Aua: Rasmussen nel grande Nord

L’esploratore Knud Rasmussen e l’incontro con uno sciamano inuit.

«Con quell’aria limpida si poteva vedere lontano in ogni direzione e nell’atmosfera tenue c’era quel soffio di irrealtà che così bene si addice a un paesaggio artico. Nel vederci uscire, i cani si alzarono intonando il loro uniforme mugolio – un canto alla grande, monotona notte invernale».

È uno dei tanti passaggi pregiati di Aua, di Knud Rasmussen, esploratore danese che nei primi anni del Novecento guidò una spedizione attraverso il Canada artico, partendo dalla Groenlandia e arrivando in Alaska.

Da quel viaggio artico e da quella esperienza di ricerca, Rasmussen trasse un volume di circa mille pagine intitolato Dalla Groenlandia al Pacifico (1921): Aua, appena pubblicato da Adelphi e curato da Bruno Berni, ne raccoglie le parti più interessanti. Di quel consistente libro Rasmussen avrebbe poi pubblicato una versione breve per il grande pubblico, Il grande viaggio in slitta (1932), la cui edizione italiana è peraltro curata per Quodlibet dallo stesso Bruno Berni. Per questo volume adelphiano, Berni ha invece operato una selezione concentrata in particolare sulla figura degli sciamani delle tribù inuit toccate dagli esploratori danesi e, ancora più in particolare, su uno di loro: Aua.

L’obiettivo della spedizione era lo studio dei diversi gruppi raccolti sotto il nome di Inuit, nell’attuale territorio canadese. Come spesso avveniva all’epoca, tale intento etnografico non era distinguibile da altri obiettivi assegnati alle spedizioni di quel tipo: indagini archeologiche, studi naturalistici e geologici, dati geografici, e così via. Si tratta di aree del sapere che non erano, né sono, estranee alle mire di controllo e sfruttamento di una terra; di questo tema e della sua declinazione contemporanea si occupa Marzio G. Mian nel suo Artico. La battaglia per il grande nord, peraltro oggi che le temperature del Polo Nord raggiungono picchi inauditi.

Nel suo A History of Polar Exploration, del 1959, L. P. Kirwan scrive: «Rasmussen collegò fra loro molte delle scoperte faticosamente ottenute dai cacciatori di pellicce e mercanti canadesi e dagli ufficiali della marina britannica nel diciannovesimo secolo». Cacciatori, mercanti e ufficiali: il bianco del grande nord non è una pagina bianca solo agli occhi degli esploratori o delle lettrici e dei lettori immancabilmente attratti dai loro resoconti (sottoscritto compreso). Basti pensare alle ragioni che hanno spinto Nick Middleton a inserire anche la Groenlandia nel suo Atlante dei paesi che non esistono:

Gli inuit ci vivono da quattromila anni, ma non si sono mai avventurati verso l’interno. Non ha molto senso: è soltanto un’enorme massa di ghiaccio, spessa chilometri e priva di vita. […] La scarsa popolazione umana non ha avuto un’amministrazione centralizzata prima dell’inizio della moderna colonizzazione, intorno al 1720. Senza alcuna organizzazione delle comunità locali, gli abitanti non erano interessati a difendere il proprio potere, quindi colonizzare la Groenlandia fu un’impresa pacifica.

Se pensiamo a quanto oggi un etnografo contemporaneo sia opportunamente chiamato a fornire un gran numero di rassicurazioni etico-metodologiche rispetto alla correttezza del rapporto con i suoi “informatori” sul campo, fa sorridere quanto troviamo nella prima parte del libro, rispetto al primo contatto fra Rasmussen e una “indigena”: «La donna emise subito un acuto strillo, afferrò per la collottola il cucciolo spaventato e si diede a correre con tutte le forze verso casa. Ma quella fuga in preda al panico fece impazzire ancora di più i cani, che inoltre percepivano già il sentore dell’insediamento e ci trascinarono a una tale velocità che, passando accanto alla fuggitiva, ebbi giusto il tempo di afferrarla scaraventandola rudemente sul mio carico. Rimase lì seduta col terrore nello sguardo. Non potei fare a meno di scoppiare in una risata». Alla faccia della partecipazione libera e volontaria alla ricerca. Ma altri tempi, altri luoghi (forse). Peraltro la questione del rapporto di potere fra l’esploratore e gli “informatori” locali emerge anche quando all’accampamento dove si trovano Rasmussen e i suoi uomini arriva un gruppo di inuit in difficoltà, guidati da un anziano vicino al congelamento: Rasmussen gli dice che «avrebbero potuto fermarsi un paio di giorni, se era disposto a rispondere a parecchie domande che gli avrei posto».

Oltre alle storie, leggende, credenze e altri elementi della cosmogonia inuit, Rasmussen racconta la quotidianità del gruppo da cui viene accolto con una sorta di benevolenza sempre stupita. Le sue descrizioni dei luoghi sono spesso di grande potenza evocativa: «Era la prima volta che entravo in un grosso complesso di igloo ingegnosamente collegati e che vedevo un’architettura di neve. […] Lunghi ghiaccioli scintillanti pendevano accanto alle porte d’ingresso e brillavano alla luce soffusa della lampada a grasso. Sembrava più una grotta di stalattiti che una capanna di neve».

