“Bottiglie di latte” di Sherwood Anderson

Pubblichiamo qui di seguito in versione integrale il racconto “Bottiglie di latte” di Sherwood Anderson, dall’antologia “L’uomo che diventò donna” pubblicata in lingua originale nel 1923. La raccolta, irreperibile da decenni, esce in questi giorni per la casa editrice Cliquot in versione digitale. Il racconto “Bottiglie” è tradotto da Lorenza Starace e Marina Pirulli.

Non gli è mai stato dato il giusto posto nella storia della letteratura americana.
Secondo me è il padre di tutta la mia generazione.
William Faulkner

Una mattina del novembre 1912 un uomo di circa quarant’anni, dirigente di un’industria di vernici di Elyria (Ohio), detta a voce alta una lettera alla sua segretaria. A un certo punto, di colpo e senza dire una parola, lascia l’ufficio. Viene ritrovato solo pochi giorni più tardi a Cleveland, in uno stato di intenso shock psicofisico. Quando gli viene chiesto cos’è accaduto, perché ha lasciato l’ufficio, la fabbrica, la famiglia, la città, lui non sa rispondere, non se lo ricorda. L’uomo si chiama Sherwood Anderson e con lui, con questa amnesia, inizia la storia della letteratura americana.

Dopo il tanto fatidico quanto bizzarro episodio di Cleveland, Anderson si rifiuta di tornare alla sua vita precedente. L’amnesia segna la svolta, diventa lo spartiacque tra la sua passata vita da industriale e quella di scrittore: deciso a dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Anderson torna a Chicago, dove aveva già vissuto, giovanissimo, con il fratello Karl, pittore in erba.

Da Chicago in poi è tutto un tour de force geografico e culturale: se a Chicago entra nel circolo degli scrittori della Chicago Renaissance (Edgar Lee Masters, Theodore Dreiser, Waldo Frank, Carl Sandburg), conosce Hemingway e collabora con le più prestigiose riviste letterarie dell’epoca, nel 1921 è a Parigi dove conosce e frequenta Gertrude Stein e il suo circolo di scrittori e artisti espatriati. L’anno successivo è già altrove: figura di spicco della New Orleans bohémienne degli anni ruggenti diventa un assiduo frequentatore di Le Vieux Carré, il quartiere francese della città. Negli anni trenta si sposta a New York e si avvicina a gruppi di intellettuali impegnati e alle nuove, militanti riviste politico-culturali. Nel 1941 è in viaggio a Panama e, mentre mastica un’oliva, ne ingoia anche lo stuzzicadenti. Morirà qualche giorno dopo per le complicazioni della peritonite causata dall’ingestione.

Il destino di Anderson sarà quello di essere sempre ricordato come un “one-book author”, l’autore di un libro solo, Winesburg Ohio (1919), la raccolta di ventisei racconti ambientati in una cittadina immaginaria che gli assicurò la fama.

Considerati nulla più che mere variazioni sugli stessi temi (la solitudine dell’individuo nelle metropoli industriali, la monotonia della vita in provincia, interrotta soltanto da fulminee e inevitabili epifanie) i romanzi e i racconti successivi al 1919 sono stati ingiustamente accantonati e frettolosamente etichettati come “opere minori” dell’autore. Se è vero che alcuni degli stilemi di Anderson continueranno a riproporsi pressoché invariati nei racconti successivi, i tratti caratteristici dell’autore si fanno più marcati e maturi, e, influenzato anche dalla lettura di D. H. Lawrence e Freud, compaiono nuove tematiche (la sessualità come forza primaria, l’inconscio) e sembra intensificarsi la tendenza allo smantellamento del plot tradizionale.

Al contrario di quanto viene solitamente detto, le opere successive alla pubblicazione di Winesburg Ohio appaiono dunque essenziali per la comprensione del ruolo che Sherwood Anderson ha avuto nella storia della letteratura americana: quella di spartiacque, di passaggio dal naturalismo degli scrittori della sua generazione al modernismo di quella successiva, facendosi al contempo continuatore della tradizione orale della letteratura americana (quella di London e Twain) e apripista di tutte le narrazioni che seguiranno, prime fra tutte quelle di Ernest Hemingway e William Faulkner.



