Criminalità immaginate

Mafia come “antistato”, mafia come “subcultura”, come “emergenza”. Sono soltanto alcuni degli stereotipi che circondano una delle questioni pubbliche più dibattute degli ultimi decenni. L’elenco dei cliché potrebbe proseguire a lungo: dalla mafia come degenerazione di costumi politici clientelari e corrotti alla mafia come corpo patogeno, esterno, che infetta tessuti economici e politici sani. Per mettere in discussione queste rappresentazioni non è sufficiente sostenere le ragioni di un discorso legalitario, volto alla mera repressione, oggi sempre più pervasivo. Occorre innanzitutto ricostruire i processi attraverso i quali sono tracciati i confini del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo. Dalla sua ricostruzione giudiziaria, che permea il dibattito pubblico, alimentando la diffusa credenza che vorrebbe i gruppi mafiosi al centro di dinamiche di illegalità che appaiono invece straordinariamente complesse, alla sua rappresentazione mediatica, che contribuisce alla costante produzione di simboli in grado di disegnare l’orizzonte di senso nel quale gli stessi mafiosi inscrivono le proprie condotte.
In questo quadro, il focus si propone come uno spazio di riflessione sul potere mafioso, chiamando in causa il ruolo svolto dalla dimensione immaginaria nella costruzione sociale di un fenomeno che si definisce all’incrocio tra interpretazione scientifica, rappresentazione pubblica e costruzione giuridica.

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