9 Aprile, Stati Generali della Precarietà, Sciopero Generale. Prendiamo parola.

di Carlo Antonicelli

Questo articolo è stato pubblicato sul blog “Scrittori precari” il 9 aprile.

Abbiamo di fronte a noi un mese che ha tutte le potenzialità per essere qualcosa di lontano dagli stanchi rituali della mobilitazione che da anni hanno perso la capacità di incidere sulle contraddizioni della realtà politica e sociale italiana. Le date che si inanellano dal 9 aprile al 6 maggio possono diventare l’occasione per mettere a punto una “direzione culturale comune” attraverso cui interpretare le condizioni di vita e di lavoro in Italia e pensarne quindi la successiva trasformazione. Ma non solo. Dovremmo far nostra l’ambizione di libertà che si respira nel Mediterraneo, ritrovando la forza di credere che la Storia non la fanno solo gli eserciti e i capi di Stato. La contingenza storica che stiamo attraversando ci invita a sollevarci dal soporifero letto di piaceri immaginari che narcotizza le nostre vite, farla finita con la raccolta di testimonianze, e piuttosto scegliere la parte di chi lascia solo testimoni attorno a sé; invece di emozionarci esclusivamente per le piccole storie, non potremmo riscoprire la passione inattuale per la Storia?

La mobilitazione nazionale del 9 aprile, “Il nostro tempo è adesso”, gli Stati Generali della Precarietà, il 1 maggio e la May Day, hanno in comune la volontà di ordinarsi, per necessità, nel paradigma della “condizione precaria”. Anche il 6 maggio, lo sciopero generale, deve essere il momento in cui una condizione d’esistenza generale diventa sapere collettivo: diremo che davanti a questo sistema di governance economico, politico e finanziario siamo tutte/i precari. Lo sono i lavoratori con contratto atipici così come gli immigrati, i ricercatori, gli studenti, le partite Iva; gli intermittenti dello spettacolo e quelli in cassa integrazione; gli stagisti, i disoccupati e gli inoccupati, così come gli operai di Mirafiori e Pomigliano. Ma davanti ad un Stato che ha rassegnato le dimissioni dal compito di tutelare i beni comuni (e in primis il lavoro, come recita l’articolo 1), tutte/i cittadine/i vivono in una democrazia precaria. È quindi proprio nella condizione di vita precaria che si deve fondare una visione del mondo, quindi una politica.

Nello stato di impotenza in cui si trova il lavoro oggi, la precarietà si associa costantemente alla parola “ricatto”. E questo termine ricorre costantemente nelle tante storie di vita che si ascoltano per tutta la penisola, dal Nord al Sud, indistintamente. È il ricatto in cui si scambiano i diritti per il salario – se non per il lavoro stesso – e in cui gli stessi diritti diventano privilegi insopportabili a fronte della costante minaccia di dumping sociale, dentro e fuori i confini nazionali. Le condizioni che rendono il ricatto possibile sono generate dall’asimmetria abissale tra lavoro e capitale, che, negli ultimi trent’anni, si è sbilanciata totalmente a favore di quest’ultimo. Gli strumenti politico-sindacali forgiati nel Novecento sono armi spuntate contro flussi di denaro che viaggiano nei cieli della finanza e sulle vaste terre asiatiche. Poco può uno sciopero tradizionale di fronte ad un processo di produzione diffuso globalmente. Oggi, lo sappiamo bene, la creazione di ricchezza non passa più soltanto per le mani operaie e il valore di un determinato prodotto si misura più nel suo brand che nella trasformazione reale di materie prime. Ma non torniamo a ripeterci la filastrocca del lavoro cognitivo, che già abbiamo mandato a memoria: le promesse della società dell’informazione sono andate infrante da tempo, la disoccupazione è a livelli record, il reddito pro capite è fermo al palo. La net-economy non ha liberato il lavoro, anzi. Abbiamo speso risorse e denaro per costruirci una formazione che questo mercato del lavoro non sa mettere a frutto. Servono dispositivi nuovi, pratiche di conflitto e di proposta all’altezza di un nuovo modello produttivo e sociale. Tuttavia, fintato che i rapporti di potere tra forze produttive e capitale rimarranno inchiodati all’attuale status quo, le parole resteranno scritte nel vento; finché i “tasselli del mosaico sociale” non saranno ricomposti, e non saremo capaci di costringere la controparte ad un confronto, una riforma contrattuale complessiva e un serio discorso sul welfare saranno fuori portata.