Bottiglie di latte

Vivevo, quell’estate, in una grande stanza all’ultimo piano di una vecchia casa nel North Side di Chicago. Era agosto e la notte era calda. Fin dopo mezzanotte ero rimasto seduto – il sudore che mi gocciolava giù per la schiena – sotto una lampada, cercando di farmi strada attraverso le vite dei personaggi di fantasia che provavano a loro volta a vivere nel racconto a cui stavo lavorando.
Era una faccenda disperata.
Mi trovavo coinvolto negli sforzi di quelle figure confuse e loro, di contro, si trovavano coinvolte nella realtà della stanza calda e scomoda, nel fatto che, nonostante fosse quella che i contadini del Middle West chiamano “stagione buona per il grano”, sopravvivere a Chicago era un vero inferno. Mano nella mano io e le figure confuse del mio mondo di fantasia avanzavamo a tentoni attraverso una foresta dove le foglie degli alberi erano state tutte bruciate. Il terreno bollente ci consumava le scarpe ai piedi. Tentavamo di farci strada attraverso la foresta per raggiungere una città fresca e bella. Il fatto è che, come avrete capito chiaramente, ero andato un po’ fuori di testa.
Quando rinunciai a lottare e mi alzai in piedi, le sedie della stanza mi danzavano attorno. Anche loro correvano senza scopo attraverso una terra rovente e si sforzavano di raggiungere una città mitica. “Farei meglio a uscire fuori da qui e a fare una passeggiata o un tuffo nel lago per rinfrescarmi” pensai.
Scesi giù, fuori dalla mia stanza, in strada. A uno dei piani inferiori della casa abitavano due attrici di burlesque che erano appena tornate dal lavoro e che ora se ne stavano sedute a chiacchierare nella loro stanza. Non appena raggiunsi la strada qualcosa di pesante passò, roteando, oltre la mia testa e andò a rompersi sul selciato. Un liquido bianco schizzò sui miei vestiti e si sentì la voce di una delle attrici provenire dall’unica stanza illuminata della casa.
«Oh al diavolo! Viviamo delle vite talmente dannate e lavoriamo in questa razza di città! Un cane se la passa meglio di noi! E ora ci leveranno anche gli alcolici! Torno a casa dopo aver lavorato in quel teatro bollente in una nottata bollente come questa e che cosa vedo? Una mezza bottiglia di latte andato a male sul davanzale della finestra! Non ce la faccio più! Spacco tutto!» urlava.
Mi incamminai da casa mia verso est. Dall’estremità nord-ovest della città orde di uomini, donne e bambini erano venute a trascorrere la notte all’aperto, sulla riva del lago. Anche lì faceva un caldo soffocante e l’aria era pesante, quasi minacciosa. Su poche centinaia di acri di terreno piatto che precedentemente era stato una palude, circa due milioni di persone combattevano per ottenere la pace e la tranquillità del sonno e non ci riuscivano. Nella semioscurità, oltre la piccola striscia di terra del parco sulla superficie dell’acqua, le enormi case vuote della gente elegante di Chicago creavano una macchia grigio-azzurra contro il cielo. “Grazie a dio” pensai “c’è qualcuno che può andarsene da qui, che può andare in montagna o al mare o in Europa”. Al buio inciampai nelle gambe di una donna sdraiata che cercava di dormire sull’erba. Un bambino stava disteso al suo fianco e quando lei si tirò su si mise a piangere. Biascicai una scusa e mi feci da parte e così il mio piede urtò una bottiglia di latte mezza vuota e la rovesciai, spargendo il latte sull’erba. «Oh, mi dispiace. La prego mi scusi» gridai. «Non fa niente» rispose la donna «è latte andato a male».

