Black Mirror

Memorie dal futuro.

Black Mirror. Memorie dal futuro (Edizioni Estemporanee) di Damiano Garofalo prende in esame la serie tv – giunta alla quarta stagione –  che indaga il rapporto tra uomo e tecnologia, individuando nei media uno strumento attraverso cui leggere, non tanto il futuro, quanto il nostro presente. Di seguito, un estratto del saggio di Damiano Garofalo.

Black Mirror, ovvero «specchio nero», efficace riferimento al vetro di uno schermo spento che, da nero, rispecchia le immagini circostanti. Uno schermo, cioè, che quando non trasmette finisce per riflettere immagini, persone, identità. Uno schermo funzionante anche quando è spento, che si manifesta, già dal titolo, in tutta la sua oscurità metatestuale.

Nel 2001, lo studioso russo Lev Manovich ha ricostruito una sorta di genealogia dello schermo: dal termine che fino al XIX secolo indicava una barriera protettiva, un filtro, una parete, passando per la tela del quadro e lo schermo spettacolare della lanterna magica, fino ad arrivare al cinema, allo schermo televisivo, al monitor del computer e alla sua presunta scomparsa con l’avvento della realtà virtuale. La storia dello schermo, secondo Manovich, si declina in quattro tappe essenziali: lo schermo «classico», cioè quello della tela del quadro; lo schermo «dinamico», ovvero quello del cinema; lo schermo «in tempo reale», che è quello delle videocamere di sorveglianza; infine lo schermo «interattivo», quello del computer – che oggi possiamo associare allo schermo dei dispositivi mobili e che, a sua volta, tende a moltiplicarsi in una serie di sotto-schermi, display con diverse funzioni. L’ultima tappa, suggeriva Manovich ormai più di quindici anni fa, è la scomparsa dello schermo nelle esperienze interattive, nell’ambiente. È uno schermo, cioè, che diventa ambiente, artefatto inorganico che rappresenta il prolungamento ideale dell’uomo stesso.

Anche se lo sviluppo tecnologico degli ultimi anni ha smentito, almeno per il momento, la scomparsa progressiva dello schermo (così come una sua trasformazione radicale in ambiente – l’autore, nel 2001, pensava alla realtà virtuale), in Black Mirror assistiamo alla raffigurazione perfetta delle previsioni di Manovich, a un utilizzo degli schermi, cioè, come esternalizzazione estetica delle tecniche in vigore. Se, da un lato, siamo ri-ambientati in un mondo in cui vige una proliferazione di schermi, che diventano perimetro globale dell’agire umano fino a rasentare l’onnipresenza ambientale, in altri casi siamo di fronte a una ridefinizione degli spazi come realtà aumentate, in cui gli schermi non sono più distinguibili dai corpi, ma ne rappresentano una protesi, una naturale re-incarnazione, o se si vuole una esternalizzazione. Si tratta di schermi non più fisici, trasportati sulla cornea o installati nel cervello, in un eccessivo livello di mediatizzazione e tecnicità sociale.

È la condizione post-mediale di uno specchio black, nel senso di «oscuro», che, anche quando sembra mostrare e fornire informazioni aggiuntive sulla realtà, finisce per celare, coprire con un telo, fare schermo, appunto, secondo l’accezione originaria. Ma è anche uno specchio black che, perfino quando sembra spento, al sicuro, finisce pericolosamente per osservare, più che essere osservato.

Su questa scia, Black Mirror propone di ripensare gli schermi in termini archeologici: ragionando, cioè, su una sequenza di antecedenti a partire da una stessa prospettiva distopica. Gli schermi, nelle singole puntate, possono infatti agire da: a) nascondimento, partizione e inganno; b) display polifunzionale; c) filtro o rete; d) selezione, controllo e sorveglianza. In ognuna di queste funzioni, su cui torneremo soprattutto nel quarto capitolo, vi è insito un eccesso di delega che porta a una percezione tecnicamente dominata del reale.

