Trilogia di un #apparecchioper: Macao

A partire da oggi, dedicheremo i prossimi fine settimana del nostro blog all’apertura di piccole finestre sulle realtà culturali che stanno presentanto il progetto #apparecchioper al bando Che fare. Cominciamo oggi con Macao.mi

Trasformare il lavoro culturale, affrancarlo dalle dinamiche coercitive e mortificanti del mercato liberale, si traduce con la messa in comune di spazi e mezzi di produzione. È un pezzo di sperimentazione che MACAO, e altri centri di ricerca e di arte indipendenti in rete fra loro, praticano fin dagli esordi della liberazione degli spazi e della loro riattivazione come luoghi prodotti dall’autorganizzazione del lavoro culturale. Nel corso del tempo i mezzi di produzione autocostruiti all’interno di questi centri sono stati usati, migliorati, implementati, scambiati tra chi ne attraversa le pratiche. Per questo motivo MACAO a Milano, S.A.L.E Docks a Venezia, L’ASILO a Napoli, hanno potenziato le pratiche di condivisione di spazi, strumenti e conoscenze, attraverso un progetto che ne mette alla prova in modo radicale e propositivo proprio la dimensione politica. Di chi sono i mezzi di produzione? Come posso accedervi se ne ho bisogno? Ci sono spazi di condivisione di idee in cui sia possibile attivare uno scambio di competenze, conoscenze, strumenti? La risposta che noi abbiamo dato a queste istanze è APPARECCHIO PER APRIRE DAL DI SOTTO. Con questo progetto abbiamo partecipato al bando che fare2 formalizzando la nostra esperienza, cercando di esprimere le nostre pratiche attraverso un progetto collettivo nella misura in cui è una rete a proporlo, attraversabile nella misura in cui è aperto a chiunque voglia parteciparvi una volta attivato, implementabile nella misura in cui ogni partecipante lo può modificare e aggiornare attraverso la propria esperienza. Il progetto parte quindi da esperienze “locali” che fanno rete tra loro. Da esperienze che si stanno interrogando da tempo sulle trasformazioni sociali in atto e sull’incapacità delle istituzioni di recepire questi cambiamenti, sperimentando modi nuovi di organizzazione, gestione e relazione.

Apparecchio per aprire dal di sotto è una piattaforma web di condivisione dei mezzi di produzione, un modello sperimentale di relazioni che nello scambio di lavoro, competenze e conoscenze fonda il proprio registro, è un sistema per la sperimentazione di nuove forme di economie in cui il valore è dato ai mezzi e non alla moneta, è una piattaforma per l’attivazione di pratiche di crowdfunding, di processi collaborativi volti non solo alla mera raccolta di risorse per la realizzazione di un’idea ma alla condivisione del progetto stesso da collettivizzare in un’ottica che lo porta a diventare un nuovo pezzo del sistema.

Ciò che è in gioco, come scriveva Hann Arendt (1958), è proprio quel rivelarsi senza cui l’azione e il discorso perderebbero ogni rilevanza umana. Ossia la messa in rete delle pratiche già in atto nei centri di ricerca artistica indipendenti, alimentate dalle relazioni dirette tra le persone che operano su progetti comuni, che discutono di nuove forme di aggregazione tra cultura e economia, che attraverso laboratori interculturali e itineranti, ripensano e producono linguaggi inediti innovando la comunicazione, le arti performative, concetti e modi di abitare la città. La rete è dunque espressione concreta delle pratiche sul territorio messe in atto nei movimenti, dove l’azione si salda inscindibilmente al discorso, e nel contempo è una forma di comunicazione estesa e aperta delle politiche basate sulle condivisione di spazi e mezzi di produzione liberati e riconsegnati alla dimensione pubblica di “luogo”, sfruttando i gradi di libertà di brani urbani residuali, incolti e degradati, e negati alla comunità cittadina. È un’idea di rete a-sistemica, fluida e informe, effimera e cangiante, che mappa il territorio tratteggiando i flussi di un’urbanità debole e diffusa, seguendo i moti dell’agire incerto, proprio della ricerca e dalla sperimentazione che non si pone il raggiungimento di risultati o prodotti finali, perché l’intento è quello di restare accessibile e trasformabile nel tempo. Lo spazio liberato è attracco e approdo, proprio perché legato al senso sostanziale di luogo che prende forma dalle relazioni che lo abitano con la consapevolezza che il primo atto dell’abitare è quello dell’aver cura, e che le pietre, come annotava Eugenio Gentili Tedeschi, sono parole. Il territorio è il detonatore da cui prendono corpo le azioni per sperimentare nuove forme di comunità, che trovano nella rete la porosità e la mobilità di cui hanno bisogno per attuarsi, essere condivise, innovarsi e autogenerarsi. Cosa implica attivarsi per condividere la messa in rete delle politiche di produzioni culturali bottom-up? Innanzi tutto rinunciare al concetto di “sovranità” dello spazio, e lavorare per renderlo davvero permeabile, partendo proprio dalle pratiche e da queste estendere le esperienze senza farne modelli replicabili o scalabili, per viverle piuttosto come agorà di dibattito politico e culturale, che attraverso la rete possono espandersi alla ricerca di intrecci con situazioni geopolitiche anche molto diverse. La storia dei centri culturali indipendenti e del loro “fare-rete” ripercorre le mobilitazioni e le lotte per il territorio che, accese dalle insurrezioni metropolitane, elaborano nuove visioni dell’“istituzione culturale”, sfruttando la diffusione ramificata delle esperienze e dei conflitti locali, come nesso per consolidare, amplificare e aumentare gli strumenti di cogestione per una trasformazione delle città a partecipazione diretta e realmente allargata. Bene comune, istituzione, uso e trasformazione del territorio, e più in generale politica del lavoro culturale sono i fili rossi che tengono insieme i diversi ambiti di sperimentazione su cui è impegnata la cittadinanza attiva a livello internazionale. Pratica e verifica politica fluttuano e alimentano la rete come strumento di conoscenza del territorio, come piattaforma di beni condivisi e come espansione delle riflessioni che scaturiscono dalla trama generata dalle produzioni culturali.

