In realtà non è nessuna delle due cose, come lui stesso ammette in una lettera alla scrittrice socialista Naomi Mitchison del 1954: «Io non sono un riformatore e nemmeno un “imbalsamatore”! Non sono un “riformatore” (attraverso l’esercizio del potere) dato che sembra si sia destinati a finire nel Sarumanismo. Ma anche “imbalsamare” ha le sue pene». Nella stessa lettera, Tolkien spiega che gli Elfi sono un esempio dei suddetti “imbalsamatori”, quelli che vivono con lo sguardo rivolto all’indietro, cercando di conservare il mondo dalla caducità e dal divenire.

Un ulteriore esempio potrebbe essere la sua idea dell’amore e del matrimonio. Un cattolico pre-conciliare come Tolkien era avverso all’idea del divorzio. L’argomentazione con cui però cercava di motivare le proprie convinzioni personali non era dogmatica, bensì, ancora una volta, problematica. In una lettera del 1941 critica l’amore cortese dei poeti medievali perché celebra un’immagine della donna irrealistica, angelicata, una “stella-guida”, anziché una “compagna nelle avversità della vita”. Questa è una visione dei rapporti di coppia che possiamo definire conservatrice, basata sulla centralità della coppia e del matrimonio, e tuttavia ci pone un problema che non è affatto scontato o “di destra”. Quanto conservatorismo e narcisismo si celano nell’inseguimento dell’idealtipo di donna? Quanto è profondamente infantile e maschilista la pretesa che la donna corrisponda al nostro ideale romantico passionale? Quanto una pretesa del genere condanna gli uomini innamorati alla frustrazione e alla delusione per ogni storia d’amore? Anche in questo caso vediamo come Tolkien fosse capace di attingere dalla materia letteraria medievale per riferirla al presente, all’esistenza degli uomini e delle donne moderne. Nelle sue storie compaiono grandi dame, alcune delle quali sono senz’altro stelle-guida per alcuni personaggi maschili. Altri invece amano donne più semplici, concrete, e magari trovano in loro delle compagne di vita. In certi casi le unioni che ci racconta si rivelano decisamente sbagliate e irrecuperabili perché nessuno dei due amanti è disposto a mediare rispetto all’ideale d’amore che coltiva. Ecco, anche quando lavorava con i modelli della letteratura a lui cara, Tolkien non dimenticava mai di mostrare anche altro, di introdurre elementi di contraddizione.

Da questo punto di vista diventa del tutto secondario il fatto che la sua riflessione muova da un’istanza conservatrice, perché è piuttosto il modo di declinarla narrativamente che desta interesse e risulta efficace.

Salvatore: A proposito della materia di studio del Tolkien filologo e germanista ricordi giustamente come la letteratura di cui si occupava quotidianamente fosse una «letteratura basata sulla co-autorialità, prodotta tramite il passaggio del testimone nel corso del tempo e per ricombinazione da parte del singolo poeta» (p. 84). Proprio a partire dai suoi interessi professionali, arrivi così ad ipotizzare che la stessa prospettiva autoriale adottata dal Tolkien narratore sia per certi versi affine a quella dei poemi anonimi che amava studiare da filologo. Tenendo in considerazione queste riflessioni, volevo chiederti allora in che misura ha influito la conoscenza che hai di Tolkien sul tuo essere a tua volta un componente di un collettivo di scrittori che fa della de-sostanzializzazione programmatica del soggetto autoriale un aspetto centrale della propria produzione letteraria.

WM4: Non credo che l’influenza sia diretta. Nel nostro percorso di scrittori che cercano di smontare il discorso sull’autorialità, ovvero di affermare uno stile e un’idea diversa di autore, ci siamo spesso riferiti alle forme narrative pre-moderne, cioè quelle orali. Aedi, bardi, trovatori, cantastorie… sono figure che abbiamo sempre sentito più affini rispetto a quella dell’autore-oggetto-di-culto affermatasi in epoca moderna. Ciò che ipotizzo nel mio libro è che Tolkien provasse lo stesso senso di affinità.

Desumo questo da due elementi. Da un lato dal fastidio che Tolkien provava per il biografismo, cioè l’interesse morboso nei confronti della vita dell’autore, che secondo lui distoglieva l’attenzione dall’opera; dall’altro lato dalla sua idea di una costruzione narrativa aperta ai contributi di “altre mani e altre menti”, per usare le sue stesse parole. Non è stata la poetica di Tolkien a influenzare quella di Wu Ming, bensì, casomai, si tratta di una riflessione analoga sulla figura dell’autore, che ha spinto un lettore di Tolkien come me a riprendere in mano i suoi testi con occhi nuovi.