Era un uomo alto, con le spalle curve e i capelli prematuramente grigi e lavorava come copywriter in un’agenzia pubblicitaria di Chicago – un’agenzia in cui avevo lavorato anch’io qualche volta – e in quella notte di agosto lo incontrai mentre camminava a passi svelti e ansiosi lungo la riva del lago in mezzo alla gente stanca e irritata. All’inizio non mi vide e io mi meravigliai della sua palese vitalità quando tutti gli altri sembravano mezzi morti; ma un lampione appeso sopra un arco lì vicino illuminò il mio viso e lui mi afferrò al volo. «Ehi tu, vieni su da me!» gridò bruscamente. «Ho qualcosa da farti vedere. Stavo giusto venendo da te» mentì mentre mi spingeva avanti.
Andammo nel suo appartamento su una strada che conduceva dal lago al parco. Famiglie tedesche, polacche, italiane ed ebree, equipaggiate con coperte sporche e le immancabili mezze bottiglie di latte, si erano preparate per trascorrere la notte all’aperto; solo le famiglie americane nella folla stavano ormai abbandonando la ricerca di un posto fresco e formavano un piccolo fiume che sgocciolava lungo le strade, facendo ritorno ai letti caldi nelle case calde.
Era l’una passata e l’appartamento del mio amico era in disordine oltre che rovente. Mi spiegò che la moglie e due bambini non erano in casa perché erano andati a trovare la madre di lei, in una fattoria vicino Springfield, nell’Illinois.
Ci togliemmo le giacche e ci sedemmo. Le guance magre del mio amico erano accaldate e i suoi occhi luccicavano. «Beh, sai… vedi» cominciò e poi esitò e rise come uno scolaro imbarazzato. «Beh, ecco» riprese «è da tanto che volevo scrivere qualcosa di vero, qualcosa di diverso dagli annunci pubblicitari. Sarò stupido ma è così. È sempre stato il mio sogno scrivere qualcosa di entusiasmante e di grande. Suppongo sia il sogno di molti scrittori di annunci pubblicitari, eh? Ora guarda qui, non ti mettere a ridere. Credo di esserci riuscito».
Spiegò che aveva scritto qualcosa che riguardava Chicago, la capitale e il cuore, così disse, di tutto il Central West. Si arrabbiò. «La gente viene qui dall’Est o dalle fattorie o da buchi di cittadine come quella da dove vengo io e pensa di essere intelligente a gettare fango su Chicago» disse. «Ho pensato di smascherarli» aggiunse, balzando in piedi e camminando nervosamente per la stanza.
Mi mise in mano molti fogli di carta coperti di parole scarabocchiate di fretta ma protestai e gli chiesi di leggermeli ad alta voce. Lo fece, stando col viso girato dall’altra parte. C’era un fremito nella sua voce. Le cose che aveva scritto riguardavano qualche mitica città che io non avevo mai visto. La chiamava Chicago ma allo stesso tempo parlava di grandi strade dai colori fiammeggianti, di edifici evanescenti scagliati contro i cieli notturni e di un fiume che scorreva su un letto d’oro verso lo sconfinato Ovest. Era la città, dissi a me stesso, che io e i personaggi della mia storia avevamo cercato di scoprire poco prima, nella stessa serata, quando a causa del caldo ero andato un po’ fuori di testa e avevo dovuto smettere di lavorare. I personaggi della città di cui aveva scritto lui erano persone coraggiose, con i nervi saldi che marciavano verso un qualche trionfo spirituale, la cui promessa era già insita nell’aspetto esteriore della città.
Ora io sono uno che, coltivando attentamente alcuni tratti del proprio carattere, è riuscito a rinforzare il lato più brutale della sua natura, ma che ancora non riesce a buttare a terra donne e bambini per salire sul tram a Chicago né a dire in faccia a uno scrittore che il suo lavoro è una schifezza.
«Sei in gamba, Ed. Sei grande. Hai tirato fuori una cannonata di capolavoro. Sei all’altezza di Henry Mencken che scrive di Chicago come del centro letterario dell’America, e tu ci hai vissuto a Chicago mentre lui no. L’unica cosa che mi sembra ti sia sfuggita è qualche dettaglio sui depositi di bestiame ma li puoi inserire dopo» aggiunsi e mi preparai per andarmene.
«Cosa sono questi?» domandai, tirando su una mezza dozzina di fogli che giacevano per terra sotto la mia sedia. Li lessi avidamente. E quando ebbi finito di leggere lui balbettò qualche scusa e poi, attraversando la stanza, mi strappò i fogli dalle mani e li gettò fuori da una finestra aperta. «Avrei preferito che non li avessi visti. È un’altra cosa che ho scritto su Chicago» spiegò. Era sconvolto.