Il peso della crisi economica, segnatamente all’Italia, ha intanto peggiorato il livello di polverizzazione della società, aumentando il tasso di razzismo e d’intolleranza nel paese. L’offensiva che l’ideologia neoliberista ha approntato sin dagli anni ’80 (suggellata dall’ambigua affermazione di Ronald Regan nel 1981: «Lo Stato non è la soluzione ai nostri problemi, ma ne è la causa») sta avendo il suo apice proprio ora, negli anni che seguono la crisi del 2007. La dismissione totale dei benefit che lo Stato aveva dovuto concedere alla classe lavoratrice nel secolo scorso è giunta quasi a compimento. Il compromesso tra forze produttive e padronato sigillato nello Statuto dei Lavoratori è stato prosciugato dall’interno e rimane per molti un miraggio irraggiungibile. La privatizzazione di tutto ciò che prima era pubblico (scuola, sanità, sistema previdenziale, trasporto, acqua, controllo del territorio e sicurezza) ha allo stesso modo assunto un carattere globale. E ogni privatizzazione va di pari passo con la massimizzazione dei profitti (per pochi) e la precarizzazione del lavoro (per tutti gli altri). L’Italia, che tortuosamente si dibatte per uscire dal modello fordista, senza per altro aver trovato un nuovo sistema che leghi produzione, cittadinanza e diritti, ha visto esplodere la crisi in modo peculiare, attraverso due episodi estremamente simbolici: i fatti di Rosarno e l’affermazione del modello Marchionne nelle fabbriche Fiat (che promette di fungere da apripista per tutti gli altri). In entrambi i casi il lavoro ci è stato rappresentato come una variabile totalmente subordinata a un ordine superiore incontrovertibile: il mercato. Ed anche a costo di assistere agli schianti micidiali della crisi economica, la governance globale, così come quella locale italiana, non hanno mosso un dito per mettere mano ad un sistema di (sotto)sviluppo che è un abominio per i 2/3 del mondo. D’altra parte non siamo rimasti a guardare, è bene ricordarlo. Sullo sfondo c’è stato l’intero corpo studentesco che si è battuto per costituire dei legami che tenessero insieme le resistenze ai violenti strappi che la crisi ha determinato. Ad oggi forse ci sono solo macerie da ereditare, ma sarebbe bene usare il tempo che abbiamo per gettare le fondamenta alla casa che vogliamo abitare nel prossimo futuro. Punti di riferimento non c’è ne sono molti, modelli pre-costituiti da adottare nemmeno; ci restano le nostre intelligenze e le forze che saremo capaci di mettere nella trama comune.

Dovremmo provare ad approfondire sul serio come si fa una ricomposizione di soggettività multiple (dai migranti agli “operai della conoscenza”, per esempio), come ci si rappresenta o autorappresenta, se dentro una rete o attraverso altre forme. È il momento di interrogarci su come autonomia e capacità egemonica lavorano sincronicamente, senza che ci si limiti a curare gelosamente il giardino di casa propria, ma piuttosto avendo una visione generale della società. La sinergia è stringente e necessaria, anche se non abbiamo ancora idea di come sviluppare insieme dinamiche di forza efficaci. Se possiamo dichiarare ampiamente superato il concetto di “soggetto unitario”, subordinato alla vituperata “cinghia di trasmissione” di questo o quel partito, resta ancora da capire in che modo si metta in moto la trasformazione del nostro paese. Carlo Formenti nel 2008 scriveva che esiste una simmetria tra l’ «l’impotenza del politico a rappresentare il sociale, (ma anche del sociale a rappresentarsi nel politico!)» ragione per cui ancora oggi «senza classi [non c’è] rappresentazione politica, ma senza rappresentazione politica non c’è rivoluzione (qualunque significato si voglia attribuire al termine)» [*].

Forse non siamo andati molto lontani su questo fronte, ma almeno possiamo dire insieme che la condizione di precarietà può e deve essere il banco di prova su cui misurare ogni proposta politica. La formula magica “flessibilità buona/precarietà cattiva” – che ci hanno raccontato per anni – non è più credibile, perché sappiamo bene che senza un welfare adeguato la flessibilità si trasforma automaticamente in condizione di vita precaria.

