Assedio alla toga di Loris Mazzetti e Nino Di Matteo

Se non vogliamo che tutto rimanga com’è

Pubblichiamo di seguito, in anteprima nazionale, un estratto del libro-intervista (uscito per i tipi di Aliberti editore) di Loris Mazzetti, giornalista, regista e dirigente di Raitre, a Nino Di Matteo, magistrato antimafia da anni impegnato nelle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia e presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo. Un libro per molti aspetti illuminante, per la sua chiarezza e lucidità, in cui Di Matteo parla – e lo fa perché sa: cosa non comune, di questi tempi – di mafia, politica, istituzioni, P2, Riforma della giustizia, dipanando il filo che intreccia le une alle altre. È tutto davanti ai nostri occhi: come abbiamo fatto a non accorgercene prima?

LORIS MAZZETTI: All’inizio di questo nostro dialogo hai introdotto il rapporto tra mafia e politica. Mi ricordo quello che disse il pentito Buscetta a Falcone quando questi aveva iniziato a indagare sul rapporto tra Cosa nostra e politici: «Decidiamo chi di noi deve morire per primo». Questa frase il boss l’ha così motivata: «Se già è un problema parlare di Cosa nostra perché non ci sono prove, perché non esistono tessere, perché non esistono atti di notaio, se già è una difficoltà parlare di mafia, immagini un po’ parlare di mafia e politica insieme». Buscetta avvisa Falcone del rischio che corre. Il magistrato aveva intuito che il cancro stava nel rapporto tra mafia e politica. Da allora cosa è cambiato?

NINO DI MATTEO: Oggi sappiamo che il rapporto tra mafia e politica è il cuore del problema. Soprattutto in un momento storico come questo, in cui lo Stato è riuscito a colpire duramente l’ala militare di Cosa nostra, ci si deve rendere conto che per sconfiggere definitivamente la mafia è assolutamente necessario recidere i suoi rapporti con la politica. Sotto questo punto di vista non è cambiato molto rispetto ai tempi in cui Buscetta volle sottolineare che indagare il rapporto politica-mafia significava inoltrarsi in un terreno minato. Anche oggi, come allora, quando si comincia a indagare e ci si avvicina veramente al cuore di questo nodo, iniziano le polemiche, si mette in moto la delegittimazione e l’isolamento dei magistrati che conducono quelle inchieste. Il problema è più generale e riguarda anche il fenomeno del pentitismo. Molti tra gli attuali collaboratori di giustizia (persone abituate, in quanto ex mafiosi, a vivere di segnali, ad annusare qualsiasi tipo di vento che spira nell’opinione pubblica e nella politica), coltivano tuttora quella consapevolezza amara che aveva Buscetta; capiscono che, in questo momento, rivelare le loro conoscenze sul rapporto tra mafia e politica potrebbe creare danni e pregiudizi di vario genere. Non tanto il pericolo di classiche ritorsioni mafiose, quanto quello di venire delegittimati attraverso strumentali polemiche giornalistiche, con il rischio concreto perfino di perdere ogni protezione dello Stato. Non è un caso che nei confronti di uno dei collaboratori più recenti, Gaspare Spatuzza, inizialmente i giornali, l’opinione pubblica e persino autorevoli esponenti politici della maggioranza avevano sostenuto l’importanza delle sue dichiarazioni, fino a quando non si è scoperto che Spatuzza stava raccontando di avere saputo dai boss Filippo e Giuseppe Graviano di loro rapporti con Dell’Utri e tramite quest’ultimo con Berlusconi. In quel preciso momento è scattato il solito e collaudato meccanismo mediatico. Per noi addetti ai lavori ridicolo e ininfluente sulle valutazioni processuali, per l’opinione pubblica, invece, disorientante. Le maggiori testate nazionali di stampa e tv hanno, ad esempio, raccontato la deposizione processuale dei fratelli Graviano (che ovviamente, come fa qualsiasi uomo d’onore non pentito, hanno smentito la dichiarazione del collaboratore) come la pietra tombale sull’indagine e la dimostrazione della falsità delle rivelazioni di Spatuzza. In decine di processi ho acquisito in dibattimento dichiarazioni di collaboratori di giustizia che, avevano avuto da Totò Riina l’ordine di andare a uccidere qualcuno, e dello stesso Riina che, chiamato a rispondere, tutte le volte ripeteva la solita storia: «Io quel pentito nemmeno lo conosco, non gli ho mai detto o ordinato nulla». Quei processi si sarebbero dovuti fermare perché Riina aveva smentito il pentito? No. […]

Alcune volte mi trovo a pensare con preoccupazione alla possibilità che un atteggiamento mentale di eccessiva “prudenza” nell’approccio alle inchieste sui rapporti tra la mafia e la politica, possa diffondersi anche all’interno della magistratura. Temo che, soprattutto nel contesto delle prospettate riforme che tendono ad aumentare l’incidenza e il peso della politica nel sistema di autogoverno della magistratura, i giudici possano prima o poi – nell’ottica di non compromettere la loro carriera e la loro tranquillità – più o meno consapevolmente rinunciare in partenza ad approfondire questioni così delicate, o decidere seguendo criteri di “eccessiva prudenza”, diversi da quelli adottati per qualunque altro imputato.