«Vedi, faceva così caldo quella sera e giù in ufficio avevo dovuto scrivere un annuncio pubblicitario per il latte condensato proprio quando me la stavo filando per tornare a casa e lavorare a quest’altra cosa, e il tram era talmente affollato e la gente puzzava così tanto e quando finalmente sono arrivato qui a casa, non essendoci mia moglie, c’era un gran disordine. Beh, non riuscivo a scrivere ed ero arrabbiato. Era un’occasione d’oro per me, capisci, con la moglie e i bambini via e la casa tranquilla. Sono andato a farmi una passeggiata. Penso di essere andato un po’ fuori di testa. Poi sono tornato a casa e ho scritto quella roba che ho appena buttato giù dalla finestra.»
Tornò di buon umore. «Oh beh, non importa. Scrivere quelle sciocchezze mi ha tirato su e mi ha permesso di scrivere quell’altra cosa, quella cosa vera che ti ho fatto vedere all’inizio, su Chicago.»
E così tornai a casa e a letto, dopo aver scoperto per caso, in quello strano modo, un altro po’ di quel tipo di letteratura che è, nel bene e nel male, davvero rappresentativa – a volte sotto forma di prosa, a volte di entusiasmante, vivace poesia – delle vite della gente di queste città, grandi e piccole. Era quel tipo di cosa che avrebbero potuto scrivere Mr. Sandburg o Mr. Masters dopo una passeggiata serale in una notte calda, che so, lungo la West Congress Street di Chicago.
La cosa di Ed che avevo letto era incentrata su una mezza bottiglia di latte andato a male che stava debolmente in piedi su un davanzale, sotto la luce della luna. C’era stata la luna all’inizio di quella serata d’agosto, una luna nuova, una sottile crescente striscia d’oro nel cielo.
Quello che era successo al mio amico, lo scrittore di annunci pubblicitari, doveva essere qualcosa del genere – me ne resi perfettamente conto mentre stavo sdraiato sul letto senza poter dormire dopo la nostra conversazione.
Non sono sicuro se sia vero o no che tutti gli scrittori di annunci pubblicitari e giornalisti vogliano scrivere altre cose ma Ed senza dubbio lo voleva. La giornata d’agosto che aveva preceduto quella calda notte era stata dura per lui. Per tutto il giorno aveva desiderato di rimanere a casa, nel suo appartamento tranquillo a produrre letteratura invece di stare seduto in un ufficio a scrivere annunci pubblicitari. Nel tardo pomeriggio, quando pensava di aver terminato il suo lavoro per quel giorno, era arrivato il capo redattore e gli aveva ordinato di scrivere una pagina pubblicitaria sul latte condensato per le riviste. «Possiamo guadagnare un nuovo cliente se tiriamo fuori roba di prim’ordine in fretta» disse. «Mi dispiace darti questo incarico in una giornata di caldo schifoso come questa, Ed, ma non possiamo fare altrimenti. Vediamo se c’è ancora un po’ del vecchio pepe in te. Mettiti sotto e tira fuori qualcosa di brillante e originale prima di andare a casa.»
Ed ci aveva provato. Aveva messo da parte i suoi pensieri sulla città bella – la luminosa città delle pianure – e si era messo al lavoro. Aveva pensato al latte, latte per bambini piccoli, gli abitanti della Chicago del futuro, latte che avrebbe prodotto un po’ di crema da mettere nel caffè degli scrittori di annunci pubblicitari la mattina, dolce latte fresco per rendere forti e robusti tutti i fratelli e le sorelle di Chicago. Quello che Ed voleva veramente era un bel bicchiere di qualcosa di fresco e di forte ma si era sforzato di pensare di volere invece un bicchiere di latte. Si era lasciato andare a pensieri sul latte, latte condensato e giallo, latte caldo delle mucche che suo padre aveva quando lui era bambino – la sua immaginazione si era lanciata su una piccola barca e lui era salpato su un mare di latte.
Da tutto questo aveva tirato fuori quello che viene definito un annuncio pubblicitario originale. Il mare di latte su cui aveva navigato era diventato una montagna di barattoli di latte condensato e da questa fantasia aveva tratto la sua idea. Aveva fatto lo schizzo approssimativo di una vignetta che mostrava grandi campi verdeggianti pieni di fattorie bianche. Le mucche pascolavano sulle verdi colline e su un lato del disegno un ragazzo scalzo guidava una mandria di mucche del Jersey fuori dalla dolce e chiara campagna lungo una stradina che conduceva in una specie di tunnel alla fine del quale c’era un barattolo di latte condensato. Sopra alla vignetta aveva scritto un titolo: «La salute e la freschezza di tutta la campagna sono condensate in una sola scatola di latte condensato Whitney-Wells». Il capo redattore aveva detto che era una meraviglia.
