Conversazione con Gianfranco Marrone.
di Maria Cristina Addis e Stefano Jacoviello
Maria Cristina Addis: Tu hai lavorato molto sull’opera di Barthes, e hai messo più volte in luce la continuità fra l’attuale ratio semiotica e quella che lui definiva demitizzazione. Mi pare che Addio alla Natura rientri a pieno titolo in quella tradizione semiotica, riportando in primo piano l’epistemologia costruttivista che la fonda.
Gianfranco Marrone: Secondo me il termine costruttivismo potrebbe dare adito ad alcuni equivoci che è forse utile chiarire. I nostri avversari teorici spesso usano questo termine in senso dispregiativo, come dire “secondo voi tutto è socialmente costruito”, che implica l’idea di qualcosa di artificioso e in definitiva inesistente. È frequente questo tipo di ragionamento, “voi dite che è tutto socialmente costruito, mentre invece c’è la Realtà, l’Essere, l’Ontologia, la Natura e quant’altro”. Se le cose stanno così a me personalmente interessa molto poco, io non difendo affatto una visione di questo tipo. Costruttivismo nell’accezione invece che adotti tu nella domanda significa in qualche modo de-costruttivismo, non nell’accezione oramai canonizzata dal discorso di Derrida, ma nel senso che ricostruire i dispositivi semiotici, testuali e discorsivi intorno a una serie di fenomeni di senso della cultura e della società significa da un lato rilevarne le forme di funzionamento, ma dall’altro rilevarne anche il carattere costruito, e dunque ricostruibile. Da questo punto di vista, l’idea di una vocazione critica di tale opzione epistemologica mi sta più che bene, e in tal senso da un lato riprende la vecchia tradizione di Barthes dell’aspetto critico della semiotica, ma dall’altro va oltre, in quanto il problema non è solo quello di svelare l’ideologia soggiacente come faceva Barthes cinquant’anni fa, ma più semplicemente mettere in discussione il carattere non naturalistico di tutta una serie di fenomeni culturali e sociali, e quindi evitare il classico “pugno sul tavolo”, come lo definisce Latour, di chi dice “i fatti sono questi”, impedendo ogni ulteriore discussione e rivendicando una posizione di autorità epistemologica e politica.
M. C. A.: Sì, intendevo esattamente “funzione critica”, che potremmo riassumere, nell’accezione semiotica, come un lavoro di esplicitazione di ciò che viene assunto come ovvio e scontato.
G. M.: È per questo che dico spesso che il semiologo è sempre al lavoro, un semiologo di questo genere perlomeno. Di fronte a qualsiasi oggetto, situazione, condizione della vita quotidiana tenta, anche per curiosità intellettuale, di ricostruire i meccanismi che ci stanno dietro. Io inizio sempre i miei corsi universitari dicendo ai miei studenti “Guardate, noi non parleremo d’altro che del senso comune e della quotidianità”, perché le cose che sembrano più evidenti e più ovvie sono le più difficili da capire e da analizzare, perché dobbiamo come minimo avere uno “stacco” da noi stessi per poter pensare come siamo fatti e come pensiamo.
M. C. A.: Di fatto, però, è piuttosto raro che la disciplina semiotica venga legittimata come “strumento per pensare” al di fuori degli ambiti strettamente disciplinari. A parte la visibilità mediatica, pressoché assente, mi pare che il semiologo non sia particolarmente riconosciuto come interlocutore da parte delle altre scienze umane. Penso alla critica della letteratura, l’estetica, la storiografia, la critica d’arte. Immagino dipenda in parte da una sorta di resistenza verso la vocazione analitica della semiotica, come se comportasse una sorta di indebito riduzionismo della ricchezza e complessità degli oggetti e dei fenomeni che affronta. Mi chiedo però se non ci sia anche una sorta di vizio interno alla disciplina, e in particolare una rinuncia alle generalizzazioni. Penso a ciò che Paolo Fabbri rivendica ne La svolta semiotica come esigenza e allo stesso tempo assunzione di responsabilità da parte del semiologo, generalizzare e con ciò esporsi alle critiche inserendosi in un dibattito più ampio rispetto a quello strettamente metodologico. La panoplia di micro-analisi che affollano la letteratura semiotica – penso all’enorme mole di lavori sui testi pubblicitari e i prodotti di consumo – per quanto dense e precise faticano, mi pare, a costituirsi in un discorso unitario sul sociale e sul contemporaneo.