L’ultimo grande pentito, Stefano Lo Verso, autista e postino di Bernardo Provenzano che ha fatto i nomi del presidente del Senato Renato Schifani come amico ed ex socio di importanti mafiosi, nell’aula bunker dell’Ucciardone alla domanda: «Perché solo dopo cinque mesi ha fatto i nomi dei politici?» – oltre a Schifani Lo Verso ha parlato del senatore Dell’Utri e del ministro Romano – ha risposto: «Volevo farli in aula. Su questi argomenti si muore».

Con quella frase così dura e suggestiva credo che il collaboratore abbia voluto riassumere uno stato d’animo più complesso che scaturisce proprio da tutto ciò che dicevo prima. L’aumento esponenziale dei rischi, e della probabilità di non essere creduti, connesso all’innalzamento del livello degli argomenti trattati nel corso della collaborazione. […]

Da cittadino e, spero, attento osservatore della realtà in materia di giustizia e di processi, ti dico che ho massima considerazione di qualsiasi opinione. Mi fa rabbia però la sempre più diffusa mancanza di un elementare rispetto della verità dei fatti, quando sono incontestabilmente accertati. Un esempio: in Italia quante persone, anche tra i lettori di quotidiani e gli assidui ascoltatori di notiziari televisivi e radiofonici, sanno che in una sentenza divenuta definitiva è sancito che il senatore Giulio Andreotti «ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi», che «ha quindi a sua volta coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss, ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ha loro chiesto favori, li ha incontrati, ha interagito con essi, ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi come l’assassinio del presidente della regione Piersanti Mattarella, nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati»? Quanti cittadini sono stati messi in condizione di sapere che nella sentenza definitiva numero 1564 del 2 maggio 2003, emessa dalla Corte d’Appello di Palermo e confermata dalla Corte di Cassazione, sono stati consacrati questi passaggi? […]

Come possono alcune centinaia di migliaia di criminali aderenti alle varie mafie tenere in scacco un Paese intero?

Penso che il vero problema è che tra i restanti milioni di cittadini ce ne sono tanti che, pur non essendo mafiosi, non disdegnano di fare affari con la mafia, di riciclare capitali mafiosi nelle proprie iniziative imprenditoriali, di accordarsi con i mafiosi per squallido personale tornaconto o semplicemente per quieto vivere. In alcune realtà, soprattutto meridionali, è ancora diffusa la considerazione che Cosa nostra rappresenti qualcosa di necessario e ineluttabile; un fenomeno che addirittura può sostenere il mercato del lavoro e l’economia locale. Nella politica i collusi con la mafia sono relativamente pochi, ma sono tanti coloro i quali, pur non essendo collusi, non vogliono rinunciare, esponendosi in prima persona contro la mafia, al bacino di consenso elettorale che Cosa nostra è tuttora in grado di garantire. In questo momento nel Paese, anche a causa di una non corretta informazione, si sta diffondendo una colpevole sottovalutazione del fenomeno. Sta affermandosi l’idea, assolutamente infondata, che la mafia sia soltanto Riina, Brusca, Provenzano, Bagarella e gli altri macellai, oggi finalmente sepolti dagli ergastoli.

Quella mafia che per le strade di Palermo e di Corleone uccideva e ora non uccide più, quella che metteva le bombe sotto le case dei magistrati e che ora non lo fa più e che quindi, si dice, non c’è più. Noi che indaghiamo, sappiamo invece che la mafia è tuttora molto presente, un vero e proprio Stato parallelo che condiziona ancora oggi il mercato del lavoro, delle forniture, gli appalti pubblici e privati, che orienta perfino il flusso dei finanziamenti erogati dagli enti pubblici. Ma quanti ne sono consapevoli? Tante volte mi sono sentito dire, anche da persone per altro verso avvedute e intelligenti: «Ormai, catturato Provenzano, la mafia è sconfitta, è un fenomeno in via di imminente estinzione». Non è così. Ciò che è più grave, è che in molti hanno interesse a far credere che sia così. […]

Altro punto fondamentale è il rapporto della criminalità organizzata con il potere.