Nelle settimane a venire abbiamo la responsabilità di elaborare forme di socialità e istituzioni in cui l’accumulazione di pensiero, forza e immaginario si raccolga proprio attorno alla precarietà, condizione esistenziale e materiale, che fa piazza pulita di tutte i sofismi sociologici, dai Libri Bianchi alle menzioni speciali al fondo dei programmi politici e televisivi. Al di là degli stucchevoli duelli tra riformisti e radicali, dobbiamo ri-collocare lo sguardo della società italiana proprio dentro la dimensione della precarietà, intesa come vera e propria forma di vita, non solo di lavoro. La precarietà ci permette di rimettere i piedi per terra, di avere una base materiale comune da cui far sgorgare molteplici visioni del mondo ed allontanare i simulacri ideologici che circolano nel linguaggio comune. Non si tratta di semplificare l’universo cangiante del lavoro, quanto piuttosto di articolare la complessità dentro il paradigma comune della precarietà. Paradigma che investe interamente i comportamenti culturali e gli stili di vita che stanno alla base delle più disparate costellazioni identitarie. Intendo dire che nella trasformazione (e liberazione) del lavoro è in gioco la ridefinizione di un’antropologia sociale consapevole di cosa voglia dire democrazia reale oggi. E quindi ci riguarda il problema dei beni comuni e dell’ecologia ad un tempo. E in questa prospettiva ci riguarda soprattutto la domanda “che cos’è politica oggi?”

Di positivo c’è da menzionare il fatto che nelle settimane di preparazione al 9 Aprile i luoghi dove costruire “narrazioni di socialità” si sono diffusi in lungo e in largo per il paese. Nei quartieri, nelle università e nella metropoli molte persone (e soprattutto giovani), poco interessate all’usurato agone della politica-spettacolo, hanno ritrovato un proprio spazio pubblico. Questo non è tanto, ma è già qualcosa: cittadine e cittadini, gruppi più o meno autorganizzati, si sono incontrati, fuori dai loro luoghi di lavoro, per creare una piattaforma di azione comune entro cui mettere bisogni, desideri, istanze e proposte. Stiamo costruendo una nuova polis, e questa è la base per creare un’identità e un sapere della condizione precaria da spendere nelle lotte.

Il patrimonio di pensieri e proposte che stiamo intessendo potremo metterlo a lavoro il 9 aprile, agli Stati Generali della Precarietà, così come per il 1 maggio e la May Day. Un democratico coinvolgimento dialettico, anche partendo da posizioni differenti, ci deve portare ad un reale forma di riconoscimento che sia il ponte verso una infrastruttura poliedrica dove si coniughino autonomia e forza. Sarebbe auspicabile, per esempio, che Nidil (la confederazione della CGIL che si occupa del lavoro precario) partecipasse con una sua proposta agli Stati Generali della Precarietà. La fine della concertazione decretata de facto da CISL e UIL apre scenari nuovi, a cui la CGIL dovrebbe affacciarsi senza timidezza.

Sarebbe davvero una ventata d’aria fresca se nel mese a venire potessimo intrecciare percorsi che fino ad ora hanno camminato su vie parallele senza mai incontrarsi. Se la condizione di vita precaria diventa problema comune e urgente per tutte/i, possiamo davvero mettere da parte le incrostazioni ideologiche e cercare forme e articolazioni che diano linfa a nuove istituzioni, all’altezza della sfida che il potere ci pone. Tutte le nostre identità pregresse andrebbero messe in discussione di fronte alla necessità di trovare un exit. La posta in gioco è alta e dovremmo spendere al massimo le nostre risorse non per rafforzare identificazioni mummificate, quanto per scoprire che nelle relazioni c’è tanto di nuovo da scoprire. Che cosa abbiamo da perdere?

Leggi qui l’articolo originale.

Note

[*] Carlo Formenti, Cybersoviet, utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, pp.67-68.; cfr. anche p. 66 «tutti i tentativi di superare il concetto di classe sociale, sostituendolo con individui in rete, moltitudini, politeismo dei lavori ecc., funzionano solo finché si applicano a “decostruire” le categorie classiche, mentre vanno in crisi non appena tentano di definire nuove forme di aggregazione sociale».

Print Friendly, PDF & Email
Close