Istituire il cambiamento

Istituire, è un verbo. Dobbiamo intenderlo come un movimento, non come qualcosa di chiuso, di definitivo, di stabilito. Istituire è diventare ciò che si è.

Se le strutture istituzionali con cui abbiamo a che fare non sono comode, sono inutili, sempre più vuote, o criminali e speculative, dobbiamo cercare delle forme di organizzazione e di socialità che rispecchino il nostro desiderio, le nostre necessità produttive e i nostri tempi di vita. Istituire deve essere in rapporto vivo con le forme di organizzazione sociale. Ormai è chiaro in tutta Europa, non solo a chi si mobilita ma anche alle istituzioni, che gli attuali modelli istituzionali sono in forte crisi, ormai lontani dalla realtà sociale che dovrebbero rappresentare. Da una parte si tratta di un sistema superato per l’idea di cultura che veicola, dall’altra, per un oggettivo problema economico, sopratutto nei paesi europei del mediterraneo schiavi del patto di stabilità. Un’idea di nuove istituzioni si aggira per l’Europa, ed è incarnata da esperienze di partecipazione diretta della gente, dal legame con la pancia di movimenti locali che vivono le trasformazioni sociali, dalla capacità di mettere a tema e sperimentare forme sostenibili di socializzazione, di democrazia, di processi produttivi e di tempi di vita.

Questi sono i temi intorno cui ruotano le pratiche che stanno lottando per costruire nuove forme di istituzione culturale e di fronte ai quali il vecchio modello e la vecchia classe politica sono impreparati. Proprio in queste ore Renzi si è insediato come primo ministro e ha scelto di prendere posizione contro l’esperienza del Teatro Valle Occupato. Da notare come il centro sinistra in Italia stia adottando una retorica precisa e condivisa nei confronti di queste esperienze: questi ragazzi hanno giustamente sollevato un problema, sono insorti per dare voce ad un vuoto che c’è, ora è compito e dovere nostro dare una risposta istituzionale, quindi togliamoli di mezzo perché non sono credibili per come si stanno auto organizzando, e diamo una vision al buon funzionamento istituzionale. Questo è lo schema che stanno adottando la giunta Pisapia a Milano, Renzi a Roma, e infiniti altri esempi, non ultimo, quello di pochi giorni fa in occasione del confronto fra il sostituto sindaco di Taranto con l’esperienza di Officine Tarantine nei Baraccamenti Cattolica dell’ex arsenale militare, abbandonato nel centro della città. Il vecchio sistema politico/istituzionale/culturale sta raschiando il fondo svendendo il patrimonio pubblico e cercando un po’ di ossigeno in azioni finto-caritatevoli di potenti privati. Quello che va per la maggiore nelle vecchie istituzioni è proporre partenariati pubblico-privato con società a cui, in realtà, di partecipazione e trasformazioni sociali non importa assolutamente nulla, preservare finestre dove poter citare il teatrino della partecipazione, e molta comunicazione retorica in cui si dice che la politica che portano avanti è dalla parte dei cittadini.

Risultato: gli spazi rimangono in stato di abbandono, tranne alcuni dove un soggetto commerciale privato ci entra con i piedi pesanti, mentre una miriade di lavoratori e lavoratrici della conoscenza, associazioni no-profit culturali e sociali rimangono ai margini, gregari sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista produttivo e contrattuale. La storia delle subculture metropolitane che organizzano una scena e resistono alle istituzioni temporaneamente, per poi vendersi sul mercato o rimanere “puri”, è passata. Quella dell’okkupazione illegale per affermare isole di autonomia e poi venire spazzati via dalle ruspe della gentrification, appartiene agli anni ’80 e ’90. Quello che ora si sta facendo, a partire dal movimento dei teatri occupati, con la liberazione progressiva degli spazi della cultura fino a pochi anni fa abbandonati o mal gestiti, è ripensare la società e i processi produttivi stando dalla parte della gente che si mobilita e si auto organizza, cercando ci creare luoghi attraversabili e accessibili da tutti/e e di tutti/e e preservando questa auto organizzazione da interessi che ne sovra-determinino l’indipendenza. Crediamo nella relazione fra le persone, nel desiderio e nella possibilità di costruire in modo affermativo un network che funzioni basato sulla cooperazione, sulla libera espressione, sul libero accesso alla conoscenza e ai mezzi di produzione. Sembrano ovvie e belle parole, ma appena si cerca di metterle in pratica ci si fa molti nemici e bisogna difenderle coi denti. In sostanza, quello che con le esperienze di questi spazi della cultura liberata si sta cercando di fare è di portare per la prima volta il diritto e la legge in un dibattito pubblico condiviso. Siamo cresciuti in un uso creativo e criminale del diritto. I poteri forti e i politici sono abituati a modificare continuamente le normative, spesso di nascosto, e ad utilizzare in modo strategico il diritto a proprio vantaggio. Non occorre nemmeno fare degli esempi. Molto spesso, le retoriche sulla legalità sono servite a proteggere i più forti, lasciando loro più potere di modifica della legge a piacimento e la totale impunità. Di contro affermiamo che il diritto è un discorso vivo, che deve sgorgare dalle pratiche che le persone mettono in atto, non per l’interesse di pochi, ma all’interno di un discorso pubblico che ne questioni i presupposti.

L’Italia è piena di questi esempi virtuosi, a partire dalle battaglie referendarie della storia della repubblica, o dalla storia che ha portato alla chiusura delle strutture manicomiali. Il gruppo che si era raccolto attorno a Franco Basaglia, aveva cominciato innovando totalmente la propria pratica: in pochi anni l’esperienza di chiusura del manicomio di Gorizia e poi di quello di Trieste furono presi di mira da media, forze politiche e comunità scientifica. Tutti dissero che erano diventati luoghi di caos e perversione; che non c’erano più gerarchie, che erano saltati i presupposti dell’ordine sociale, che quegli psichiatri non avevano il diritto di stravolgere l’istituzione… Poco dopo, altri manicomi insorsero solidarizzando con il gruppo di Basaglia e si creò una rete di esperienze analoghe. Solo dopo anni di lotte affermative e di produzione di senso, Basaglia ottenne una modifica legislativa per sancire la fine delle strutture manicomiali come luoghi di costrizione. La storia quindi ci ha insegnato che il cambiamento nasce tra le righe della realtà e non nel terreno astratto delle parole. Sarebbe dunque forse il momento di raccogliere questo insegnamento e fare finalmente un balzo in avanti: smettere quindi di pensare a queste occupazioni e alla liberazione di questi spazi come atti di illegalità e cominciare a pensare invece che, proprio a partire da queste esperienze, il diritto possa trovare nuove forme di vita grazie alle quali poter evolevere.

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Close