Non dimenticherò mai le parole pronunciate da Salvatore Cancemi, un importante mafioso poi diventato collaboratore di giustizia. Cancemi (che all’epoca delle stragi di Capaci e via D’Amelio faceva parte della cupola), ha riferito ai magistrati che lo interrogavano: «Se Cosa nostra non avesse avuto da sempre gli agganci con lo Stato, se non avesse intrattenuto e mantenuto rapporti con la politica e con le istituzioni, sarebbe stata soltanto una banda di sciacalli. Sarebbe stata debellata in pochissimo tempo come qualsiasi altra banda di criminali comuni». La mafia (lo dimostrano le parole di quel capo), ha sempre avuto ben chiara la consapevolezza della centralità del tema dei rapporti con la politica e con il potere. Dall’altro lato, invece, non credo che lo Stato abbia sempre dimostrato analoga consapevolezza della necessità di recidere qualsiasi possibilità di rapporto tra politici, amministratori e imprenditori, e la mafia. Fino a quando lo Stato non avrà acquisito quella consapevolezza e agito di conseguenza, continueremo a fare qualche passo in avanti soltanto in una direzione: quella del contrasto all’ala militare, lasciando colpevolmente crescere le attività più pericolose di Cosa nostra, come la sua capacità di infiltrazione nell’economia e nella politica. Purtroppo, in questo momento, non colgo segnali incoraggianti in questo senso.

Chiariamo bene questo punto. Stai dicendo che esistono due strategie nella lotta alla mafia: quella dei magistrati, degli inquirenti, e quella dello Stato, cioè del legislatore, del governo – anzi, sarebbe più giusto dire dei governi – che non mirano a colpire nel cuore l’organizzazione criminale. Come è possibile che un Ministero come quello della Giustizia, pieno di magistrati, sia lasciato libero di decidere solo in funzione della convenienza politica, come ai tempi della Dc di Andreotti?

Consentimi di fare una precisazione: continuo a indignarmi quando sento parlare di guerra tra la politica e la magistratura. Credo che, soprattutto negli ultimi anni, non ci sia stata una guerra nel senso convenzionale del termine, con due parti che si fronteggiano vicendevolmente. Abbiamo invece assistito a una offensiva unilaterale, violenta, senza precedenti, organizzata da una parte consistente della politica che ultimamente, per difendere se stessa, ha deciso di delegittimare la magistratura, tentando di impedire che i giudici facciano il loro lavoro. Una guerra dettata da un’esigenza e una volontà di fondo: quella di esercitare il proprio potere senza né limiti né contrappesi di alcun genere. Anche in tema di mafia, ogni volta che le indagini e i processi hanno mirato in alto nei confronti di politici, esponenti delle istituzioni o ricchi imprenditori, abbiamo sempre vissuto la stessa reazione: il tentativo sottile, strisciante, vigliacco, di concentrare sui magistrati tutte le responsabilità del mancato funzionamento del sistema giustizia nel suo complesso. Una strategia ben precisa, portata avanti attraverso organizzate campagne di stampa, sistematiche accuse di politicizzazione, di strumentalizzazione a fini di potere, fino ad arrivare a definire i magistrati come categoria di «disturbati mentali», o i pubblici ministeri come persone che «nascono per desiderare il male altrui». […]

