Droga e machete? La Mara Salvatrucha e la sua (supposta) proliferazione in Italia

Pubblichiamo un estratto da “Il limbo urbano. Conflitti urbani, violenza e gang a Città del Guatemala” (Ombre Corte 2015), ripreso dal suo autore alla luce dei recenti fatti di cronaca milanesi.

 

Milano, giovedì 11 giugno 2015. Tre ragazzi latinoamericani – presunti membri della temibile Mara Salvatrucha, una delle principali gang centroamericane – aggrediscono con un machete un capotreno nei pressi della stazione di Villa Pizzone, staccandogli quasi un braccio. Si scatena un’ondata di panico morale. Le maras starebbero conquistando Milano, impiegando una violenza brutale: riti di iniziazione, pestaggi, omicidi, spaccio di droga. Il pandillero (membro di gang) incarna il fantasma della migrazione, lo scontro culturale. La stampa italiana alimenta il clima da caccia alle streghe. Vengono scomodate famose firme. Roberto Saviano, citando fonti del giornale on-line salvadoregno El Faro, scrive un lungo articolo  su «la Repubblica» dove descrive alcuni elementi che caratterizzano questi gruppi sociali.
A dire il vero, non è la prima volta che si parla di gang centroamericane in Italia. Ad ottobre 2013, ad esempio, venticinque supposti membri della Mara Salvatrucha furono arrestati in seguito a una ben pubblicizzata operazione della polizia. Tuttavia, l’evento di Villa Pizzone si caratterizza per alcuni elementi peculiari: è brutale e insensato; è diretto contro un italiano; avviene in un periodo storico in cui il clima politico e l’opinione pubblica sono particolarmente sensibili al tema della migrazione.

Le maras d’altro canto affascinano. I loro membri richiamano la figura del fuorilegge, sfidano il socialmente consentito, tatuano i loro corpi, rispettano un proprio codice d’onore. È questo immaginario a informare la maggior parte degli articoli di giornale. L’errore – se di errore si può parlare – sta nel considerarlo un dato di fatto concreto, cronaca pronta all’uso da non problematizzare. In realtà quell’immaginario è costruito e alimentato dagli stessi mareros, che però lo riproducono e lo concretizzano contestualmente, secondo schemi d’azione diversi e non sempre corrispondenti alla propria mitologia. Un esempio concreto: l’ostentato rituale d’ingresso, la cosiddetta pegadita, ossia il pestaggio rituale, non rappresenta l’unico accesso possibile alla mara. Un interessante studio del 2008 condotto da Elin Cecilie Ranum lo dimostra. Venne domandato a 65 pandillero incarcerati in diverse prigioni guatemalteche di descrivere il proprio rito iniziatico. Il 16,9% dichiarò di aver dovuto uccidere un membro della banda rivale; il 13,9% spiegò di aver dovuto superare una prova ed obbedire a regole precise, senza però specificare il tipo di prova o di regole; un altro 13,9% dichiarò di non aver dovuto superare nessuna particolare prova; il 10,8% disse che era stato sufficiente dimostrarsi forti; solo il 9,2% affermò di aver dovuto superare un periodo di messa alla prova; il 7,7% spiegò di essere entrato nella banda semplicemente «vacilando» con pandillero attivi, cioè «andando con loro»; il 12,3% non rispose e la restante parte menzionò altri meccanismi. Pochi, dunque, sostennero di essere stati sottoposti alla pegadita. La tradizione mitizzata e tramandata della mara nasconde quindi pratiche quotidiane eterogenee e contestuali.

Quello che deve preoccupare non è la supposta (e, come dimostrano tutti gli studi in materia, improbabile) rete malavitosa internazionale, quanto la presenza di migranti nel nostro territorio che stanno attingendo a quell’immaginario, in risposta però anche a dinamiche locali. Le maras milanesi non sono un nemico esterno venuto da lontano. Sono piuttosto effetto di elementi strutturali legati altresì alla nostra società.

Non si tratta, naturalmente, di giustificare l’atto di violenza compiuto. Tuttavia, se vogliamo comprenderne le cause, occorre abbandonare una prospettiva che ci induce a pensare a quei ragazzi come a cattivi violenti stranieri pronti a mettere a ferro e fuoco i nostri sicuri spazi urbani.

Tra il 2010 e il 2013 ho condotto una ricerca etnografica a Città del Guatemala incentrata sul tema delle maras. Ho vissuto nelle periferie della capitale, intervistando ex membri e membri attivi di gang locali. Ho pubblicato i risultati di quella ricerca a marzo 2015 in una monografia intitolata Il limbo urbano. Conflitti urbani, violenza e gang a Città del Guatemala (Ombre Corte). Di seguito un breve stralcio di quel lavoro (pp. 140-143) che mi auguro possa fornire qualche strumento interpretativo anche rispetto ai fatti di cronaca milanesi.


