Una lettura di “Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci” di Matteo Meschiari.
Artico nero è stato pubblicato a novembre dai tipi di Exòrma per la collana Scritti Traversi, e si candida a essere una delle novità editoriali più interessanti dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle.
Nell’intervallo di 163 pagine dal ritmo serrato, Meschiari traccia i confini, nel contempo algidi e infuocati, di culture lontane, maltrattate e dimenticate. Territori sotto la cui superficie migrano, come acque di falda contaminate, sistemi dinamici di identità e consuetudini. Elementi originari, primordiali, assoluti.
Matteo Meschiari è un antropologo che si occupa di definizione delle culture, spazio percepito e spazio vissuto. Ha pubblicato le sue ricerche con Sellerio, Liguori e Quodlibet, muovendosi costantemente nell’ambito della saggistica (insegna antropologia e geografia all’Università di Palermo). Artico nero rompe però lo steccato puramente accademico tentando di raggiungere un pubblico più vasto attraverso una narrazione fluida ma erudita, un dispositivo letterario che si pone a metà strada tra invenzione e analisi scientifica.
Che cos’è una città? Non sono la quantità di case o l’elettricità o il supermercato o la prigione a fare una città. La città è un modo di pensarsi. Pensarsi luogo, pensarsi spazio, pensarsi paesaggio, pensarsi casa, pensarsi mondo.
La lunga notte dei popoli dei ghiacci, questo il sottotitolo di un testo diviso in sette capitoli nel corso dei quali Meschiari percorre il divenire spesso accidentato di Nord misconosciuti. Luoghi ostili, metallici, contaminati. Paesaggi remoti, desolazione totale. Inverni che durano otto mesi; estati brevi ma abbacinanti. Spazi nei quali le città, intese come agglomerati urbani e concatenamenti di sé, sono state realizzate in tempi relativamente recenti, rompendo equilibri storici di esistenze abituate a svolgersi sotto cieli infiniti di stelle.
Tarko-Sale, Russia siberiana, poco più di ventimila abitanti, temperature che possono arrivare anche a -70°C. Kautokeino, contea di Finnmark, Norvegia, tremila anime in 9.700 chilometri quadrati di superficie. Qaanaaq, la vecchia Thule, nord della Groenlandia, 640 abitanti che sono il prodotto di ondate cicliche di “trasferimenti”. Arviat, insediamento canadese della regione di Kivalliq, fino al 1989 noto come Eskimo Point, attualmente poco più di duemila residenti, tutti pescatori e cacciatori. Newtok, Alaska occidentale, un villaggio di 254 anime secondo il censimento del 2010 che a causa del riscaldamento globale rischia di scomparire.
Con il ritmo della prosa più arrembante e lo stile dell’inchiesta giornalistica, Artico nero affronta temi scottanti, storie di popoli nomadi costretti a diventare sedentari, popoli che nel corso dei decenni sono stati oggetto di programmi di ingegneria sociale sponsorizzati da vari governi: canadesi, danesi, russi, americani, norvegesi. Ordalie di sangue passate troppo velocemente sotto silenzio.
Non appena iniziamo a raccontare, stiamo già alterando la realtà, stiamo già inventando.
A pagina 11 e citando Javier Cercas, Meschiari chiarisce subito di non avere ambizioni scientifiche. Il suo è un racconto, una narrazione e come tale ha la forza dell’oralità.
Io non cerco la verità, mi interessa l’intensità. Ovviamente provo a dire la verità, ma provo a dirla in un modo che è già invenzione.
Destini incrociati. Sfortune simmetriche. Artico nero è un viaggio attraverso luoghi dai nomi impronunciabili: Pituffik, Qaanaaq, Murmánska. L’autore ci accompagna in Lapponia, Groenlandia, Canada, Alaska e Russia disegnando i confini di un Nord reso nero da crimini e misfatti, ambientali e sociali, un territorio nel quale oggi continuano a proliferare smarrimenti, sofferenze, interruzioni. E scuse fuori tempo massimo.