Il mondo di Black Mirror è un mondo caratterizzato in modo irreversibile dall’azione tecnica che l’uomo esercita sull’ambiente. Un mondo in cui vige una dimensione «tecno-estetica», cioè una dimensione in cui l’uomo è sempre al centro della narrazione proprio grazie alla sua sensibilità e capacità di immaginazione. Una visione del mondo apparentemente distopica e pessimista, che immagina però non tanto una società governata dai media, ma un futuro dominato dagli uomini attraverso i media. Sicuri che la giusta chiave interpretativa per comprendere Black Mirror risieda in tale sottile differenza, vorremmo pertanto ribaltare lo scetticismo sull’eccesso di delega ai dispositivi tecnologici.

La domanda è: chi domina chi? Siamo di fronte a un’evidente invasione della tecnologia nella sfera privata, oppure a una sensibilità umana “naturalmente” prolungata in artefatti, a un continuo processo creativo di esternalizzazione del sé, ovvero di naturale evoluzione tecnologica dell’umano, storicamente determinato dagli eventi e dal contesto? Per dirla in altri termini: è davvero la tecnologia che non permette più di fare esperienza sensibile del mondo oppure, di contro, sono proprio i media, i dispositivi tecnici che consentono di entrare nel mondo, rendendolo finalmente intellegibile? Se, infatti, negli episodi delle prime due stagioni i personaggi appaiono sopraffatti dalla tecnologia, che non riescono a governare come vorrebbero, dalla puntata speciale White Christmas, ma soprattutto dalla terza stagione, i protagonisti sembrano ampiamente addestrati alla tecnica, consapevoli e responsabili dei loro processi di rimodellamento o esternalizzazione attraverso i media.

Tale riflessione antropocentrica sul rapporto tra uomo e mediazione tecnica del reale è strettamente connessa al tema della memoria e della temporalità, che emerge nella serie, ancora una volta, in una dimensione metatestuale. Nelle sue considerazioni sulla temporalità storica, il filosofo tedesco Reinhart Koselleck ha osservato come il nostro presente sia sempre situato a metà tra un «presente passato», ovvero gli eventi del passato che sono ormai “incorporati” nella memoria e possono essere ricordati, e un «futuro presente», ovvero quell’orizzonte di aspettative di eventi futuri di cui non si è ancora fatta esperienza. Partendo dall’assunto che non esiste storia, appunto, che non sia costituita intrinsecamente sia da esperienze che da aspettative, l’ipotesi è che la dimensione temporale su cui riflette Black Mirror nella sua interezza non sia tanto un futuro distopico quanto, nella prospettiva filosofica appena tracciata, un presente parallelo in cui coesistono esperienze passate incorporate ed esternalizzate dai media assieme ad aspettative e preoccupazioni future sugli esiti di una delega completa ai dispositivi tecnologici.

In questa dimensione temporale la riflessione sulla memoria si configura in tutti i suoi riverberi etici e politici: in Black Mirror, infatti, la memoria dei personaggi è sì mediata dai dispositivi, in una esternalizzazione tecnica dei ricordi personali, ma assume soprattutto una forma di vita autonoma che conferisce storicità alle immagini del passato, proiettate direttamente nella mente e dalla mente degli uomini. In altre parole: si tratta di una memoria “visualizzata”, attraverso cui vengono ridescritti e ridefiniti, nel presente, gli spazi e gli ambienti sulla base di esperienze del passato e aspettative nel futuro.

Il caso di San Junipero è forse quello più eclatante: qui, infatti, i ricordi della vita dei personaggi vengono utilizzati come elementi descrittivi di una realtà parallela, in cui è possibile “soggiornare” per tutta la vita. In questa prospettiva, la componente pessimista del distopismo può essere momentaneamente accantonata: attraverso il recupero della memoria delle esperienze passate, e la possibilità di credere in un futuro alternativo, l’atrofizzazione della sensibilità insita nelle forme di delega ed esonero lascia il posto a una credenza a suo modo positiva, quella cioè in una esternalizzazione totale del sé, fondata sulla possibilità di immaginare una nuova relazione tra il soggetto e l’ambiente mediale che lo circonda. Ripensare la memoria come un grande archivio elettronico di immagini digitali – così come nella scena finale di San Junipero, appunto – potrà aiutare a concepire e immaginare, in termini certamente più positivi, il rapporto futuro tra esperienza sensibile e tecnologia: che sia proprio in questo episodio, quindi, la chiave interpretativa di tutti gli altri?