 

Per una piattaforma culturale realmente condivisa, la possibilità di coltivare, mutuare e diffondere liberamente conoscenze e produzioni, tutelando iniziative e progetti indipendenti, sono presupposti per noi basilari. Così come il riuso è inteso non solo come riattivazione di uno spazio inutilizzato, ma piuttosto in quanto ricollocazione dell’abitare come pratica che tiene insieme produzione e cultura, partendo da necessità concrete e da desideri di persone che hanno scelto le arti contemporanee e la cultura come collanti tra lavoro, politica, vita. La rete dei centri artistici indipendenti è anche lo strumento per eludere la rete istituzionale dei circuiti culturali mettendone a nudo le strategie escludenti basate su rapporti privilegiati tra istituzioni e mercantilismo, a partire dai festival, fino alle rassegne teatrali e cinematografiche, e aprendo nuovi immaginari di interazione e sinergia tra arti, critica e finanziamenti. Questi spazi sono luoghi di produzione artistica in continua trasformazione, accessibili liberamente, attraversati da percorsi teorici e pratiche condivise di ricerche e di sperimentazioni che intrecciano diversi ambiti della cultura e del lavoro, dall’arte performativa alla musica, dal teatro al cinema, dall’architettura alla letteratura, dall’economia alla pedagogia, inserendosi nel tessuto urbano come catalizzatori di socialità attivate da nuove forme di creatività e coproduzione dove confluiscono i molteplici linguaggi delle arti contemporanee. Qui progetti, seminari, produzioni artistiche e performative sono la messa in atto di processi di partecipazione aperta, basati sull’auto-organizzazione, sul confronto assembleare e sulla condivisione dello spazio, della cura costante che esso comporta e delle attrezzatture necessarie all’autoproduzione e alla libera circuitazione delle produzioni. Le forme aperte di condivisione e di progettazione, nonché i temi politici affrontati nelle pratiche e nei processi di teoria-azione, hanno allargato il ventaglio della discussione e incrementato la messa in comune di competenze e strumenti, estendendosi oltre confine. L’intento è scardinare le logiche verticistiche che hanno portato all’erosione dei diritti di cittadinanza attiva, favorendo il dilagare di una crisi sociale, prima ancora che economica, imposta dall’attuale sistema economico-sociale fondato sulla competizione, l’isolamento, l’alienazione e la mercificazione del lavoro (oltre che della persona) come valore di scambio piuttosto che valore d’uso. La volontà è di farlo attraverso le potenzialità della rete, che ha il vantaggio di mantenere solidali due registri: quello puntuale dell’affondo su situazioni e temi specifici e quello di un discorso condiviso che tiene conto delle differenze.

Tutto questo a Macao si concretizza anche con l’allestimento di “stanze” che affacciano sull’impluvium dell’ex-macello di via Molise 68. Dopo l’apertura del bookcrossing, del caffè letterario, dell’officina e del laboratorio artigianale e della sala cinema, il 7-8-9 marzo inaugurano la biblioteca-archivio, la sala di registrazione audio, la sala prove teatro, per aprire dal di sotto le risorse presenti a M^C^O e in altri spazi di produzione culturale, con un momento di dibattito aperto alla città, insieme alle lavoratrici e ai lavoratori dell’arte e della cultura. Tutto rigorosamente autocostruito, abbantendo i costi di produzione con il riutilizzo di materiali di recupero, trovati e ricomposti grazie all’autoformazione e al mutualismo della rete.

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