Che ne è dello Stato? (I parte)

La prima di due uscite sullo Stato. 

Dal racconto del “racket originario” (prima parte) all’analisi del tentativo di governare il disordine da parte dei moderni regimi democratici (seconda parte), Mastropaolo si sofferma sui limiti di un’entità la cui autorità è senza sosta contesa e negoziata.

Né monopolio, né ordine

Uscito di scena il marxismo, una questione è stata spesso trascurata. Lo Stato è un’istituzione di dominio, fatta di esseri umani in carne e ossa. Aiutano a riprenderla tre autorevoli scienziati sociali di estrazione tutt’altro che marxista: Charles Tilly, Norbert Elias e Pierre Bourdieu.

Punto di partenza ideale per rileggere questi tre autori è l’incipit a dir poco irriverente di Charles Tilly. «Se il racket costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati – classiche forme di racket col vantaggio della legittimità – costituiscono il più grande esempio possibile di crimine organizzato». Così esordisce, sulle orme dello stesso Weber e su quelle molto più antiche di Agostino d’Ippona, un brillante saggio contenuto in un volume che nel 1985 reinscriveva lo Stato nell’agenda di ricerca della political science d’oltre oceano, refrattaria, dai primi anni Cinquanta, alla parola e all’argomento.[1]

Raffigurare coloro che le scienze sociali chiamano gli State-builders come imprenditori violenti di successo, protesi a accumulare a spese d’altri ricchezze, territori, popolazione, prestigio, vendendo protezione da minacce da essi stessi suscitate, è molto realistico. Nessuno dei cosiddetti State-builders intendeva edificare lo Stato. Ancor meno nessuno tra loro aveva in mente che ciò che costruivano dovesse essere moderno, altro dalle forme preesistenti d’organizzazione e dominio politici.

Lo Stato è un gruppo sociale, o una fazione, o una coalizione di fazioni, le quali, avendo investito un capitale iniziale, militare, organizzativo, economico e simbolico, l’hanno via via incrementato, istituzionalizzato, diversificando del pari le loro attività. Come ogni fazione che si rispetti, lo Stato ha la sua divisione del lavoro, le sue gerarchie, i suoi antagonismi, i suoi capi e i suoi gregari, i suoi uomini di mano e i suoi uomini di mente, i suoi ortodossi e i suoi eretici. Ma è pur sempre una fazione che, avendo accumulate risorse d’ogni sorta, e avendone suscitate di nuove, se ne è servito – e se ne serve – per orientare, condizionare e prescrivere pensieri e comportamenti dei suoi associati, dei suoi sottoposti e perfino dei suoi rivali.

Gli imprenditori del racket si curavano di alcuni fabbisogni fondamentali dei loro sottoposti, per promuoverne, se non altro, la sopravvivenza. Per le medesime ragioni dovettero rispettare tante consuetudini quante ne violavano, scendere a patti con le autorità religiose e con quelle civili non meno di quanto le reprimevano, addirittura consultare i loro sottoposti. Né, volendo durare nel tempo, il racket poteva permettersi di mostrarsi arbitrario. Sottomise perciò l’esercizio del potere alle regole del diritto, o esse gli furono imposte.

Due fattori storicamente inseparabili hanno consentito alla fazione – o alla coalizione di fazioni – che identifichiamo con lo Stato di riprodursi e durare nel tempo. Per quanto composita sia tale coalizione, e per quanto nel tempo si sia aggiornata nella composizione, nelle finalità, nelle regole e modalità operative, essa è riuscita a mantenere, almeno simbolicamente, una qualche solidarietà. Le interdipendenze tra fazioni non escludono il conflitto, ma, una volta intrecciate, costituiscono una risorsa differenziale rispetto ai concorrenti. Questo è uno dei segreti del successo di quella coalizione di fazioni che chiamiamo lo Stato.

Il secondo motivo di successo consiste nell’idea di Stato, per quanto variamente declinata essa sia. Ogni racket che si rispetti deve pure rivestirsi di simboli, di segni e di parole, che diano dignità alle sue pretese. Pure la mafia dopotutto amava definirsi «onorata società» e i suoi adepti si chiamavano «uomini d’onore». Ecco perché lo Stato si è proclamato garante dell’ordine, della pace, dell’interesse generale, ha a lungo andare promosso i sudditi a cittadini e si è finanche identificato con questi ultimi. Anche nei casi più drammatici di rottura e di avvicendamento delle fazioni costitutive dello Stato, è l’idea di Stato a costituire il principio di continuità. È l’idea che ha permesso alla fazione, o alla coalizione di fazioni, di legittimarsi quali portatrici non già del proprio interesse, ma dell’interesse della collettività: di persuadere i loro sottoposti, ma di persuadere anche se stesse. È la capacità di spacciarsi come monopolio legittimo, come sovranità, come ordine, anzi come l’ordine più conveniente alla collettività, che ha convertito nello Stato una fazione come tante. L’idea dello Stato, che obbliga a pensare lo Stato unitamente al mondo in cui è situato, l’universale opposto al particolare, ha pure costretto lo Stato a fare lo Stato. Parole e simboli svolgono un’azione performativa. Definirsi Stato ha condizionato l’azione dello Stato. Non necessariamente di tutto lo Stato, tenuto conto della sua eterogenea composizione. Ma l’offerta di Stato, proveniente da almeno una parte dei suoi addetti, intrecciata con la domanda di Stato, espressa da almeno una parte dei suoi sottoposti e utenti, è bastata a favorirne la persistenza, a dispetto dei sommovimenti e delle sfide cui è stato perennemente sottoposto.