S. M. P.: Altro aspetto direttamente collegato alla concezione dell’autorialità sviluppata da Tolkien è poi il rapporto tra narrazione mitica e linguaggio. Come opportunamente fai notare nel tuo saggio, per Tolkien mito e linguaggio erano inestricabilmente e circolarmente congiunti l’uno all’altro. Detto altrimenti, Tolkien credeva che la sub-creazione narrativa di Mondi Secondari si dovesse imporre alla penna dello scrittore direttamente a partire dai costrutti linguistici preesistenti. In questo senso, si potrebbe addirittura rilevare una vicinanza tra Tolkien e alcune posizioni di Wittgenstein nella misura in cui, anche il filosofo austriaco riteneva che immaginare un linguaggio significasse «immaginare una forma di vita» (Ricerche Filosofiche § 19). A questo proposito, volevo chiederti quanto sei d’accordo con questo accostamento e, secondariamente, in che misura è possibile riscontrare dei punti di contatto tra la concezione tolkieniana del linguaggio e quella esposta nelle Ricerche Filosofiche?

 WM4: Più di una volta mi sono trovato a pormi la stessa domanda, ma non essendo uno studioso di Wittgenstein, finora mi sono tenuto la curiosità. Il mio presentimento è che se mai può esserci qualche affinità, anche in questo caso, sia casuale e indiretta, tutt’al più figlia della temperie culturale.

Tolkien fornisce pochi indizi circa l’origine della sua concezione del linguaggio. Uno di questi porta direttamente alla teoria di Owen Barfield espressa in Poetic Diction, un testo del 1928, quindi assai precedente la pubblicazione delle Ricerche. In quelle pagine Barfield sostiene che il linguaggio è lo strumento primario della conoscenza umana, uno strumento creativo, attraverso il quale l’umanità forgia la propria coscienza di sé e del mondo. Secondo Barfield il linguaggio muove da un’unità semantica originaria – il linguaggio del mito – e via via procede per diramazioni, diventando sempre più specifico con l’articolarsi della conoscenza nel corso del tempo. Questa idea è evocata anche nel romanzo di Tolkien del 1937 Lo Hobbit (nel capitolo 12) ed è Tolkien stesso a suggerirci che quelle righe rappresentano una pulce nell’orecchio per i lettori più accorti. Qualcuno ha provato a sostenere che siccome Barfield era un membro della Società Antroposofica, la sua teoria del linguaggio avesse una derivazione steineriana, ma si tratta di un equivoco evidente. Pur essendo stato pubblicato nel 1928, Poetic Diction è la rielaborazione della tesi di bacellierato di Barfield all’università di Oxford, risalente ai suoi studi accademici, che furono precedenti all’incontro con Rudolph Steiner (è Barfield stesso a precisarlo nell’introduzione del saggio).

L’altro debito dichiarato, ancorché non specificatamente teorico-linguistico, è quello nei confronti di William Morris, e qui risaliamo addirittura al secolo precedente. C’è in effetti almeno un’affermazione di Morris che ha un’eco vagamente wittgensteiniana ante litteram: «Mi ci sono voluti anni per capire che le parole sono importanti quanto l’esperienza, perché in definitiva sono le parole a fare l’esperienza». Credo che Tolkien avrebbe potuto sottoscriverla. I racconti, le poesie, i canti, nella Terra di Mezzo hanno effetti performativi. Inoltre i popoli della Terra di Mezzo si identificano a partire dal loro linguaggio, lo strumento con cui raccontano la propria storia e se stessi. Per Tolkien mito e storia, conoscenza e azione, si tengono vicendevolmente, in maniera dinamica. Questa è la chiave della sua idea di mitopoiesi, espressa tanto attraverso la narrativa, quanto attraverso la poesia e la saggistica.

Nel mio romanzo Stella del Mattino (Einaudi, 2008) immaginavo un incontro tra Tolkien e T.E. Lawrence a Oxford, nel 1919-20. Sarebbe interessante provare e immaginare quello tra Tolkien e Wittgenstein… magari a Dublino alla fine degli anni Quaranta, quando uno ha appena finito di scrivere le Ricerche Filosofiche e l’altro Il Signore degli Anelli.

S. M. P.: Il tuo lavoro ha il grande pregio di aver descritto lucidamente alcuni dei caratteri della produzione letteraria di Tolkien; caratteri che, secondo il punto di vista esposto nel saggio, fanno del filologo inglese uno scrittore compiutamente “moderno”. A mio avviso, fra i tanti aspetti da te citati quali note definitorie della modernità tolkieniana, il meno affrontato rimane forse il rapporto tra visione e potere. In questo senso, soprattutto nel Signore degli Anelli, Tolkien introduce letterariamente alcune forme di visione panottica come l’Occhio di Sauron o la “visione reticolare” garantita dall’uso incrociato dei Palantir, descrivendoli evidentemente come dispositivi di sorveglianza funzionali all’esercizio di un potere disciplinare. Alla luce di queste considerazioni vorrei chiederti allora che ruolo gioca secondo te la grammatica del vedere nell’opera tolkieniana e in che misura si connette con l’esercizio del potere da parte dei vari personaggi?