L’effetto che può produrre tale qualità della scrittura e tale fascino delle situazioni evocate è quello di far passare in secondo piano, nella percezione del lettore, le problematicità – metodologiche, di potere, di approccio e così via – della presenza di Rasmussen a vantaggio di un godimento di tipo direttamente letterario, con tutto quel che ne può conseguire. Del resto la comparsa di Aua, per esempio, sembra arrivare direttamente da un romanzo di Salgari: «D’improvviso dall’oscurità di fronte a noi spuntò una lunga slitta con la muta più selvaggia che avessi mai visto. Quindici cani bianchi a tutta velocità, con sei uomini a bordo. E si precipitarono dritti verso di noi con tale energia che percepimmo il sibilo. Un ometto con una grande barba, completamente ghiacciato in volto, saltò giù e si diresse verso di me. Si fermò e, porgendomi la mano alla maniera dell’uomo bianco, indicò verso terra in direzione dei loro igloo. I suoi occhi intelligenti mi scrutavano vivaci e mi presentò il suo saluto con un sonoro “Qujangnamik”: un ringraziamento agli ospiti che arrivano. Era lo sciamano Aua».

E anche episodi tanto affascinanti quanto divertenti come questo: «Raggiante di gioia, “il pollice” [membro del gruppo di Aua] raccontò di essere appena tornato a casa dopo un viaggio di tre anni. Aveva il compito di portare una lettera a un bianco, laggiù dall’altra parte di York, sul fiume Nelson. […] Per tutto quel tempo sua moglie lo aveva aspettato al vecchio insediamento e ora, per giunta, gli faceva la sorpresa di una figlia nata il giorno precedente al suo ritorno a casa». Un viaggio di tre anni, una figlia che nasce proprio al momento del ritorno: sarà malizia occidentale, ma i conti non tornano.

Rasmussen non è generalmente annoverato fra gli antenati, consapevoli o meno, dell’antropologia moderna, una disciplina che difficilmente potrebbe “perdonare” una postura come quella dello scritto dell’esploratore danese: «Non dovevo far altro che chiedere e queste persone avrebbero aperto subito la profondità della loro anima e, grazie alla sincerità del loro spirito, con la loro primitiva saggezza avrebbero raccontato molte cose singolari che hanno origine nell’infanzia dell’umanità. Ed è una scoperta che non smette di sorprendere, il fatto che davvero, nella nostra rapidissima epoca, ci si può trovare di fronte a persone che sembrano appena uscite dalla mano della natura». Peraltro, il suo Dalla Groenlandia al Pacifico uscì nel 1921, ovvero solo un anno prima dell’opera considerata la prima etnografia moderna: Gli argonauti del Pacifico occidentale di Bronislaw Malinowski.

Sempre a proposito di Rasmussen e antropologia, da notare che, non lontano dal suo percorso in slitta, negli anni precedenti c’era già stato un grande antropologo che aveva studiato quelle stesse popolazioni: Franz Boas, di origine tedesca ma trapiantato negli Stati Uniti. All’inizio del Novecento, Boas si occupò degli Inuit e della costa canadese del Pacifico, e pubblicò il suo fondamentale L’uomo primitivo nel 1911.

In quegli anni, gli attriti dovuti alla repentina annessione politica, economica e sociale degli inuit e delle loro terre non mancava di produrre episodi violenti. Pensiamo a questo, sempre da Aua: «Il selvaggio era stato in prigione e aveva imparato a conoscere l’uomo bianco, e ora, segnano dal marchio della morte e in balia della malattia contagiosa [la tubercolosi], veniva rispedito dai suoi connazionali in un luogo dove non c’erano medici. Ma la giustizia aveva fatto il suo corso».

La sfera della giustizia non è mai separabile da, fra le altre, quella religiosa, e non è un caso che Rasmussen abbia incontrato Aua e la sua gente in un momento di transizione dal paganesimo alla cristianizzazione. Constata che tanto le credenze sciamaniche che quelle cristiane, appena arrivate in quelle popolazioni, lì avessero gioco facile perché «perché tutti vogliono credere e credono senza senso critico», e anche perché trovava «sorprendente l’elasticità con cui chiariscono e affrontano i problemi spirituali». La conversione al cristianesimo – che Rasmussen pare collocare in un livello superiore a quello delle “credenze” – era talmente veloce che, nell’accampamento, gli igloo di persone che si erano già convertite recavano una bandiera bianca che sventolava al vento artico. Fu una conversione “meccanica” in cui agli amuleti si sostituirono delle piccole croci e ai racconti pagani delle storie bibliche, e «così adesso era considerato naturale mettere il crocifisso al collo anche ai cani».

Ma, come sempre, la colonizzazione religiosa va di pari passo con quella economica e politica: il gruppo di Aua, al momento dell’arrivo dell’etnografo danese, stava da un relativo isolamento alla dipendenza dalle merci d’importazione quali armi, petrolio, tabacco e così via.

Recatosi nell’artico in quella fase storica, l’approccio di Rasmussen era quindi da “etnografia d’emergenza”, ovvero una corsa alla raccolta di quante più informazioni possibili a proposito di un gruppo i cui tratti culturali specifici stanno sparendo, sciogliendosi nell’incontro religioso, coloniale, militare, e così via. Per non parlare di quei casi in cui a sparire non sono i tratti culturali di un gruppo, ma il gruppo stesso.

Quello che però pare sfuggire a Rasmussen, o quantomeno pare mancare dalle sue riflessioni nei testi nella selezione di questo gran bel libro, è che anche lui è parte integrante e vettore diretto di quella trasformazione, che fosse una transizione o una dissoluzione – sempre che non siano la stessa cosa.

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