E poi Ed era andato a casa. Voleva cominciare a scrivere della sua bella città subito e così non era andato a cena fuori, aveva pescato nella ghiacciaia e trovato un po’ di carne fredda con cui si era fatto un panino. Si era versato anche un bicchiere di latte ma era andato a male. “Oh, al diavolo ” aveva detto e lo aveva buttato nel lavandino.
Come mi spiegò più tardi, si era messo seduto e aveva subito provato a scrivere le sue cose ma sembrava non riuscire a concentrarsi. L’ultima ora in ufficio, il viaggio di ritorno a casa nel tram caldo e puzzolente, e il sapore del latte acido in bocca gli avevano urtato i nervi. La verità è che Ed aveva una natura piuttosto sensibile, dall’equilibrio delicato e quella sera era andato tutto storto.
Era uscito a farsi una passeggiata e aveva provato a pensare ma la testa non voleva stare dove diceva lui. All’epoca Ed era un uomo di quasi quarant’anni e quella sera la mente era tornata indietro alla sua adolescenza in città e lì era rimasta. Come altri ragazzi diventati uomini a Chicago, era arrivato in città da una fattoria ai margini di una cittadina agricola e come tutti i ragazzi nati in cittadine e fattorie di quel tipo era arrivato pieno di vaghe speranze.
Quante cose aveva desiderato di fare ed essere a Chicago! Quello che invece aveva fatto lo potete immaginare. Per prima cosa si era sposato e ora viveva in un appartamento nel North Side. Per dare un’immagine reale della sua vita durante i dodici o quindici anni che erano volati via da quando era ragazzo bisognerebbe scrivere un romanzo ma non è questo il mio scopo.
Comunque, era là in camera sua – dopo essere tornato a casa dalla passeggiata – faceva caldo e c’era silenzio e non riusciva a concentrarsi sul suo capolavoro. Com’era tranquillo l’appartamento senza la moglie e i bambini! La mente andava ancora alla sua giovinezza in città.
Si era ricordato di una notte di quando era un giovane uomo in cui era andato a fare una passeggiata fuori, proprio come quella sera di agosto. Allora la vita non era complicata dalla presenza della moglie e dei bambini e viveva da solo nella sua camera; ma anche allora qualcosa gli aveva urtato i nervi. Anche quella sera di tanto tempo fa era inquieto ed era uscito per fare una passeggiata. Era estate e per prima cosa era sceso al fiume dove caricavano le navi e poi al parco affollato di ragazze e ragazzi che passeggiavano.
Si era fatto coraggio e aveva rivolto la parola a una donna seduta da sola su una panchina. Lei lo aveva lasciato sedere accanto a sé e poiché era buio e lei rimaneva in silenzio, lui aveva iniziato a parlare. La notte lo aveva reso sentimentale. «Gli esseri umani sono così impenetrabili. Vorrei potermi avvicinare a qualcuno» aveva detto. «Andiamo! Chi cerchi di prendere in giro?» aveva risposto la donna.
Ed era balzato in piedi e se ne era andato. Si era incamminato verso una lunga strada fiancheggiata da edifici scuri e silenziosi e si era fermato e si guardava intorno. Quello che voleva era credere che negli appartamenti degli edifici ci fossero persone dalle vite intense e appassionate, con grandi sogni, capaci di grandi avventure «In realtà sono separati da me solo dai muri» era quello che si era detto quella notte.
Era stato allora che l’argomento della bottiglia di latte si era impossessato di lui per la prima volta. Era andato in un vicolo per guardare la facciata posteriore delle case e, anche quella sera, c’era la luna. I suoi raggi cadevano sopra una lunga fila di bottiglie di latte semivuote, in piedi sui davanzali delle finestre.
Qualcosa dentro di lui lo aveva fatto stare male ed era corso fuori dal vicolo verso la strada. Un uomo e una donna gli camminavano dietro e si erano fermati prima dell’entrata di uno degli edifici. Sperando che potessero essere amanti si era nascosto nell’ingresso di un altro edificio per ascoltare la conversazione.
Era venuto fuori che si trattava di marito e moglie e che stavano litigando. Ed aveva sentito la voce della donna mentre diceva: «Vieni dentro. Non mi prendi mica in giro. Dici che vuoi andare a fare solo una passeggiata ma io ti conosco. Tu vuoi uscire e buttare un po’ di soldi. Quello che mi piacerebbe sapere è perché non ne scuci un po’ per me».

