Nuovo cinema tedesco

Oggi alle 11.30, presso la Libreria Einaudi di Siena, Giovanni Spagnoletti, Luca Venzi e Giacomo Tagliani, presenteranno il volume Nuovo Cinema Tedesco (Junger/Neuer Deutscher Film). 17 studi (Fondazione Ente dello Spettacolo, 2014. Pubblichiamo un estratto del saggio di Spagnoletti.

Ripensare il “Nuovo Cinema Tedesco”? Alcuni problemi aperti

Le origini e la fine del Nuovo cinema tedesco

Per delle ragioni spiegabili solo con sfuggenti componenti socio-antropologiche (in primis la coesione personale di una nutrita generazione di cineasti, pur nella profonda diversità delle singole poetiche; poi un modello produttivo assolutamente artigianale da “one-man-band”), il Nuovo Cinema Tedesco (NCT)  ha conosciuto una vita straordinariamente e inusitatamente lunga per un movimento cinematografico: vent’anni o più.

Una durata abnorme che risalta rispetto ad analoghi fenomeni di gruppo, ad esempio al neorealismo prima e poi alla Nouvelle Vague, al Free Cinema e a tante altre esperienze nazionali (dall’America Latina ai Paesi dell’Est) che hanno caratterizzato in tutto il mondo l’emergere del cosiddetto cinema moderno sino ad arrivare, quasi alla chiusura del millennio, a “Dogma 95”.

Sotto molti aspetti poi lo Junger/Neuer Deutscher Film sembra essere stato un caso esemplare nel soddisfare le esigenze del più pignolo e rigido degli storici: ha una precisa data di nascita (il 28 febbraio 1962) durante l’ottava edizione dei “Westdeutsche Kurzfilmtage Oberhausen” (oggi “Internationale Kurzfilmtage Oberhausen” [Giornate internazionali del cortometraggio di Oberhausen]); un documento fondativo, il celebre Manifesto di Oberhausen, in cui nel dichiarare morto il “cinema di papà” si esprimeva l’intenzione di fondarne uno nuovo, adeguato ai tempi e alle più moderne tendenze estetiche; una serie di firmatari, 26 giovani tra cui i più noti sono restati nel tempo i registi Alexander Kluge, Edgar Reitz, Haro Senft, Peter Schamoni e Herbert Vesely e l’attore Christian Doermer che hanno contribuito in parte ma di sicuro non in modo esclusivo alla nascita del fenomeno soprattutto nella sua fase iniziale; un bel numero di cortometraggi e un pugno di lungometraggi “anticipatori” tra cui Zwei unter Millionen [1961; Due in mezzo a milioni] di Victor Vicas e Wieland Liebske (entrambe personalità estranee al Manifesto) e due film di “Oberhausener”: Das Brot der frühen Jahre [1962; Il pane degli anni verdi] di Vesely e il bellissimo (oggi riscoperto) Die Parallelstrasse [1962; La strada parallela] di Ferdinand Khittl, un autore di vaglio caduto ormai da tempo nel completo dimenticatoio.

Il resto, dopo questo evento, è storia molto nota e più volte scritta: l’emergere di un secondo gruppo “antagonista” sotto il profilo estetico, quello dei “Sensibilisti” di Monaco (i registi Eckhart Schmidt, Klaus Lemke, Rudolf Thome, lo sceneggiatore Max Zihlmann) sotto l’ala protettrice di Jean-Marie Straub/Danièle Huillet e del documentarista Peter Nestler; il contemporaneo debutto di personalità di provenienza diversa quali quelle di Volker Schlöndorff o di Werner Herzog (il primo dalla Francia, il secondo totale autodidatta), proprio quando a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta con il denaro stanziato tramite il “Kuratorium Junger Deutscher Film” nasceva il primo tassello di un modello esemplare (pensato e caldeggiato dal teorico Alexander Kluge), di un cinema culturale assistito dallo Stato ma poco amato, salvo rarissime eccezioni, dal grande pubblico tedesco a differenza dell’interesse suscitato nell’arengo internazionale; il successivo, progressivo emergere di un folto gruppo di cineasti di vaglio che grazie ai finanziamenti dello Stato (o della TV) debuttano nel lungometraggio a cavallo dei Sessanta-Settanta, tipo Rainer Werner Fassbinder, Wim Wenders, Werner Schroeter (purtroppo deceduto nel 2010), Peter Lilienthal, Hans W. Geissendörfer, Hans Jürgen Syberberg, Reinhard Hauff, Margarethe von Trotta, Rosa von Praunheim, Herbert Achternbusch, solo per ricordare i nomi più noti fuori dalla Germania.