WM4: Nell’opera di Tolkien la tentazione di pre-vedere e di vedere più lontano, attraverso strumenti artificiali che potenziano la visione, è profondamente connessa alla tentazione maggiore del potere.

L’ansia di sorvegliare, di conoscere in anticipo le mosse del nemico per precorrere e mutare il corso degli eventi, è un’arma a doppio taglio. Utilizzare i Palantir infatti conduce a degli equivoci rovinosi, perché le visioni vengono fraintese: questo capita a Saruman, a Denethor e a Sauron. Perfino lo Specchio di Galadriel potrebbe causare scelte sbagliate se non ci fosse qualcuno a interpretarne le immagini, o meglio, a relativizzarle. I saggi sono coloro che sanno convivere con l’incertezza, che sanno accettare l’imprevedibilità della storia. Perché sanno che solo grazie a una certa dose di ignoranza del futuro e del contesto, si può realizzare l’irrealizzabile. Se Frodo sapesse davvero cosa lo aspetta forse non partirebbe nemmeno.

Dunque se il potere è essenzialmente paranoico, il libero arbitrio si esercita accettando la propria condizione di «piccole creature in un mondo molto vasto», per citare le parole conclusive de Lo Hobbit. Non esiste una visione davvero panottica, non esiste un piano che possa prevedere tutto, l’intrico di concause che muove le vicende umane è troppo complesso per poterlo dispiegare davanti ai nostri occhi. Né le profezie possono esserci di grande aiuto, se non nel senso che siamo noi stessi con il nostro agire particolare a inverarle, ed è soprattutto per questo che sono importanti. I costruttori di futuro sono quindi coloro che rinunciano alla paranoia panottica del potere e ai suoi strumenti.

Salvatore: A mio avviso, dalla lettura del libro emerge con tutta evidenza quella che si potrebbe definire una “esemplarità esistenziale” di alcuni dei personaggi tolkieniani. Nel capitolo conclusivo affermi addirittura che «i personaggi della Terra di Mezzo sperimentano la condizione post-moderna più di molti filosofi contemporanei» (p. 208). A questo proposito, soprattutto gli Hobbit sembrano esprimere alla perfezione una condizione liminare – quello che chiami frattempo – che ci appare come la cifra essenziale della post-modernità. Scegliendo di abbandonare il loro cosmo domestico, personaggi come Bilbo e Frodo si trovano dunque a dover fronteggiare quel sentimento di angoscia esistenziale che esperiscono dal confronto con l’Indeterminato delle Terre Selvagge. In un certo senso, si potrebbe addirittura affermare che essi vivono sulla loro pelle quel sentimento di Unsicherheit così ben descritto da Bauman nei suoi saggi sulla post-modernità. Ad ogni modo, mentre il distacco dalla Contea dei due piccoli Hobbit rimane comunque il frutto di una libera scelta, il cosiddetto “cittadino globale” viene suo malgrado risucchiato dall’Indeterminato della società finanzcapitalistica e globalizzata, non riuscendo quasi mai a disporre autonomamente del suo futuro. Come ultima cosa ti chiederei allora se, anche dal tuo punto di vista esiste uno scarto ineliminabile tra ‘Noi’ e gli Hobbit? E, se è così, in che misura è possibile riconoscere per il lettore di oggi la sua condizione di uomo post-moderno in quella incarnata dai personaggi della Terra di Mezzo?

WM4: Quale scelta può dirsi veramente libera? L’esercizio del libero arbitrio, tema cruciale nell’opera di Tolkien, è piuttosto un orizzonte a cui tendere, un’aspirazione, un valore da cercare e salvaguardare.

Certamente nessuno forza Bilbo a lasciare Casa Baggins per andare in cerca di avventure con una compagnia di nani squinternati. Ma sappiamo che dentro di lui è sepolto un conflitto tra figura paterna e materna che forse aspettava solo la buona occasione per venire alla luce. E quanto incidono sulla sua scelta i racconti dei nani? E quelli che Gandalf gli ha fatto quando era bambino? Lo stesso possiamo dire di Frodo: la sua pulsione di partire e vedere il mondo non potrebbe essere uno dei punti su cui fa forza l’Anello per trovare un portatore che lo riconduca dal suo padrone? Dove finisce la libertà soggettiva e dove comincia il condizionamento esterno? Tolkien non è così sciocco da non problematizzare proprio questo aspetto nei suoi personaggi. Non ce n’è uno in cui questo conflitto non si eserciti con evidenza.