La storia plurisecolare dello Stato non si riduce pertanto a quella delle fazioni da cui è costituito. Vi concorrono in misura non minore le fazioni concorrenti, che, impiegando le loro risorse di potere, aspirano o a disfare lo Stato, per farsi Stato a loro volta, oppure solo a condizionarlo. Del pari, lo Stato dipende dalla collaborazione, o dalla resistenza – attive, passive, tacite, palesi e via di seguito – dei governati. Cambiano gli attori, cambiano le circostanze, cambiano le modalità di esercizio del potere, anche le relazioni tra governanti e governati cambiano di continuo. In genere, un qualche conglomerato di fazioni si è imposto a qualche altro e ha indossato i panni dello Stato, rivedendo i rapporti con la popolazione.

Con l’andare, lento, del tempo lo Stato è divenuto – non è un particolare trascurabile – più generoso verso la popolazione, ma la traiettoria che esso ha seguito è stata tutt’altro che lineare e molto incerti sono stati, e sono tuttora, i suoi esiti. Il mostro benefico immaginato da Hobbes per stabilire l’ordine è una finzione. Non è un ordine assoluto. È l’ordine che più conviene alle fazioni che di volta in volta assumono le fattezze dello Stato, o che esse sono in grado di stabilire. Non è necessario fare troppi conti per scoprire che la mole di disordine suscitata dallo Stato non è meno imponente dell’ordine che esso ha preteso di stabilire. Per i protagonisti iniziali della vicenda dello Stato, per i principi e per coloro che li attorniavano e coadiuvavano, l’ordine consisteva nella terra e nelle ricchezze di cui si appropriavano, e nella popolazione che riuscivano a sottomettere. Non avevano in mente lo Stato qual è stato successivamente raffigurato, né avevano in mente che fosse moderno, ovvero altra cosa rispetto alle preesistenti forme d’organizzazione politica. Ha avuto successo non solamente perché si è accreditata come principio di ordine – che è una finzione di continuo smascherata –, ma anche perché ha contrastato lo smascheramento della finzione evocando la minaccia del disordine che la sua dissoluzione avrebbe provocato. È un espediente che tuttora funziona e che conferma come lo Stato sia frutto, e movente, tanto del proprio ordine, quanto del proprio disordine e di quello che suscita intorno a sé. Una delle principali attività dello Stato consiste nell’incontrare, scoprire e contrastare nemici e ribelli, con ciò coltivando la credenza nella propria legittimità e nella propria autorità. Ne abbiamo prova recente nelle politiche di contenimento del terrorismo, preziose per distogliere l’attenzione dal declino delle prestazioni protettive prima assicurate dallo Stato sociale.

Quel che è certo è che tra conflitti e accordi, a considerarla con intenti meno celebrativi di quelli dei suoi teorici otto-novecenteschi, lo Stato – oggi per la storiografia assai meno «moderno» di un tempo – si dimostra un «mosaico»,[2] composto di infinite tessere e gravato da altrettante infinite ipoteche, alla luce delle quali la geometria weberiana del monopolio legittimo si slabbra e si contorce, configurandosi, malgrado il suo realismo rispetto ad altre definizioni dello Stato, come un altro omaggio al Reich bismarckiano e guglielmino, in continuità col monumento elevato in suo onore dalla dottrina giuridica e dalla storiografia ottocentesche tedesche, cui va attribuito il concetto di Stato moderno. È nondimeno Weber stesso, quando definisce lo Stato anche come una forma di dominazione, a suggerire il bandolo di una contro-narrazione. Scarnificando e secolarizzando il concetto aulico di sovranità e sostituendolo con quello di monopolio, Weber invita infatti a una considerazione meno incantata dello Stato. Il fatto che lo Stato sia un gruppo sociale il cui monopolio del potere è consacrato dalla legittimità significa solamente che esso, oltre a dominare tramite la coercizione, fornisce ragioni per governare, così coltivando la credenza nella sua necessità. Non è nemmeno indispensabile che ciascun dominato ne sia persuaso. Ciò che conta è che i dominati, i quali mediamente non s’interrogano intorno alla legittimità delle autorità pubbliche, stiano al gioco: si assoggettino e così confermino la legittimità dello Stato.