Se dunque la data di nascita del NCT è acclarata e incontestabile (salvo poi privilegiare questa o quella tendenza, quello o quell’altro filmmaker, e chiedersi poi quanto il Manifesto in sé abbia veramente contato in tutta questa evoluzione), meno lo è quella di morte.

Qui le scuole di pensiero e le ipotesi sono molto meno unanimi e precise: c’è chi, come il sottoscritto, la fa coincidere con il 1982, anno simbolico sia per la scomparsa di Rainer Werner Fassbinder, il “cuore”, come è stato definito, la pompa pulsante del movimento, sia per la fine della coalizione socialdemocratica-liberale che aveva coltivato e coccolato il cinema d’autore (salvo poi disconoscerlo nel 1977 all’apice del feno- meno terrorista) come un suo fiore all’occhiello, e il concomitante inizio della lunga era del cristiano-democratico Helmut Kohl (1982-1998).

C’è invece chi propende per il 1984, data d’uscita dell’ul- timo dei grandi capolavori (monstre) del NCT: il primo Heimat di Edgar Reitz; ed infine chi arriva sino alla caduta del Muro di Berlino e alla cosiddetta “Wende” (Svolta) del novembre 1989, quando si chiude il lunghissimo dopoguerra tedesco (e non solo). Può darsi che l’anticipare o il posticipare alla fine degli anni Ottanta la fine del fenomeno del NCT possa sembrare solo un’inutile questione di lana caprina – personalmente, però, ritengo che il cinema nato in quel periodo di trapasso sia che si parli di kolossal culturali d’autore come il magnifico Berlin Alexanderplatz (1980; Id.) di Fassbinder, sia di film pensati per il mercato internazionale prodotti dalla Bavaria (Das Boot [1981; U-Boot 96] di Wolfgang Petersen) o di commedie esistenziali come Männer… (1985; Uomini) di Doris Dörrie, appartiene ormai ad una fase cinematografica completamente differente – uso un termine assai poco scientifico – dallo “spirito” originario con cui era nato il NCT.

Non si tratta di una valutazione estetica perché trattasi ognuna a suo modo di opere ampiamente riuscite, tuttavia non corrispondono più al rigore magari pauperista magari elitario e sperimentale di film realizzati solo qualche anno prima. Un po’ come nel cinema americano coevo alla fine dei Settanta si era ormai concluso un periodo e se ne apriva uno differente, anche se la transizione nel corso del decennio è stata molto più lunga e complessa, il cambio generazionale più traumatico, le condizioni storiche totalmente mutate (basti solo pensare alla fine di due Repubbliche nemiche e contrapposte).

Riportiamo qui di seguito il testo completo del Manifesto di Oberhausen

La bancarotta del cinema convenzionale tedesco distrugge finalmente il supporto economico di una mentalità che respingiamo; in questo modo il nuovo cinema acquista la possibilità di vivere. Cortometraggi tedeschi di giovani autori, registi e produttori hanno ricevuto negli ultimi anni un gran numero di premi nei festival internazionali e ottenuto il riconoscimento della critica internazionale. Queste opere e il loro successo dimostrano che il futuro del cinema tedesco è in chi ha mostrato di parlare un nuovo linguaggio cinematografico. Anche in Germania come in altri Paesi, il cortometraggio è diventato la scuola e il campo di sperimentazione del film a soggetto. Noi dichiariamo la nostra ambizione di creare il nuovo film tedesco a soggetto.

Questo cinema ha bisogno di nuove libertà: deve essere liberato dalle convenzioni abituali dell’industria cinematografica, da qualunque tentativo di commercializzazione, da ogni tutela finanziaria. Nei riguardi della produzione del nuovo cinema tedesco, abbiamo delle idee concrete sul piano intellettuale, estetico ed economico. Insieme siamo pronti ad assumere i rischi economici. Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo. Bodo Blüthner, Boris von Borresholm, Christian Doermer, Bernhard Dörries, Heinz Furchner, Rob Houwer, Ferdinand Khittl, Alexander Kluge, Pitt Koch, Walter Krüttner, Dieter Lemmel, Hans Loeper, Ronald Martini, Hans Jürgen Pohland, Raimund Ruehl, Edgar Reitz, Peter Schamoni, Detten Schleiermacher, Fritz Schwennicke, Haro Senft, Franz-Josef Spieker, Hans Rolf Strobel, Heinz Tichawsky, Wolfgang Urchs, Herbert Vesely, Wolf Wirth».

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