Mi sono convinto, con grande amarezza e preoccupazione, che esiste una certa linea di continuità tra i progetti della P2 e la riforma costituzionale della Giustizia di cui oggi si discute. Non è solo impressionante constatare i profili di analogia tra alcuni articoli del disegno di legge di riforma e alcuni punti del Piano di rinascita democratica, che abbiamo conosciuto grazie alle carte sequestrate nel 1981 nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Credo che al di là dei singoli punti (separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, limitazione delle competenze e dei poteri del Csm), sia comune l’obiettivo di fondo di far sì che la magistratura diventi, di fatto, un potere servente al servizio di quello politico. Non più un potere realmente autonomo e indipendente, in grado anche di controllare la legittimità dell’agire degli organismi politici, ma funzionale e collaterale alla realizzazione degli obiettivi che il legislatore di turno, il potere politico che governa in quel momento, ha individuato e indicato. Una magistratura forse in grado di reprimere i reati da strada, i crimini comuni, quelli degli immigrati clandestini e degli ultimi della società, ma sostanzialmente privata del potere di controllare la legalità nell’esercizio del potere politico, economico e imprenditoriale. Temo che sia questa la linea di fondo che lega i progetti del Piano di rinascita democratica alla riforma “epocale” della giustizia disegnata dall’ultimo governo Berlusconi. Per raggiungere l’obiettivo vi è stato anche un intervento massiccio sull’opinione pubblica, per farle credere che l’opposizione dei giudici e dei pm alla riforma sia esclusivamente corporativa e a difesa “di privilegi di casta”. Questo non è vero. È certamente in atto nei confronti della magistratura una vera e propria controriforma con chiaro intento punitivo. Il problema più grave non riguarda tanto i magistrati, ma tutti i cittadini, soprattutto quelli che appartengono alle fasce più deboli della società. La riforma mette infatti in discussione la reale tenuta di due principi costituzionali fondamentali: la separazione dei poteri e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Voglio essere chiaro: se mai questa riforma dovesse essere approvata, con una magistratura troppo “controllata” dal potere politico, verrebbero meno le garanzie, per esempio, di quei cittadini di orientamento politico avverso a quello di chi in quel momento è al governo. I cittadini non avrebbero più la garanzia di essere valutati nella loro condotta da magistrati effettivamente terzi e autonomi rispetto al potere esecutivo.

Con questa riforma cambierebbe il ruolo dei pm. L’indagine verrebbe affidata alla polizia giudiziaria. Sostanzialmente diventereste dei burocrati, dei notai con il ruolo del controllore, non sareste più i protagonisti dell’indagine. È una giusta interpretazione?

È un’interpretazione che condivido in pieno. Scendendo nel concreto, questa proposta di riforma, per la prima volta da quando è stata approvata la Costituzione, pone un limite al principio fondamentale dell’articolo 112: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Oggi di fronte a un reato, il magistrato che lo scopre deve esercitare l’azione penale, cioè deve portare alla sbarra chiunque lo abbia commesso. La riforma, invece, prevede che l’azione penale dovrebbe essere esercitata dal pubblico ministero «secondo i criteri stabiliti dalla legge». Ciò significherebbe che il legislatore di turno, quindi la maggioranza in quel momento al potere, dovrebbe periodicamente indicare quali reati le procure debbano perseguire prioritariamente rispetto ad altri, stabilire cioè nell’agenda dei magistrati quali condotte criminali devono essere perseguite e quali devono essere dimenticate o per il momento accantonate. Di fatto si verrebbe a creare, anche rispetto al crimine, un’odiosa distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B o addirittura di serie C. Sulla base di minime regole di buonsenso e delle esperienze del passato, ritengo assai improbabile che, qualora venisse approvata questa riforma, la maggioranza che governerà, qualunque essa sia, possa indicare come priorità delle procure i reati dei colletti bianchi, i delitti della casta politica, la corruzione legata ai grossi riciclaggi, la collusione tra la mafia e la politica. Ci troveremmo più ragionevolmente a registrare indicazioni di priorità che inevitabilmente riguarderebbero altri tipi di delitti: i furti, lo spaccio, le rapine, i reati legati all’immigrazione clandestina, più in generale le condotte criminose tipiche dei soggetti deboli e diseredati. Ecco perché il venir meno dell’assolutezza del principio di obbligatorietà dell’azione penale finirebbe di fatto per incidere sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

Credo che per il cittadino che vuole capire cosa cambierà con questa riforma, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale è abbastanza facile da recepire. Meno semplice è la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice.

Sottolineo che anche questo era un punto fondamentale del piano della P2. Si sostiene che i giudici sarebbero troppo spesso appiattiti sulle richieste dei pubblici ministeri. Un falso clamoroso. Le statistiche elaborate dal Ministero della Giustizia (non certo sospettabili di inesattezza o parzialità) attestano che, considerando i soli processi che vanno a dibattimento (tralasciando quindi quelli per i quali è intervenuta una richiesta di archiviazione), il quaranta per cento di essi si conclude con una sentenza di assoluzione. Ciò dimostra l’evidente inconsistenza della tesi per la quale i giudici sarebbero appiattiti sulle richieste del pubblico ministero. Se il presupposto è dunque assolutamente inconsistente che senso ha separare le carriere? Voglio partire da una constatazione che dovrebbe fare riflettere. I migliori giudici sono quelli che hanno avuto un’esperienza da pubblico ministero. Anche i migliori pm sono quelli che hanno vissuto, in precedenza, un’esperienza da giudice o che comunque, nella stessa ottica del giudice, ritengono che per arrivare alla condanna sia necessario e imprescindibile acquisire prove granitiche. Cito magistrati stimati da tutti (e considerati eroi solo post mortem): Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Saetta. Nella loro carriera hanno svolto sia le funzioni inquirenti sia quelle giudicanti, e non per questo, quando hanno esercitato funzioni giudicanti, hanno perso la loro imparzialità e la loro capacità di considerare e rispettare i diritti e le argomentazioni della difesa. […]

Vi sono altri aspetti della legge di riforma che preoccupano la magistratura?

