Il ddl Cirinnà e la natura del diritto

Il ddl Cirinnà in discussione al parlamento rischia di naufragare come le proposte di legge che l’hanno preceduto nel tentativo di regolamentare la materia delle unioni di fatto, tanto tra persone di sesso diverso quanto tra persone dello stesso sesso.

Tra stepchild adoption, utero in affitto, riconoscimento dei diritti patrimoniali individuali senza mettere in discussione lo statuto del matrimonio tradizionale (eterosessuale), atteggiamenti ambigui all’interno dei vari schieramenti politici e la solita strategia gesuitica delle gerarchie ecclesiastiche (rivendicare la non ingerenza negli affari dello stato, insieme alla volontà di non contestare i diritti delle persone, e però dare alla fine l’appoggio al Family Day) stanno annodando progressivamente il percorso già impervio di questo disegno di legge.

Mi auguro di sbagliarmi, ma ho l’impressione che la vita del disegno di legge in discussione stia seguendo le fasi di un copione già sperimentato: entusiasmo iniziale, grande apertura laica e riformista, perfino eccessiva se commisurata con le precedenti chiusure; poi stasi, segnali di malumore, palude, secca, fine ingloriosa dell’impresa. Mi auguro di sbagliarmi per la credibilità dell’onorevole Cirinnà, che potrebbe invece riuscire laddove sue illustri predecessore hanno fallito. Me lo auguro per il Partito democratico, che darebbe un timido segnale di autentico riformismo dalla parte dei cittadini. Me lo auguro soprattutto per le donne e gli uomini che attendono di vedere riconosciuti i loro diritti.

Vorrei lasciare da parte la questione dell’utero in affitto. Si tratta effettivamente di una questione, che solleva questioni di bioetica (e di etica tout court) importanti. Nel caso di una prestazione gratuita, non dunque un “affitto” vero e proprio, come dobbiamo considerare la gestante? Partecipa in qualche misura ai diritti e ai doveri della genitorialità? O la sua funzione si esaurisce con il parto? E nel caso di una prestazione retribuita possiamo affermare che senza ombra di dubbio non si tratta di uno sfruttamento del corpo femminile, preso in una delle sue dimensioni più intime? Il paradosso è che siamo arrivati a toccare questa punta avanzata della questione quando nel nostro paese non sono tutelate nemmeno forme di amore ovvie e assai meno controverse: anzi da un punto di vista laico niente affatto controverse, in quanto investono le scelte esistenziali di individui adulti e consenzienti.

C’è però un punto, emerso in questi anni di dibattito pubblico, spesso condotto in cattiva coscienza. Esso riguarda la concezione giuridica e, in senso lato civile, condivisa in Italia sul matrimonio e in generale sulle relazioni d’amore che danno vita a convivenze e nuclei familiari. La Costituzione repubblicana, all’articolo 29, recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Su questa frase si sono basati per anni gli argomenti contro la legittimità delle rivendicazioni di chi vuole il riconoscimento delle coppie di fatto, anche omosessuali. L’argomento è fondato sull’idea che il riferimento alla famiglia come “società naturale” sia un riconoscimento dell’esistenza di un ordine etico prestabilito: una cornice metafisica da cui la legge positiva non può prescindere.

Non sono un giurista, ma credo che non sia materia per una semplice speculazione filosofica, semmai per un serio confronto sulla teoria del diritto, affermare che il richiamo alla dimensione “naturale” della famiglia nulla abbia a che fare con il riconoscimento di una norma pregiuridica, la quale dovrebbe indirizzare, se non addirittura informare a sé, la norma giuridica. Credo che il discorso giuridico non possa per ragioni strutturali fare riferimento a fonti normative extra-giuridiche. Senza entrare nella spinosa questione del “potere costituente” richiesto dal diritto, è contraria all’idea stessa di un sistema autonomo di regole, quale è la legge dello Stato, la dipendenza da una logica normativa diversa dalla sua.