Come quelle che il governo canadese, seppur a denti stretti, è stato costretto a porgere per la deportazione avvenuta negli anni Cinquanta di sette famiglie Inukjuak e degli Ahiarmiut, ripetutamente portati via dalla loro terra, Ennadai Lake. Storie di assimilazione e omologazione, per troppo tempo passate sotto silenzio e che oggi, complice un tasso di suicidi assolutamente inaudito (nel solo territorio del Nunavut, trentamila abitanti totali, almeno mille tentativi l’anno), tornano drammaticamente alla luce.
Poi c’è la Groenlandia, nazione costitutiva della Danimarca (ancora per quanto?), “Terra Verde”, Grønland in danese, Kalaallit Nunaat, “Terra degli uomini” nel dialetto locale. Una terra che, nel miope immaginario occidentale, richiama mitologie, esotismo estetizzante, balene e vichinghi.
Si pensi alle case della vecchia Thule, piccoli edifici dai colori pastello, rosso blu e verde in evidenza rispetto allo sfondo di ghiaccio, un quadro idilliaco che però è uno specchio deformante. Quelle case – spiega ancora Meschiari – non sono altro che dispositivi recidenti, escludenti. La dinamica con la quale si forza un gruppo, una famiglia ad abbandonare il nomadismo per stabilirsi all’interno di quattro mura produce effetti che in termini di identità e autodefinizione possono risultare devastanti.
Il movimento nomadico incorporava il paesaggio nello spazio domestico e lo spazio domestico si dilatava fino a incorporare il paesaggio. Se il corpo si muove e la casa è un corpo, il corpo di un animale, allora anche la casa si muove: l’iglù non viene trasportato, viene ricostruito ogni volta, e la sua forma immateriale viaggia come l’anima dell’uomo viaggia con lui, seguendolo ovunque vada. Il processo di sedentarizzazione ha invece portato a una trasformazione radicale nella concezione dello spazio domestico. La casa prefabbricata non è più un corpo, non è più il “meta-animale”, la “meta-persona” che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti. Non è più in comunicazione con il fuori, non è più il fuori, è un dispositivo di esclusione e di chiusura che produce celle, fisiche e mentali, economiche e ideologiche.
La Groenlandia è uno dei luoghi con il più alto tasso di suicidi nel mondo. Ci si uccide nelle città. Città come Nuuk. Perché? Perché non ci si adatta. «Il problema nasce quando il modello sdoganato è sproporzionato rispetto all’offerta reale. Anche qui, per capirci: vedi New York in TV e ti svegli a Nuuk». Non proprio la stessa cosa.
Ma l’idea di un Artico nero non si ferma ai suicidi. Le cronache parlano chiaro. Arkhangel’sk, Russia nordoccidentale e i virus incastonati nei ghiacci; l’incidente radioattivo di Majak occorso nel 1957 nella città di Ozyorsk, oblast di Chelyabinsk, per gravità il terzo incedente nucleare mai registrato dopo Fukushima e Chernobyl; il disastro ecologico del lago Bajkal; la diffusione ad agosto del 2016 del Bacillus anthracis a Tarko-Sale Faktoriya, circondario autonomo della Jamalia, Siberia centrosettentrionale; il disastro di Thule, la caduta nel 1968 di un B-52 nei pressi di una base Usa che comportò il rilascio di quattro ordigni nucleari Mark 28.
Cronaca, antropologia e poesia. Meschiari procede per gradi, servendosi di molteplici registri, dai dati accademici (interessante anche l’apparato bibliografico nelle ultime pagine) alla forza delle parole, intesa come liricità e profondità della narrazione. Come nell’ultimo capitolo, “Avorio rosso”, che è pura finzione, di fatto un racconto breve scritto con l’abilità del narratore e la sensibilità a tratti struggente di chi sa maneggiare molto bene anche la materia emotiva.
Artico nero possiede infine anche una sua colonna sonora, sette schegge sonore proposte dall’autore all’inizio di ogni capitolo, che qui riproponiamo per concederci alla storia presente e passata di questo Nord rispetto al quale, forse, non resta che l’immaginazione: Animes de sal (Cadira); Azathoth 1 (Pär Boström); Don’t eat the yellow snow (Frank Zappa); Uqarumanniruma (Simon Sigjariak, aka Johnny Cash del Nord); An ending (Brian Eno); Babooshka (Kate Bush); Natural History (Alvin Curran).