Antichi Maestri #2. Bianciardi, il precettore di lusso e la Telescuola

Continuiamo il percorso nella galleria degli Antichi Maestri, frammenti di voci che osarono pensare e scrivere anche di scuola e istruzione, tralasciando impudentemente gli anglismi, la valutazione, le competenze-chiave, la progettazione. Pubblichiamo questa settimana due frammenti di Luciano Bianciardi entrambi tratti da L’antimeridiano ( II voll., a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Isbn Edizioni, Milano 2008). Il primo frammento (vol. II, pp. 891-893) è tratto da un articolo sul programma televisivo Telescuola, pubblicato da «Le Ore» il 14 marzo 1963.

Il secondo frammento (vol. I, pp. 1938-1939) risale invece ai tempi della frequentazione dei corsi universitari a Pisa ed è datato dicembre 1940: si tratta di poche righe diaristiche dedicate ad un insegnante, il filosofo Guido Calogero. Nei tanti anni che separano questi frammenti Bianciardi sembra mantenere l’ironica, amara, convinzione che l’insegnamento sia cosa umanissima: nessuna Telescuola vomitante competenze potrà mai sostituire l’empatica goffaggine del professor Calogero.

Solo quando, leggendolo, ci riesce di trasformare un tutto,
una cosa finita, compiuta, in un frammento,
solo allora ne traiamo grande diletto, a volte addirittura un diletto grandissimo.

(T. Bernhard, Antichi Maestri, tr. it. di A. Ruchat, Adelphi, Milano 1992)

Sono cinque ore e mezzo di trasmissione quotidiana, per sei giorni alla settimana fanno trentatré ore: Telescuola è la rubrica più ricca di tutto il programma. Eppure non se ne parla mai, dando per scontato che questo non è uno spettacolo. E invece provate ad accendere l’apparecchio di mattina o nel primo pomeriggio, e vedrete. Ecco, compare la maestra di musica, è una bella signora con la voce impostata spiega le crome, poi chiama Cinzia alla lavagna, e la fa solfeggiare. No, non con la mano, come succedeva un tempo. Cinzia adesso solfeggia con un tamburello. Poi danno la parola alla concertista D’Albore, che ha con sé due violini, uno intero, lucido e antico, e con quello fa sentire un accordo di settima. L’altro è smontato, e ci spiega la nomenclatura, le fasce, l’anima, il ponticello, la chiocciola e i piroli.

I sussidi didattici, come si chiamavano un tempo, sono enormemente aumentati. Noi ragazzi, al massimo in aula si vedeva una volpe impagliata. Ora, c’è l’inserto filmato per spiegare la geografia; la maestra d’italiano, se deve leggere una poesia di Alfonso Gatto, chiama lui in persona, il poeta, che la commenta, e siccome deve spiegarla a quattro ragazzetti, risulta chiarissimo anche a noi grandi.

C’è un maestro di Ferrara con la voce un po’ prelatizia che mostra e commenta i giornaletti scolastici ciclostilati giunti da ogni parte d’Italia. È la scuola attiva, il learning by doing. Certi ragazzi del Molise chiedono se possono considerarsi legittimi eredi dei sanniti, e quando finalmente avranno l’autonomia. Ma il maestro, seppur concede l’origine sannita, non si compromette sulla regione. «Ne hanno discusso cinque anni in Parlamento, e voi pretendete che vi dia un parere io?» E gli abitanti di Sassoforte in comune di Roccastrada, a proposito, si chiamano sassofortesi? No, il signor maestro, si chiamano sassofortini.

[…] Però viene un dubbio: questa Telescuola non è per i ragazzi che non possono frequentare le scuole ordinarie? Per quelli che non hanno aule, né mezzi? E se così stanno le cose, non è un po’ come dare la governante inglese a bambini che in casa loro non abbiano mai visto il burro? In altre parole, una spesa senza dubbio ingente non avrebbe potuto destinarsi a fare le scuole che mancano?

Di più: tutta questa ansia di insegnare divertendo, di succhiare la pappa, di condirla, di colorarla, di addolcirla, giova davvero all’efficacia dell’insegnamento? Il dubbio viene quando senti in giro tanti giovanottini così preparati, così informati, così saputi, ma anche un po’ troppo scarsi di entusiasmi e di passioni, questi giovanottini per cui tutto è «interessante», non di più. E si capisce perché. Perché la cultura l’hanno avuta troppo a buon mercato. Si può anche sorridere, certo, se un amico scopre Verdi a quarantacinque anni, ma è sommamente positivo che lo faccia con lo stesso entusiasmo di quando, a venti, scoprì Joyce, o Croce. Infatti fu una scoperta, non una registrazione di dati. Ed egli dovette inventare anche gli strumenti per quella scoperta.

È un dubbio, ripetiamo, solo un dubbio. Ma viene, quando ripensi alla fatica delle cinque declinazioni, e vedi sullo schermo il maestro che fa: «Salvate discipuli. Incipit lectio duodequadregesima, pars prior. Surge, Antonie, e scamno et veni ad me». Certo, da grande quest’Antonio non odierà il latino come lo odiano molti anziani. Ma siamo poi certi che lo amerà, che lo prenderà sul serio?

Ad un mio professore

Lo so, caro professor Calogero: un giorno avrete le scarpe strette, soffrirete immensamente, sarà un dramma per voi. E di questo dramma personale voi farete il dramma dell’umanità, farete la storia del vostro dramma, cominciando dall’umanità dei tempi di Talete e concludendo con le vostre scarpe che vi fanno soffrire.

E non vi so dar torto: un giorno, a scuola, vi siete accorto che una ragazzona dai seni enormi, nel primo banco, vi guardava negli occhi, diceva di sì con la testa, ma capiva poco, anzi nulla. Da quel giorno non vedeste altro che quella ragazza, quei seni e quella testa che accennava, passivamente, di sì: fu il vostro dramma. […].

Ed allora avete immaginato che anche Socrate, vostro antenato, fosse angustiato dallo stesso problema, che Parmenide ed Eraclito non riuscissero a farsi capire dalle bambinone elleniche, che Kant battesse il testone pieno di metafisica sui seni massicci, fisicissimi, delle bionde tedesche, che Hegel sognasse la notte una testa che accenna di sì. Avete una gran paura delle parole, temete che compromettano le cose stesse, che insomma, dicendo “l’aeroplano sale”, qualcuno intenda un aereo che si chiami cloruro di sodio. Temete che il pio bove del Carducci possa essere un pacifico borghese, un commendator Pio Bove, con due maiuscole. […].

Ma non abbiate paura, non vi agitate: sì, sì, siete bello, molto bello, come Paride e vecchio vecchissimo, come Matusalemme. Ma non vi agitate, vi ripeto, ci sono io: piccolo piccolo, nell’ultimo banco, con un fiore in mano, vi comprendo e vi perdono. Direi quasi vi amo.

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