Questa apertura su quella che è stata definita dimensione tecno-estetica del rapporto tra memoria e futuro non dovrà, però, trarci eccessivamente in inganno, o portarci fuori strada. Le più volte richiamate riflessioni di Black Mirror sui concetti di delega ed esonero al dispositivo tecnologico rimangono, infatti, problematiche e, a loro modo, irrisolte. Per provare a sciogliere questi nodi, conviene richiamarci brevemente al concetto di «dispositivo» così come elaborato a proposito del celebre Panopticon di Jeremy Bentham, modello architettonico di un carcere a pianta circolare al cui centro viene posta una torre di controllo circondata da una serie di celle a raggiera. Secondo una relazione di visibilità asimmetrica, infatti, dalla torre è possibile sorvegliare strategicamente tutte le celle, mentre da queste ultime non sarà invece possibile rintracciare la fonte dello sguardo osservante. Il dispositivo di sorveglianza panottico elaborato nel 1791 da Bentham, potenzialmente applicabile a una molteplicità di ambienti, viene riconsiderato da Michel Foucault come l’emblema dell’avvento di una «società disciplinare» in epoca moderna che, nel suo assumere una forma tecnologica nel corso dei secoli successivi, condurrà a una sempre più cospicua riduzione della soggettività personale, fino ad arrivare a immaginare una «società dello spettacolo» come un gigantesco e diffuso dispositivo di controllo, naturale evoluzione dell’onnipresente occhio del Big Brother orwelliano.

Se il cinema contemporaneo post-11 settembre ha rappresentato un terreno fecondo di tale riflessione sul dispositivo cinematografico – basti pensare, tra tutti, a Minority Report (2002, Steven Spielberg) –, già dalla prima stagione di Black Mirror, il tema del controllo e della sorveglianza degli individui si manifesta come una questione portante dell’intera narrazione verticale della serie, che si approfondirà soprattutto nel corso delle stagioni successive. Tuttavia, in quasi tutti gli episodi che ne fanno menzione si manifestano una serie di tentativi di «profanazione», ovvero di sottrazione a tale condizionamento tecnico-politico e di restituzione allo spazio comune della propria soggettività. È la stessa scheggia che, all’inizio di ogni puntata, viola con irruenza l’asetticità di uno schermo nero e invisibile; dalla crepa, dunque, traspare il titolo della serie, prefigurando una possibile fuoriuscita da quella nerezza apparentemente impenetrabile. Si tratta, però, di un richiamo a tentativi di profanazione quasi sempre falliti – di cui si farà largamente menzione nel quarto capitolo – che prefigurano, ancora una volta, uno scenario pessimista: è nel riflusso e nell’impossibilità di far emergere qualsiasi tipo di conflittualità che sembra risiedere l’invincibilità di un dispositivo che, in alcuni casi, finisce addirittura per automatizzarsi ed emanciparsi dall’uomo che dovrebbe governarlo, quasi fosse un moderno Frankenstein. Se gli obiettivi a 360° finiscono, quindi, per ri-mediare sia le soggettività che gli spazi ambientali, la natura finisce per essere prolungamento stesso di una configurazione tecno-estetica.

Di fronte alla varietà di esiti e possibilità che ci propone ogni episodio di Black Mirror, il dispositivo andrebbe pertanto riconsiderato in modo meno rigido e deterministico, ovvero come elemento finale di un processo storico di riconfigurazione statuale, di un «assemblage» di varie forme di significati e sperimentazioni. Così, il dispositivo può arrivare ad assumere un valore polifunzionale: obiettivo, proiettore, schermo, spettatore e ambiente insieme. Dispositivo di sorveglianza, ma anche di rimediazione; di controllo, ma anche di supporto. Uno specchio nero che può essere un assemblaggio di tutte queste cose insieme, potendosi trasformare da oggetto apparentemente osservato a soggetto inconsciamente osservante.

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