G. M.: Io non opporrei i grandi temi ai piccoli oggetti. Il problema non sono i temi, per me il punto non è parlare della Natura piuttosto che di uno spazzolino da denti. Personalmente ritengo che gli spazzolini da denti, il packaging dei biscottini o gli occhiali siano oggetti che hanno tutti in linea di principio la stessa potenzialità critica. Il problema non è decidere di lavorare sulla classe operaia piuttosto che sullo spazzolino. Nel mio libro dedico molto spazio all’analisi del packaging di una linea di biscotti, tentando di far emergere un discorso molto più generale. Anzi, molto spesso una delle critiche che ci vengono fatte è quella di occuparci di spazzolini da denti piuttosto che di come va il mondo. Non è detto. Molto spesso lavorando sui piccoli oggetti – e questo non lo dico io, lo dicevano i nostri maestri – si possono capire configurazioni culturali molto più ampie e complesse.
M. C. A.: Mi pare unanimemente condiviso che la specificità e la forza dell’approccio semiotico risiedano nel partire dai testi piuttosto che da presunti Universali. Mi chiedo però se non sia venuto a mancare a un certo punto un atteggiamento critico, o per lo meno l’emergere di posizioni abbastanza forti e coerenti da venire riconosciute al di fuori dei confini disciplinari.
G. M.: Per quanto riguarda l’atteggiamento critico, vorrei dire una cosa forse banale ma rilevante: il problema non è soltanto della semiotica. Mi sembra abbastanza evidente che viviamo, sicuramente nel nostro paese ma probabilmente non solo, in un periodo storico-culturale in cui si fa di tutto per mettere a tacere queste cose e sono molto poche le persone che ne sentono l’esigenza. Per la semiotica questo non è affatto consolatorio, ma dipende appunto da un problema molto più generale. Detto questo, per quanto riguarda in particolare la nostra disciplina è chiaro che le responsabilità sono da entrambe le parti. Da un lato sicuramente la semiotica si è sempre più chiusa nei propri gerghi, nelle proprie conventicole, guardando sempre più solo a se stessa e non solo non dialogando più con gli altri ma disinteressandosi a questo dialogo, e quindi inibendosi la possibilità, come diceva Floch, di “mordere sul reale”, e quindi in qualche modo di capirlo e forse di trasformarlo. Dall’altro però è vero anche quello che dicevi tu all’inizio, sicuramente è sempre esistito nei confronti della semiotica – accadeva all’inizio con la letteratura, poi è successo con i media, con l’arte e quant’altro – un certo fastidio. Il semiologo è sempre stato visto, e forse a ragione, come qualcuno che va a rovistare nell’armadio segreto. Lo scrittore che si innervosisce moltissimo quando qualcuno analizza la sua opera è un grande classico, è capitato anche a me. Ci sono di certo delle corporazioni con un’ipersensibilità negativa nei confronti della semiotica. Penso per esempio ai giornalisti. I giornalisti sono un gruppo di persone che parlano moltissimo, si parlano moltissimo, parlano soprattutto di se stessi, ma non tollerano che qualcuno parli di loro. Quando molti anni fa mi occupavo di giornalismo, mi ricordo che mi consideravano il nemico. Io cercavo di far capire loro che il punto non era, come dicevo prima, svelare chissà quali segreti, ma ricostruire determinati dispositivi di discorso, e il fatto che loro non ne fossero consapevoli, non significava che non fosse vero, ma più semplicemente che determinate pratiche, da quelle linguistiche, giornalistiche, o quotidiane, sono irriflesse. Ho parlato dei giornalisti ma potrei parlare degli artisti, o dei pubblicitari, dei creativi in generale.
Stefano Jacoviello: Un’accusa che ci viene mossa da più parti è che non abbiamo un metodo per selezionare gli argomenti e gli oggetti di cui ci occupiamo.
G. M.: Credo sia una questione di sensibilità, nel senso che molti di noi spesso preferiscono guardarsi l’ombelico che non sforzarsi di capire qual è l’agenda dei temi che possono essere sensibili, rilevanti in un determinato periodo piuttosto che in un altro.