Questa è la storia di quello che successe a Ed quando, da ragazzo, andò a fare una passeggiata per la città di sera, e quando ormai quarantenne uscì di casa col desiderio di sognare e pensare a una città bella e gli accadde di nuovo qualcosa di molto simile. Forse scrivere l’annuncio pubblicitario per il latte condensato e il sapore del latte andato a male che aveva tirato fuori dalla ghiacciaia avevano avuto qualcosa a che fare con il suo stato d’animo. A ogni modo le bottiglie di latte gli erano entrate in testa, come un ritornello. Sembravano stare lì di fronte a lui a prenderlo in giro dalle finestre di tutti gli edifici di tutte le strade e quando si era girato a guardare le persone aveva incontrato una folla che da est e da nord-ovest si dirigeva verso il parco e il lago. Alla testa di ogni piccolo gruppo di persone marciava una donna con una bottiglia di latte in mano.
E così, in quella notte di agosto, Ed era ritornato a casa arrabbiato e nervoso, e con rabbia aveva scritto della sua città. Come l’attrice di burlesque di casa mia anche lui aveva voglia di spaccare qualcosa e, essendogli venute in mente le bottiglie di latte, voleva spaccare le bottiglie di latte. «Potrei afferrare il collo di una bottiglia di latte. Entra così bene nella mano. Potrei uccidere un uomo o una donna con una cosa del genere» aveva pensato disperatamente.
Aveva scritto, capite, in quello stato d’animo i cinque o sei fogli che avevo letto e si era sentito meglio. E dopo quello aveva scritto dei fantastici edifici scagliati nel cielo dalle mani di persone avventurose e coraggiose e del fiume che scorre su un letto d’oro verso l’Ovest sconfinato.
Come avrete già capito, la città che descriveva nel suo capolavoro era senza vita ma la città di cui, con rabbia, aveva parlato nel pezzo sulle bottiglie di latte, era indimenticabile. Spaventava un po’ ma era lì e, nonostante la rabbia e forse propria a causa sua, ci si era addentrata una qualità squisita e melodiosa. In quelle poche pagine scarabocchiate era avvenuto il miracolo. Fui uno stupido a non mettermi quei fogli in tasca. Quando uscii dall’appartamento quella notte li cercai nel vicolo buio ma erano andati perduti in un mare di immondizia che straripava dalla lunga fila di pattumiere di latta color cenere allineate ai piedi di una scala su cui si affacciavano le porte posteriori degli appartamenti dei piani di sopra.

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