«La clecha è la filosofia della pandilla». Così mi disse Oscar Martinez, giornalista salvadoregno mio coetaneo che seguì per più di un anno la via dei migranti centroamericani verso gli Stati Uniti, intervistando narcotrafficanti, pandillero, prostitute, poliziotti, preti, un caleidoscopio di personaggi incontrati lungo il camino.[1] Ci eravamo dati appuntamento in uno dei locali storici di Città del Guatemala. Io avevo iniziato la mia ricerca forse da un mese.

Come mi spiegò Oscar, la clecha è il sapere condiviso della pandilla, il fulcro della sua auto-rappresentazione. Ma la clecha non è un bagaglio di competenze immediatamente disponibile, accessibile a chiunque. L’educazione del pandillero passa attraverso un processo biunivoco. La clecha non è solo impartita. La clecha va conquistata. Quanto più un pandillero saprà dimostrare lealtà al proprio gruppo, tanto più potrà accedere alla conoscenza.[2] Tempo dopo Alberto, ex membro della 18 – uno dei ragazzi pandillero incarcerati che ebbi l’opportunità d’intervistare – mi confermò questa concezione:

Uno incomincia, deve mettersi in molte cose.
E così uno sale la gerarchia…
Sale il livello del tuo rispetto
E ti insegnano la clecha…
Sì, la clecha
E uno deve impararla
Deve guadagnarsela più che altro.[3]

Adílio, l’ex pandillero impegnato in progetti di reinserimento lavorativo, adottò nei miei confronti lo stesso dispositivo. Dovetti conquistarmi poco a poco la sua fiducia, seguendolo nei suoi spostamenti, apprendendo il linguaggio della calle, appoggiandolo per quanto possibile nelle sue attività e cercando di essere d’aiuto alla sua equipe formata in maggioranza da ex carcerati, ex ragazzi di strada ed ex membri di bande giovanili. Adílio, come in una relazione educativa asimmetrica, m’impartì il suo sapere sulle mara e le pandilla guatemalteche, mi diede clecha:
L’altro giorno stavo camminando in Zona 1 al fianco di Adílio.

“Tu cosa pensi della pena di morte, Paolo?” mi ha chiesto.
Mi sono affrettato a rispondere, a comunicare il mio sdegno per una pratica che considero incivile.
“Sei mai stato in carcere?”
“No”.“Per questo”.

Adílio è favorevole alla pena di morte. La sua è l’espressione del punto di vista di un victimario, di un reo, di un condannato. Non che la pena di morte sia efficace in quanto deterrente contro la delinquenza. Per Adílio, che conosce l’universo sociale delle prigioni guatemalteche, piuttosto che scontare un ergastolo, piuttosto che passar tutta la vita rinchiuso, meglio morire. La pena di morte rappresenta per lui, semplicemente, un’indulgenza, un atto di compassione.[4]

La clecha è il capitale simbolico dei pandillero, il “way of life” che ne modella le disposizioni. In breve, una costellazione simbolica incorporata attraverso la pratica e successivamente oggettivata ed istituzionalizzata in modo da riprodurne le strutture. Molti dei ragazzi che intervistai in carcere mi fecero accedere ai principi centrali della loro tradizione. Come con Adílio, man mano che mi conobbero, man mano che acquisirono fiducia nei miei confronti, iniziarono a darmi clecha.

D’altra parte, il mio ruolo in quanto “ricercatore straniero in Guatemala per studiare il fenomeno del banditismo” si rivelò tutt’altro che passivo. Al contrario, fui coinvolto dagli stessi ragazzi incarcerati in un processo di essenzializzazione e di riproduzione della loro rappresentazione pubblica. Solo grazie al racconto, solo grazie alla condivisione del loro capitale simbolico, i pandillero (o ex pandillero) potevano davvero definirsi tali. Il ricordo del proprio passato, della propria vita “sulla strada”, favoriva non solo la socializzazione, ma rappresentava inoltre una pratica di affermazione personale, attraverso la quale ribadire autonomia e dignità, in opposizione alle condizioni deprivanti e spersonalizzanti del carcere:

[Ti importa solo della] tua famiglia e del tuo barrio [18.] E il barrio è pure come una famiglia. Da lì uno comincia. Perché lì alla fine è tuanis [figo]. Si vive bene. Vai in giro con soldi… Cibo, droga… Telefono, catene, ben vestito, di tutto. Pure le donne. Però te lo devi guadagnare. Per dire, non è: “Io voglio essere della 18”. Va bene, te lo devi guadagnare.[5]

