“Italia Revolution” di Christian Caliandro

Perché una rivoluzione o è una rivoluzione culturale oppure non è. Il libro di Caliandro Italian Revolution è un’indagine sulle cause che hanno portato alla necessità di una rivoluzione culturale in Italia

Italia Revolution. Rinascere con la cultura di Christian Caliandro è una boccata d’ossigeno e una sberla in faccia (non necessariamente in quest’ordine). Una boccata d’ossigeno perché l’impietosa e lucida indagine compiuta da Caliandro sullo sfacelo in cui versa il nostro paese e sulle modalità attraverso le quali si è realizzato nel corso degli ultimi trent’anni, lungi dall’essere l’ennesima geremiade in nome dei bei tempi andati, è invece il punto di partenza per un appello alla lotta, con le armi della cultura, rivolto in particolare a quelle generazioni tra i venti e i quarantacinque anni che sono state sprofondate dalle precedenti in una «paralizzante condizione di “umiliazione collettiva”» (p. 100). Ed è per lo stesso motivo che Italia Revolution è una sberla in faccia, alle une e alle altre. Alle generazioni di giovani – e non più giovani – precari, sovente disillusi e spesso lamentosi, a cui Caliandro non concede assoluzioni ogni qualvolta facciano del messaggio «siamo precari, non contiamo niente, ci hanno fregato il futuro, ecc.», buono «al massimo come presa di coscienza iniziale», un’occasione di «autocommiserazione», una forma di «compiacimento di questa condizione marginale assurta a programma di vita […], un guscio in cui rintanarsi e nascondersi, e in cui si annidano spesso e volentieri un narcisismo francamente insopportabile» (pp. 100-101). Ma è una sberla in faccia soprattutto alle seconde, ai nati tra il 1945 e il 1955 – con qualche ovvia eccezione sia includente che escludente –, i maggiori responsabili per Caliandro «di una catastrofe collettiva dalle conseguenze impercrutabili» (p. 95), doppiamente colpevoli per aver «impiegato le loro migliori energie negli ultimi trent’anni per costruire un imponente dispositivo di autoassoluzione, e al tempo stesso di ricatto nei confronti delle generazioni successive», non potendo «ammettere il proprio fallimento collettivo, l’aver rovinato tutto in questo modo atroce e incomprensibile» (p. 95).

La ricostruzione della storia culturale italiana delineata da Caliandro colloca a metà degli anni Settanta l’inizio della decadenza, politica e civile, del nostro paese, non perché sia questo l’apogeo di quegli Anni di piombo spesso evocati dai nostri padri (e dalle nostre madri) come il babau da cui fuggire a gambe levate, quanto perché è allora che inizia a prodursi quel processo di dissociazione, di fuga dalla realtà, di negazione e rimozione di ciò che davvero accade nel nostro paese, che gli anni Ottanta porteranno a compimento. La realtà da cui fuggire è quella prodotta dalla vittoria del neoliberismo, da quella rivoluzione “di destra” che già negli anni Settanta si è imposta sulle rovine del ’68. Una realtà frammentata, alienata e iniqua, nella quale, come emerge bene da alcuni film degli anni Ottanta analizzati da Caliandro (due titoli per tutti: Yuppies e Italian Fast Food, entrambi del 1986), gli ideali di eguaglianza, solidarietà e impegno civile che avevano caratterizzato il secondo dopoguerra e di cui la cultura si era fatta portatrice e produttrice vengono divorati da un rampantismo che, oltretutto, «di rampante non ha proprio nulla» poiché «presuppone la rendita, e non il costruire da sé la propria carriera» (p. 45). È una realtà che non ha nemmeno più i mezzi per comprendere se stessa, la percezione storica avendo ceduto il passo a una nostalgia che, riducendo «il passato al presente», esclude ed elimina «gli elementi “incoerenti” e disturbanti» (p. 37). Una realtà rimossa che proprio perché rimossa produce, oggi, un’aggressività sterile, un’isteria collettiva, una disperazione strisciante e inconcludente.

In questo desolante panorama – di cui l’Aquila è, per Caliandro, «al tempo stesso prefigurazione e metafora, forma di un paesaggio di spettri che è diventato il nostro paesaggio: un luogo senza più un centro né una periferia, senza storia né svolgimento temporale. Il luogo in cui si manifesta il disorientamento collettivo nella sua forma più estrema e radicale» (p. 66) –, spetta allora alla cultura il compito di riconquistare la realtà, una riconquista che «non si configura affatto come un ritorno nostalgico (e del resto impossibile: il mondo del passato, degli anni Cinquanta come degli anni Ottanta, non esiste più)», ma che è «piuttosto la fissazione, il riconoscimento di questo presente così indefinito, sfuggente, spettrale, schizoide, distopico […]. Un realismo inedito, per una realtà inedita» (p. 195). È questo realismo, e non quello degli anni Cinquanta e Sessanta, un luminoso esempio a cui dobbiamo comunque guardare, che ci insegnerà a «smontare il gigantesco dispositivo finzionale e finzionalizzante in cui viviamo oggi» (p. 195), e a compiere dunque quella rivoluzione di cui si sente un bisogno sempre più urgente.

La rivoluzione deve essere infatti per Caliandro in primo luogo culturale, non soltanto perché «negli ultimi cinque secoli le uniche rivoluzioni davvero di successo sono state proprio quelle culturali», ma anche, e specialmente, perché la rivoluzione «solo se è anche e innanzitutto rivoluzione della conoscenza, del sapere, può attivare quella “resurrezione dei morti” che è la precondizione fondamentale di ogni vero processo di rinnovamento» (201). Utilizzare, come già nel Rinascimento, strumenti antichi, «tecniche, modalità progettuali e costruttive, stili espressivi e formali», per interpretare, denunciare e modificare la realtà che abbiamo di fronte rappresenta per Caliandro «la via d’accesso più vera e sicura al classico. Vale a dire, al futuro» (p. 191) e si costituisce così come «l’unico valido antidoto all’ideologia del presente perpetuo, che annulla le dimensioni della storia e della prefigurazione e il cui solo, potente messaggio è: “tutto è sempre stato così, e tutto sarà sempre così”. Con il suo desolante corollario: “per quanti sforzi facciate, non potrete cambiare nulla”» (p. 202).

Italia revolution si pone quindi come uno squarcio di fontaniana memoria nel sipario di quella società dello spettacolo che è giunta nel nostro paese a piena maturazione, uno squarcio che esorta ad andare dall’altra parte, incontro a una realtà che non solo «può essere trasformata dall’azione e dal pensiero culturale» ma che «deve essere cambiata» (p. 202), nella convinzione che ci troviamo oggi di fronte a un bivio in cui «tutto può andare malissimo (se continuiamo ancora a fare in modo che siano gli altri, o le circostanze stesse, a decidere per noi) o benissimo (se ognuno di noi assumerà su se stesso la responsabilità della scelta, e del cambiamento)» (p. 202).

Un’esortazione che non può e non deve lasciare indifferente chi lavora – o cerca di lavorare precariamente e tra mille difficoltà – nell’ambito della cultura e che troppo spesso preferisce una privata salvezza individuale al doveroso riscatto collettivo. Allacciamoci le cinture, dunque: «Se tutto va bene, sarà qualcosa da raccontare ai nipotini. Se tutto va male, non ci saranno nipotini» (p. 202).

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