M. C. A.: Torniamo ai contenuti del libro. L’anti-naturalismo che proponi mi pare particolarmente urgente in un’epoca come la nostra, in cui l’appello alla Natura si fa sempre più aggressivo all’interno dei discorsi politici e mediatici. Penso alla polemica sui D.I.C.O. di qualche anno fa: durante una puntata particolarmente inquietante del TG2 il ritrovamento di due fossili, un uomo e una donna, morti assiderati abbracciati l’un l’altro, veniva avanzato come prova “scientifica” dell’esistenza dalla notte dei tempi della famiglia naturale. Evidentemente si tratta di un ragionamento triviale, ma credo che il distacco intellettuale, in questo momento, sia irresponsabile e deleterio. Forse è ora di risporcarsi le mani con la cultura di massa senza per questo avvallarne l’ideologia soggiacente e i rapporti di potere che si celano proprio sotto un proliferare di naturalismi. Anche perché si intravede un’esigenza di partecipazione – penso ai risultati del recente referendum, o ai vari movimenti No Tav – che tra l’altro chiama in causa un’idea di Natura che non è quella dell’Auctoritas nemico numero uno del tuo libro, ma riguarda una coscienza profonda che l’ambiente è una forma di contrattazione dell’identità, di difesa di determinate forme dell’esperienza e di consuetudini sociali.
G. M.: È la direzione che auspico e su cui lavoro, quindi se altri fanno lo stesso non posso che essere felice. È altrettanto evidente, sono d’accordo, che in questi ultimi mesi in Italia e non solo si assista a un risveglio. Però sono un po’ preoccupato. Gli effetti di entusiasmo portano al terrore, come è successo in casi ben celebri della storia. Non vorrei che questa specie di liberazione – che comunque non c’è ancora stata, ma se dovesse esserci – nei confronti di un ventennio di politica di un certo tipo porti a un ribaltamento che poi sostanzialmente sia la replica dello stesso stato di cose, cioè la rinuncia al pensiero critico, al pensiero riflessivo. Come dire, “il nostro obbiettivo è mandare via Berlusconi a qualunque costo”. No, io voglio sapere quali sono i costi, voglio sapere cosa comporta e quanto spazio mi si lascia per pensare. Anche perché dall’altro lato vedo la rinascita di fanatismi altrettanto preoccupanti.
S. J.: La semiotica viene accusata da un lato di essere stata una moda culturale, e in quanto tale di essere fallita. Tu scrivi e pubblichi per case editrici importanti, come Einaudi, sei conduttore di una serie di progetti di ricerca che spaziano in diversi campi, che cosa significa oggi per un semiologo scrivere un pamphlet e quali sono secondo te le conseguenze?
G. M.: Ti ringrazio per la domanda, perché mi consente di fare un’osservazione semplice. A mio modestissimo modo di vedere i semiologi potranno avere tutti i difetti del mondo, però su una cosa vorrei non transigere: la loro intelligenza rispetto ai testi. Il che non significa semplicemente saperli capire, analizzare e interpretare, ma saperli anche fare. Quello che a volte mi rattrista è che i semiologi non sono in grado di cambiare genere testuale, di scrivere oggi un saggio e domani un articolo di giornale. Non per incompetenza, ma perché non si pongono neanche il problema che possa esistere una molteplicità di tipi di testo, per una molteplicità di tipi di pubblico e quant’altro. Questa è una cosa che mi irrita profondamente, così come mi irritano atteggiamenti accademici fra le giovani generazioni di grande chiusura intellettualistica e rifiuto di qualunque altro tipo di intervento come se fosse una sorta di vendita dell’anima al diavolo.
S. J.: I semiologi sono stati dei grandi operatori culturali negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Poi è passata la fortuna politica e sociale e sono stati sostituiti da altre figure. Pensi che oggi il semiologo grazie ai suoi strumenti possa essere non più, o meglio non solo, operatore culturale, ma anche operatore intellettuale?
G. M.: Spiegati meglio.
S. J.: Nel momento in cui tu riesci a costruire una teoria sul senso di grandi categorie culturali a partire da un oggetto quotidiano come un pacco di biscotti [uno dei capitoli del libro è dedicato all’analisi del packaging di una linea di biscotti bio, N.d.R.] stai forse uscendo dall’ottica in cui si contribuisce alla riflessione solo attraverso giornali, programmi televisivi, grandi festival, grandi mostre…
G. M.: Probabilmente l’andazzo è cambiato, ora sono i filosofi che svolgono questo tipo di funzione. Io francamente non porrei il problema in questi termini, in linea di principio non considero l’operatore culturale una figura negativa. Certo, ci sono dei processi che tendono a rendere caricaturale questa figura, e se tutto dovesse ridursi all’organizzazione di festival sarebbe effettivamente svilente, ma credo che l’obbiettivo strategico della semiotica vada ben oltre.