Ciò nonostante, i racconti dei pandillero privati di libertà spesso non trovavano un riscontro oggettivo e tangibile nella quotidianità della prigione. La clecha emerse in quanto “finzione”. L’universo di significati che mi venne descritto si concretizzava piuttosto in un insieme di pratiche incoerenti, a volte difficilmente riconducibili al sapere della clecha. Così, ad esempio, la supposta lealtà intercorrente tra pandillero rinchiusi nello stesso settore lasciava il posto a soprusi ed abusi di potere legati ad una gerarchia poco trasparente a cui i ragazzi dovevano sottostare.

Le narrazioni riguardanti la clecha tendevano a concentrarsi in­torno a tre componenti specifiche: lo stile, la ritualità, l’opposizione all’altra gang. Lo stile del pandillero rappresenta un biglietto da visita, l’impronta esteriore della propria distinzione: capelli rasati, baffi, ve­stiti larghi e tatuaggi (anche sul volto, nonostante le leggi repressive implementate in tutti gli stati centroamericani negli ultimi anni abbia­no favorito il progressivo abbandono di questa pratica, almeno al di fuori delle carceri), un linguaggio gergale, una specifica gestualità, l’utilizzo di una certa iconografia.

Gli elementi dello stile marero non sono in sé qualcosa di originale. Essi sono ricavati da prodotti offerti dalla società dominante, accessi­bili a chiunque sul mercato del consumo, scambiati attraverso traffici culturali che oltrepassano le frontiere nazionali. È però la ricomposi­zione e la riconcettualizzazione di quegli oggetti e di quelle pratiche all’interno di un discorso ordinato localmente (attraverso un’operazio­ne che Levi-Strauss definirebbe di bricolage) a fare dello stile marero una forma alternativa al senso comune. La bandana non è stata inventata nelle periferie delle capitali centroamericane, ma diviene simbolo marero se messa in relazione ad altri prodotti che, presi nel loro insieme, costituisco­no i fattori orientativi di una particolare costruzione identitaria. Sono prodotti che acquisiscono significato profondo per chi li utilizza, tanto da poter essere sostituiti solo a patto di una ridefinizione dell’intera costruzione. E, talvolta, neppure grazie a essa, come mi di­mostrò Juan, ventenne, ex membro della Pandilla 18 incarcerato:

Juan in prigione ha deciso di cambiare vita. Convertitosi al cristianesimo, ha iniziato a seguirne scrupolosamente i precetti. Rispettato dai suoi compagni e dal personale carcerario, Juan è considerato da tutti uno dei leader del proprio settore. Eppure continua a vestire alla cholo [lo stile marero], specie nelle occasioni dove si sente obbligato a dover ostentare pubblicamente il proprio status sociale. In un torneo di calcio a cinque contro detenuti di altri settori, Juan ha indossato la sua bandana nera durante tutte le partite. Come una divisa, un marchio distintivo da esibire all’interno dell’ordina­mento carcerario[6].

In prigione, come sulla strada, lo stile marero è soggetto a ciò che alcuni autori hanno chiamato “l’estetica della colpevolezza”.[7] Le rappresenta­zioni pubbliche sul banditismo favoriscono infatti la diffusione e la contemporanea criminalizzazione di determinate forme espressive. Così in Guatemala il tatuaggio è, in molti contesti sociali, immedia­tamente associato alle pandilla, tanto da costituire un ostacolo per la ricerca di un impiego. I pandillero, dal canto loro, per mezzo di un’inversione simbolica nota agli scienziati sociali, hanno fatto di quello stigma il proprio emblema. La colpevolizzazione diviene motivo d’orgoglio. La bandana si trasforma in bandiera.

Note

[1] Ossia il tragitto dei migranti centramericani verso gli Stati Uniti. Martínez, Óscar. Los migrantes que no importan. En el camino con los centroamericanos indocumentados en México. Barcelona, Icaria Editorial, 2010.

[2] Note di campo, 5 febbraio 2011.

[3] Intervista del 6 aprile 2011.

[4] Note di campo, 8 agosto 2012.

[5] Intervista del 6 aprile 2011.

[6] Note di campo, 9 maggio 2011

[7] Cannarella, Massimo, Lagomarsino, Francesca e Queirolo Palmas, Luca, Hermanitos. Vita e politica di strada tra i giovani latinos in Italia, Ombre Corte, Verona, 2007.

 

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