Ne segnalo altri due, riferiti alla composizione del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura. La riforma prevede (alla faccia di quanti dicono di volere meglio separare politica e magistratura) un ampliamento da un terzo alla metà dei componenti di nomina politica del Csm. Così aumenterebbe inevitabilmente il peso della politica nelle decisioni dell’autogoverno dei giudici. Il secondo aspetto è riferito alla nomina dei componenti togati, che non risulterebbe più dalla piena e libera volontà dei magistrati elettori. La categoria degli eleggibili verrebbe infatti limitata a un numero di magistrati di volta in volta estratti a sorte. Il singolo magistrato elettore non potrebbe più indicare il collega che ritiene più capace, idoneo, imparziale, dovendo comunque scegliere nella ristretta cerchia dei colleghi sorteggiati, fossero anche inetti o incapaci. Una – per me assurda – limitazione di democrazia. La combinazione di queste due componenti aumenterebbe certamente la possibilità della politica di condizionare in maniera decisiva le decisioni del Consiglio superiore della magistratura: una situazione che dovrebbe allarmare tutti gli italiani. Un esempio: aumentare il peso dell’influenza politica su ciò che riguarda la progressione in carriera dei magistrati significa spingere il singolo magistrato a operare cercando di non “disturbare” il politico che può incidere sulla sua carriera. Di fatto indurrebbe i magistrati a un atteggiamento complessivo di eccessiva timidezza, orientato dall’esigenza di non adottare provvedimenti troppo sgraditi al potere.

Sono molte le iniziative, intraprese dall’ultimo governo Berlusconi, di richiesta di punizioni nei confronti dei magistrati per la cosiddetta “ingiusta intercettazione”: gli imputatati intercettati poi prosciolti devono essere indennizzati e il magistrato responsabile dell’intercettazione punito. Il ministro Nitto Palma aveva chiesto un intervento legislativo per punire i magistrati che esternano; la stessa riforma della Giustizia prevede una responsabilità civile dei magistrati, come per i medici o gli avvocati che sbagliano.

Rendere la magistratura sempre più burocratizzata, pavida, più attenta a non disturbare le azioni dei potenti, questo è il vero obiettivo del progetto di legge di riforma costituzionale. In questo contesto si inquadrano le norme sulla responsabilità civile. Una premessa: è assolutamente falso sostenere che oggi il magistrato è irresponsabile. Egli, per le sue azioni e per i suoi provvedimenti, può rispondere – capita spesso – penalmente, disciplinarmente, contabilmente. Anche la responsabilità civile esiste già, viene fatta valere nei confronti dei magistrati quando si dimostra che la loro condotta è stata ispirata da dolo o colpa grave. […]

Il progetto di riforma vorrebbe che la responsabilità civile del magistrato si estendesse (oltre che al dolo e alla colpa grave) a una generica e indistinta “violazione del diritto”. Un concetto talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione e strumentalizzazione. Ogni qualvolta una sentenza di primo grado viene annullata da una sentenza di secondo grado, o quando il Tribunale del riesame annulla un provvedimento del gip, o un gip non accoglie una richiesta del pm, evidentemente chi ha deciso in quel modo ha ritenuto che il diritto non è stato bene applicato da chi aveva preso la precedente decisione o formulato la precedente richiesta. In tutti questi casi, in virtù del generico e indistinto ricorso alla regola della violazione del diritto contenuta nella riforma, potrebbe scattare la responsabilità civile. Francamente mi pare un’evidente aberrazione. Vi è un’altra novità, che a me appare altrettanto preoccupante. La parte che si ritiene lesa, in qualsiasi momento, potrebbe citare in giudizio il magistrato autore del provvedimento. […]

Nel caso di approvazione della riforma quanti magistrati, in una controversia tra un semplice operaio di una fabbrica e un datore di lavoro, rappresentato da una potente multinazionale, avrebbero il coraggio di dare ragione al lavoratore?

Con l’applicazione alla lettera della riforma qualsiasi governo potrebbe, oltre a controllare l’attività del magistrato attraverso gli eventuali provvedimenti disciplinari, esercitare un’azione di intimidazione?

La Riforma ha un suo preciso filo conduttore: creare una magistratura burocratizzata che non osi disturbare il potere.

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