Lo Stato insomma va trattato come un fatto sociale e una forma di dominio tra le altre, sebbene dotata di caratteri specifici. Non solo esso tutela un ordine molto particolare, che è quello che esso definisce tale, ma non si è nemmeno sviluppato in maniera ordinata, coerente, lineare, secondo l’immagine che esso dà di se stesso, che ne danno i suoi sostenitori e perfino i suoi critici. La considerevole mole di capitale statale, per riprendere la metafora di Bourdieu, accumulata dai potentati dinastici, e poi dalle burocrazie statali, e da esse incrementata, si è incessantemente confrontata, e ha dovuto arrangiarsi, con ciò che possiamo sommariamente indicare come diversità o pluralismo – sociale, culturale, religioso, linguistico, economico – specie su territori divenuti ormai molto vasti e con cui lo Stato si è trovato a convivere.

Le rappresentazioni, quali esse siano, rientrano appieno nel novero delle semplificazioni che rendono il mondo reale più comprensibile, più abitabile e pure più maneggevole per chi vuol cambiarlo. La rappresentazione aulica dello Stato, tra cui a modo suo rientra quella avanzata da Weber, è dunque parte necessaria di esso, in quanto costitutiva della sua legittimità e di quel sovrappiù di potere che tale legittimità gli conferisce. Stimolate dalle circostanze, di cui i loro autori furono parte attiva, le trasfigurazioni di Bodin, di Hobbes, di Hegel e altri ancora, così come quella offerta dal diritto e dai giuristi, hanno svolto una parte non piccola entro i conflitti che hanno istituito e stabilizzato la statualità, soccorrendo dapprima i sovrani nei loro sforzi di giustificare la loro autorità rispetto ai concorrenti e quindi le burocrazie nel comporre la loro immagine di garanti dell’interesse generale. Tenace assertore dell’assolutismo monarchico, Hobbes si adoperò con straordinaria efficacia perché lo Stato fosse pensato come il rappresentante cui gli individui concordemente attribuivano il compito di ordinare la vita associata. Elevandolo al di sopra di ogni divisione, diversità, particolarismo, egli stabilì un’asimmetria che è rimasta impressa negli atteggiamenti e comportamenti tanto degli addetti allo Stato, quanto dei suoi sottoposti. Ma se è così che il mosaico statale è pensato e vissuto, quale l’agente unitario di una collettività unificata e ordinata da esso, la pratica è di gran lunga più complessa.

Le celebrazioni dello Stato sono in primo luogo autocelebrazioni. Tra di esse nessuna forse vale tanto quanto le trionfali architetture dell’età barocca, i cui spettatori erano infinitamente più numerosi che non i fruitori della teoria. Dove va osservato che i sovrani contribuirono in prima persona a tali esibizioni, non contentandosi di commissionarle. Diversamente da quanto avveniva per i ritratti regali, pur sempre affidati alla creatività dell’artista, i sovrani negoziavano i loro disegni coi loro architetti, onde indurli a mettere in scena la loro supremazia e le loro ambizioni. Il loro intento non era solo di compiere una precoce operazione mediatica finalizzata a suscitare stupore e deferenza intorno alla maestà regia, ma era quello d’inscrivere permanentemente tale maestà, e quella dello Stato, nei pensieri e nei cuori delle generazioni presenti e future dei loro sudditi. Ma era solo quello, c’è da chiedersi, il significato principale di cosiffatte architetture?

E quanto le cose sono mutate da allora? Quanto di ciò che fa lo Stato, specie attraverso le sue esibizioni di potenza, non servirà piuttosto a rassicurare lo Stato stesso, ovvero un’istituzione che è intrinsecamente incerta e instabile, a dispetto della stabilità inscritta nel suo nome?

C’è un tenace e tutt’altro che immotivato fondo d’insicurezza nell’autorità dello Stato. In effetti, l’autorità dello Stato è senza soste contesa e negoziata. Lo è la sua stessa origine. Le traiettorie che appaiono lineari nell’empireo dei modelli teorici, lo sono assai meno sul terreno accidentato dei fatti storici.

Note

[1] La riscoperta dello Stato da parte delle scienze sociali in America risale agli anni Settanta. Data la tendenza a identificarlo con la pubblica amministrazione, date le caratteristiche della società americana, lo Stato in America non aveva mai avuto l’importanza che aveva in Europa. Quindi la ricerca aveva storicamente preferito altri temi. Il saggio di Tilly cui si fa riferimento in questa sede è «War-Making and State-Making as Organized Crime». Esso comparve in una raccolta dal titolo molto significativo: P. B. Evans, D. Rueschemeyer, T. Skocpol (ed.), Bringing the State back in, Cambridge University Press, Cambridge, 1985.

[2] J. R. Strayer,On the Medieval Origins of the Modern State, Princeton University Press, Princeton, 1970, p. 57.

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