A cosa si riferisce allora la Costituzione italiana quando definisce “società naturale” la famiglia? Ritengo che tale riferimento riguardi il riconoscimento di realtà organizzate (“società” le chiama) che esistono indipendentemente dalla vigenza di leggi dello stato, ma che tali leggi avanzano l’esigenza di regolamentare. Un contratto – si badi che il matrimonio per il codice civile italiano è in senso lato un negozio giuridico, non un contratto – che regoli i diritti e gli obblighi contratti dal venditore e dall’acquirente di un bene (o dal prestatore e dal beneficiario di una prestazione) esiste solo in virtù del diritto: prima dell’esistenza di norme che lo regolino, lo scambio ha carattere informale, non tutelato dal diritto. La famiglia ha uno statuto diverso: la legge interviene a regolare una realtà sociale già costituita.

Vediamo che “naturale” nell’uso del linguaggio giuridico non significa l’esistenza di un ordine normativo metafisico prestabilito. Esso significa che il diritto avanza l’esigenza di guardare alla società colta nel suo vivo e libero sviluppo, avendo la pretesa di saperne cogliere le articolazioni e i mutamenti. In una visione conservatrice la legge si erge a demarcatore tra ciò che è meritevole di essere normato e ciò che avviene di fatto nella società senza poter sperare nella positiva sanzione della norma giuridica. In una visione progressiva, però, la norma giuridica dovrebbe porsi in funzione esplorativa, euristica, contemplando la possibilità di modificare le regole del diritto alla luce dei mutamenti intervenuti nella società. La natura evocata dalla Costituzione non è quella di una creazione divina che ci fece uomo e donna, assegnandoci alla sola possibilità di un’unione matrimoniale eterosessuale.

È la natura dell’uomo, così come essa risulta mediata dalle relazioni sociali e dalla cultura che esse producono e stabiliscono come valori correnti, non necessariamente condivisi da tutti. È anzi una cautela del testo costituzionale il fatto di non demandare alla “volontà popolare” l’affermazione nella legge dei valori giuridicamente ammissibili per quanto riguarda un aspetto così intimo come le proprie scelte affettive ed esistenziali. La volontà popolare è, infatti, inevitabilmente la decisione di una maggioranza. L’articolo 29 vuole al contrario tutelare un ampio ventaglio di scelte ammesse in senso alla società e alla cultura, alcune delle quali possono riguardare una minoranza.

Il dibattito pubblico dovrebbe recuperare la nozione di “stato di natura” dandole un nuovo senso originale, capace di restituire allo strumento del diritto la sua valenza euristica. I diritti fondamentali (“naturali”) dell’uomo – che nella Dichiarazione redatta dai rivoluzionari francesi “nasce libero” – non sono un elenco di privilegi iscritti in una natura metafisica e stabiliti una volta per tutte. Con la legge Le Chapelier del 1791 il nuovo ordine rivoluzionario in Francia proibì l’associazionismo operaio in nome di una concezione individualista dei diritti dell’uomo. Chi penserebbe oggi di sposare una simile posizione? È il segno che la “natura” in una visione moderna del diritto non è mai l’indice di una struttura fissa dell’uomo e della società. Lo stato di natura è una dimensione sociale e culturale della vita umana che accompagna la dimensione giuridica, istituendo con essa un dialogo e un confronto dialettico costante. Su questa linea dovremmo distinguere la questione del matrimonio omosessuale da quella del riconoscimento delle coppie di fatto. Quest’ultima riguarda, almeno in parte, la richiesta di uno strumento giuridico più flessibile (e più debole) come garanzia dei rapporti all’interno della coppia: si tratta di una battaglia, se vogliamo, più interna a una “ottimizzazione” del diritto di famiglia. La prima questione riguarda invece l’avvenuto mutamento di valori all’interno della società e della cultura. Ma una simile impostazione del problema troverebbe asilo in un dibattito pubblico più maturo e avanzato di quello italiano.

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