Detto questo, l’assonanza con certa riflessione sulla condizione post-moderna forse si può riscontrare nel fatto che la scelta etica, per i personaggi tolkieniani, è sempre una scelta solitaria e soggettiva. Il Creatore è ormai lontano dal mondo; anche le sub-divinità lo hanno lasciato; i saggi fungono tutt’al più da consiglieri, ma non danno ordini circa ciò che deve essere fatto. Gli Elfi sono ambigui, non dicono né sì né no, ci viene fatto notare nel Signore degli Anelli. Lo stesso angelo custode Gandalf sparisce o viene a mancare spesso sul più bello, quando i personaggi devono prendere decisioni determinanti. Aragorn diventa un leader solo attraverso un lungo percorso di maturazione, costellato di incertezze e scelte contraddittorie. Gli Hobbit – Bilbo, Frodo, e Sam – scelgono in solitudine la cosa giusta da fare. E non si tratta di una scelta razionale, ma al contrario, si tratta spesso della scelta più illogica e assurda. Il buon senso hobbit di cui ci parla Tolkien non è quello che si accomoda sull’idem sentire dell’uomo medio, o sulla saggezza intesa come moderazione, ma qualcosa che spinge i personaggi ad andare nella direzione opposta e perdere la propria “rispettabilità”. Coloro che compiono le scelte davvero cruciali, nelle storie di Tolkien, sono quelli che dimostrano il “valore senza gloria”, cioè che tradiscono la rappresentazione di sé socialmente condivisa.

Dunque non c’è un’autorità morale, né una visione o senso comune a cui appellarsi. Sotto questo aspetto siamo lontani dal mondo antico, medievale e moderno: siamo in piena post-modernità. Ecco spiegato il senso della mia affermazione nel saggio.

Per questo non credo che esista un grande scarto tra noi e gli Hobbit, soprattutto se prescindiamo dalle letture confessionali e facciamo invece nostre le parole di Tolkien, per il quale «gli Hobbit non sono una visione utopica, e non vengono nemmeno raccomandati come l’ideale nella loro epoca o in altre. Essi, come tutti i popoli e le loro caratteristiche, sono un accidente storico […] e anche temporaneo, alla lunga». Resta il fatto che l’assenza di riferimenti etici esterni non esime dalla scelta. In base a quale metro di misura, a quale parametro etico scegliamo? Questo è il punto.

A me pare evidente che per gli eroi di Tolkien la risposta consista nel restare affezionati (non scelgo a caso questa parola) a una visione umanistica, che è in certa misura trans-storica e collega tra loro le epoche: antichità pagana, medioevo cristiano e modernità post-cristiana. E’ l’ipotesi che gli esseri umani, e ancora più in generale gli esseri viventi, possano riconoscersi a partire dalla condizione comune, dal comune destino, e coltivare la carità. Una virtù, questa, che si afferma anche a prescindere dalla fede e con la sola “speranza senza garanzie” che Tolkien stesso attribuisce ai propri eroi.

L’alternativa è l’individualismo, il darwinismo sociale, homo homini lupus,  o piuttosto mors tua vita mea, sopraffazione dei forti sui deboli e cancellazione delle differenze, della biodiversità. In altre parole, il dominio di Sauron. Questo fu il tema dominante dell’epoca che Tolkien visse in prima persona, il pieno Novecento, le Guerre mondiali, la nascita dei cosiddetti regimi totalitari, ecc. Eppure è altrettanto attuale e declinabile in questo principio di XXI secolo, nel passaggio storico che sancisce formalmente il divorzio tra capitalismo e democrazia e che quindi, di fatto, ripropone scenari non così dissimili.

Insomma, gli eroi di Tolkien potrebbero dirci che se dopo la dissoluzione delle grandi aspirazioni moderne siamo consapevoli che il paradiso in terra non è realizzabile, sappiamo anche che l’inferno è dietro ogni angolo e va combattuto. Perché cedere alla rassegnazione, alla disperazione – come direbbe Gandalf – o al nichilismo, magari per ritirarsi nella propria privata Contea, ci condannerebbe a un’esistenza meschina e nevrotica. Perché finché Sauron minaccerà il resto della Terra di Mezzo, vivere in pace nella Contea sarà soltanto un’illusione temporanea. Nell’altro caso forse potremo essere ancora sconfitti – poiché la storia, si sa, è piuttosto parca di soddisfazioni – ma non sottomessi. E solo chi non si lascia sottomettere può tenere aperto un margine di salvezza e di felicità personale e collettiva. È questa prospettiva che ci porta a cercare ancora testardamente la via “giusta” anziché imboccare quella facile.

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